Leymah Gbowee per i diritti delle donne liberiane

Nell’Ottobre 2011 Leymah Gbowee, Ellen Johnson Sirleaf e Tawakkul Karman ricevettero il Premio Nobel per la Pace in conseguenza de “la loro lotta non violenta in favore della sicurezza delle donne e del loro diritto a partecipare al processo di pace”. Oggi parliamo di Leymah Gbowee e del suo perpetuo impegno per i diritti delle donne.

La guerra civile in Liberia:

Gbowee inizia il suo lavoro come attivista insieme al gruppo “Liberia Mass Action for Peace (LMAP)” nell’aprile 2003. La Liberia, suo paese natale era in uno stato di guerra civile da ormai 14 anni. Tutto era iniziato, nel 1989 quando Charles Taylor era entrato in Liberia e, aiutato dalle forze ribelli del Fronte Nazionale Patriottico per la Libertà, aveva minacciato la capitale, Mongrovia, e il governo di Samuel Doe. Dopo nove mesi, Doe fu ucciso e Taylor prese il potere. Questo non fermò le ostilità e nonostante Taylor vinse le elezioni presidenziali del 1997 con il 75% dei voti, quello stesso anno scoppiò una nuova guerra civile. Tra il 1989 e il 2003 morirono più di 270.000 persone, la mortalità neonatale era di 157 morti ogni 1000 nati e la mortalità infantile nei bambini minori di 5 anni era di 235 su 1000. Come conseguenza de conflitto e dell’alto tasso di mortalià infantile, l’80% della popolazione rurale fu costretto alla migrazione.

Il conflitto fu purtroppo caratterizzato dall’uso indiscriminato dello stupro da parte di tutte le parti coinvolte, comprese le truppe internazionali intervenute per ristabilire la pace. Gbowee e le altre attiviste del LMAP iniziarono quindi a protestare per le violenze: la loro retorica era basata su motivazioni concernenti il benessere dei bambini e il futuro del paese. Usarono in particolare tre tattiche: organizzarono manifestazioni pubbliche per rimarcare che le vere vittime del conflitto erano le donne e i bambini, minacciarono di spogliarsi in pubblico e costituirono un’agenda politica per la difesa dei diritti delle donne sia a livello nazionale che internazionale.

Taylor si dimise nell’Agosto 2003 e fu costretto all’esilio in Nigeria. Un accordo di pace fu firmato e nel 2005 furono tenute le elezioni presidenziali che videro la vittoria di Ellen Johnson Sirleaf: prima donna ad essere eletta presidente in uno Stato africano

Il ruolo delle donne nei negoziati di pace:

Decisive per la pace furono le azioni di Gobwee e del LMAP. Vediamo insieme perché queste donne furono così influenti. Per prima cosa le donne evidenziarono il fatto che la guerra aveva portato solo morte e distruzione. Non era una guerra per la terra, il denaro o il potere politico: era una guerra che sterminava madri e bambini. Dopodiché Gbowee e le altre attiviste misero l’accento sul loro status di madri e donne e dunque di “custodi della società”. Misero in risalto il loro ruolo di madri e sorelle degli uomini convolti nel conflitto e sottolinearono l’importanza dell’unità nazionale basata sulla famiglia. Questa retorica funzionò in quanto in Libera il ruolo delle donne, come madri, è molto forte e vi è un senso di rispetto verso coloro che sono viste come creatrici e sostenitrici della comunità e della nazione.

Gli uomini decisero dunque di presenziare ai negoziati di pace perché le loro “madri” lo avevano richiesto. Nonostante ciò, le parole da sole non furono abbastanza per portare ad un vero e proprio accordo di pace, e allora le donne passarono all’azione usando un atto ad elevato valore simbolico: si spogliarono deliberatamente in pubblico. Il 21 luglio Gbowee e le altre attiviste entrarono nell’edifico dove si svolgevano i negoziati e si sedettero fuori dalla stanza dove gli uomini stavano discutendo. Quando furono minacciate di arresto, Gbowee dichiarò che non si sarebbe opposta ma che prima si sarebbe spogliata e si sarebbe mostrata all’assemblea nuda. Successivamente spiegò che in Africa è considerata una terribile maledizione il vedere una donna, sposata e anziana, spogliarsi deliberatamente in pubblico: quell’azione avrebbe evidenziato in modo incontestabile la profonda disperazione delle donne Liberiane. Inoltre, spogliandosi, avrebbe privato gli uomini della loro “mascolinità” e della forza che avevano usato impunemente durante tutto il conflitto, stuprando e uccidendo senza ritegno. Così facendo, Gbowee si stava riappropriando della sua vita e del suo corpo, e nel frattempo smetteva di essere una vittima inerme e diventava politicamente potente e influente. Le attiviste dichiararono che avrebbero lasciato l’edifico solo quando Taylor e le altre parti coinvolte avrebbero preso attivamente parte ai negoziati. I negoziati, dunque, ripresero e infine fu trovato un accordo.

L’importanza del lavoro di Leymah Gbowee nel mondo:

Dopo la firma degli accordi di pace e la fine della guerra, Gbowee continuò i suoi sforzi politici anche fuori dai confini Liberiani. Nel 2006 fondò il Women Peace and Security Network Africa (WIPSEN-Africa) che si occupa di promuovere “la partecipazione strategica delle donne e la loro leadership nelle politiche di pace e sicurezza in Africa”.

In tutti i suoi discorsi e le sue azioni Gbowee sottolinea il potere delle donne comuni e il valore simbolico del corpo femminile. Per combattere il patriarcato e promuovere il potere delle donne come agenti di cambiamento politico, è fondamentale unirsi come donne, madri, sorelle ed esigere l’uguaglianza di genere. Noi di Large Movements condividiamo questo pensiero e abbiamo ritenuto importante condividere con voi la storia di Leymah Gbowee che ha dimostrato al mondo l’influenza che possono avere le donne nei processi di pace ed il vero potere del pacifismo.

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Guerra di confine Eritrea-Etiopia

Le tensioni fra Eritrea ed Etiopia hanno origine alla fine della Seconda guerra mondiale e si sono protratte per tutto il successivo processo di decolonizzazione. All’indomani della Seconda guerra mondiale, a Parigi, nel 1947 le potenze vincitrici optarono per unire le due ricche ex colonie italiane in un’unica federazione a prevalenza etiope. Si cercò di lasciare comunque ampi spazi di autonomia al territorio eritreo attraverso la creazione di un’Assemblea legislativa indipendente. A ben vedere, l’annessione dell’Eritrea all’Impero etiope fu avvallata dalla presenza di un considerevole numero di eritrei di etnia tigrina e di fede cristiana, molto vicino culturalmente al popolo etiope-tigrino abitante la regione del Tigrè al confine con l’Eritrea. Fin da subito il governo etiope, superando gli accordi presi a Parigi, cominciò ad intromettersi negli affari eritrei, delegittimando l’Assemblea eritrea sino a renderla un mero organo amministrativo. La genesi effettiva del conflitto può essere formalmente fatta risalire all’acquisizione totale del territorio eritreo da parte dell’Imperatore etiope Hailè Selassiè, il quale, con un colpo di mano, riuscì a sottomettere l’intera popolazione eritrea al controllo di Addis Abeba – capitale dell’Etiopia. Con questa mossa, l’Imperatore aveva di fatto oltrepassato i margini, seppur effimeri, di autonomia promessi ad Asmara. Parallelamente a tali acquisizioni etiopi al Cairo si formò il Fronte di Liberazione Eritreo (ELF)che aveva come suo obiettivo principale il raggiungimento dell’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia; indipendenza da raggiungersi attraverso la lotta armata e guerra aperta. Originariamente infatti, il partito aveva una forte matrice islamica ma ben presto, parallelamente all’aumento dei consensi, raccolse fra le sue fila esponenti delle più varie fazioni etnico-religiose. Negli anni Settanta l’ELF, ormai divenuto un contenitore politico troppo grande per racchiudere le numerose anime presenti al suo interno, vide distaccarsi l’ala di etnia cristiana ma di ispirazione leninista-socialista, che diede vita al Fronte di Liberazione Popolo Eritreo (EFPF). I rapporti fra i due principali fronti non furono mai sereni tanto da rendersi spesso protagonisti di scontri armati per l’egemonizzazione politica del movimento di autonomia. La guerra di confine si protrasse per decenni causando migliaia di morti e di sfollati, fino al raggiungimento dell’agognata indipendenza eritrea dall’Etiopia nel 1993. Fondamentale per la vittoria eritrea fu l’alleanza di ELF ed EFPF con il Fronte di Liberazione del Popolo Tigrino – movimento politico di etnia tigrina che si opponeva al Governo Militare Provvisorio (DREG) salito al poter spodestando l’imperatore Selassiè. Grazie a detta alleanza infatti, il nuovo fronte indipendentista iniziò prima a conquistare ampie fette di territorio eritreo e, successivamente, ad allontanare le forze etiopi dal confine.   La pace si ritiene formalmente raggiunta nel 1993 con il referendum sull’Indipendenza che sancì la definitiva nascita dello stato dell’Eritrea. Gli osservatori internazionali guardarono alla formazione del nuovo stato nel corno d’Africa come di buon auspicio per la pacificazione della regione. Sfortunatamente nuove dispute territoriali e commerciali si innescarono fra Asmara e Addis Abeba. La pace fra i due stati confinanti infatti, durò ben poco. Nel 1998 il governo etiope attaccò la città di Badammé – piccolo insediamento al confine nord dello stato – riaprendo quindi le ostilità fra i due popoli. Il conflitto fra i due stati del corno d’Africa fu innescato dalla maggioranza tigrina – come si è visto, gli ex alleati etiopi dei movimenti indipendentisti eritrei – gruppo divenuto egemone in Etiopia a discapito delle altre etnie maggioritarie sul territorio, in primis quella Oromo ed Amara. Il conflitto dunque, vedeva contrapporsi popoli appartenenti alla stessa etnia, quella tigrina – più della metà della popolazione eritrea infatti, rivendica l’appartenenza a detta etnia. Se ciò è vero, i motivi scatenanti la guerra di confine non possono trovare fondamento nel conflitto etnico. Se il Fronte di liberazione del popolo tigrino ed il EPLF furono fieramente alleati contro i DERG, in questa nuova fase, l’elitè tigrina etiope voleva imporsi sulla componente tigrina eritrea allo scopo principale di poter dotare nuovamente l’Etiopia di una sua flotta attraverso l’accesso al mare indipendente da Asmara. La guerra si concluse nel 2000 con la pace di Algeri, ritenuta dai maggiori osservatori per i diritti umani una “non-pace” per via del costante stato di conflitto fra i due paesi e anche per la persistenza di azioni militari lungo il confine, di solito scatenate dall’Etiopia. Elemento fondamentale dell’Accordo di Algeri era la creazione di una Commissione per la demarcazione dei confini dei due stati, commissione che sfortunatamente non ebbe mai la legittimità necessaria per dare seguito ai propri lavori. Il clima di conflitto e le battaglie di confine venivano scatenate per lo più dall’etnia tigrina-etiope, confinante appunto con l’Eritrea. La gran parte delle storiche contese territoriali fra i due stati infatti riguardavano propriamente i confini fra l’Eritrea e lo stato federale etiope del Tigrè – a maggioranza tigrina -. Il Fronte di Liberazione del Popolo Tigrino – per decenni al vertice del governo presidenziale – non aveva mai accennato alla possibilità di discutere dei confini con l’Eritrea, poiché, nel caso, l’etnia tigrina avrebbe messo in discussione la sovranità dei territori etiopi che controllava direttamente essendo questi all’interno dello stato federale del Tigrè. Quanto statuito sopra è confermato in materia di politica estera, dall’ascesa al potere dell’attuale presidente della federazione etiope Abiy Ahmed Ali di origine Oromo. Da subito, per limitare l’influenza della storica etnia egemone – quella tigrina appunto – ha voluto fortemente lavorare per una pace con Asmara, da sempre osteggiata dai movimenti politici di estrazione tigrina. Il motivo appare chiaro: attraverso una pace con gli eritrei l’influenza dell’elité tigrnia verrebbe scemando non potendo più contare su una solida rivendicazione territoriale. La ritrovata pace ha da subito generato significativi effetti: numerosi sono stati gli spostamenti delle popolazioni residenti sulla linea di confine per motivi familiari; le merci hanno ricominciato velocemente a circolare fra le due nazioni – in particolare, i commercianti etiopi hanno potuto vendere svariati prodotti alla popolazione eritrea. Il processo di pace e di riavvicinamento però, si è frettolosamente interrotto. Dopo i primi mesi di euforia e speranza per i nuovi pacifici rapporti fra i due stati, le questioni di confine sono tornate a dominare il dibattito

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Delta-Niger-Petrolio-Nigeria

Sversamenti di petrolio nel Delta del Niger: disastri ambientali e sanitari in Nigeria

Il Delta del Niger è uno dei 5 ecosistemi più inquinati del mondo a causa degli sversamenti di petrolio che colpiscono ancora oggi sia l’ambiente che le popolazioni locali, come nel caso degli Ikebiri e degli Ogoni. L’industria del petrolio, storica in un paese come la Nigeria, rappresenta la causa principale di conflitti violenti, disastri ambientali e disastri sanitari che sono ormai strutturali. Tale tematica, inoltre, interessa anche l’Italia dal momento che nel 2018 ha avuto inizio presso il Tribunale di Milano il processo civile che vede coinvolte l’ENI, con la sua controllata nigeriana, e il popolo degli Ikebiri. La situazione ambientale del Delta del Niger e i danni alla salute subiti dalla popolazione nigeriana Il Delta del Niger è una regione ricca di petrolio nel sud-est della Nigeria, qui le attività delle multinazionali del petrolio (come Shell, Exxon Mobil, Chevron Texaco, Total Fina Elf, Eni/Agip) hanno procurato gravi danni ambientali, sociali ed economici. Nello specifico l’inquinamento viene causato dalle perdite di greggio che fuoriescono dalle tubature vecchie degli oleodotti che si estendono per centinaia di chilometri all’interno del territorio. Oltre agli sversamenti di petrolio che si riversano nell’acqua del fiume e lungo le sue sponde, un altro grande problema che affligge questo territorio è il fenomeno del Gas flaring, la combustione del gas in eccesso estratto insieme al petrolio. Questo gas potrebbe essere reimmesso nel sottosuolo oppure utilizzato per i fabbisogni energetici della Nigeria. Invece viene bruciato dalle multinazionali perché ciò rende l’estrazione del petrolio molto più veloce, abbassando così i costi di gestione e di produzione. Di conseguenza le persone che abitano in queste zone respirano aria inquinata, mangiano pesce contaminato (quel poco che è rimasto nell’area) e bevono acqua mista a petrolio. Secondo il programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, i livelli di tossicità sono 900 volte superiori a quelli consentiti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Conseguentemente è aumentata anche la diffusione di malattie: problemi respiratori, malattie della pelle e degli occhi, disturbi gastrointestinali, leucemie e cancro. Infine occorre notare che l’attività di estrazione, inquinando il bacino idrico ed i terreni, ha distrutto le coltivazioni di sussistenza. A ciò si aggiunge l’espropriazione dei terreni della popolazione nigeriana ad opera del governo, in virtù di trattati siglati con le multinazionali negli anni ‘60 del secolo scorso e da allora rimasti invariati. L’industria del petrolio in Nigeria Il petrolio da solo costituisce il 95% delle esportazioni e il 65% del bilancio nazionale della Nigeria, per questo motivo il tema dei violenti conflitti per la gestione di questa risorsa è ricorrente nella storia coloniale e post coloniale del paese.  L’industria del petrolio nel Delta del Niger vede coinvolti sia il governo della Nigeria che le società controllate da grandi compagnie multinazionali, come Shell, Exxon Mobil, Chevron Texaco, Total Fina Elf ed Eni/Agip, oltre ad alcune società nigeriane. A tal proposito l’esplorazione e la produzione del petrolio sono realizzate dalle “joint venture” (associazioni temporanee di imprese) di cui fanno parte la Nigerian National Petroleum Corporation (NNPC), controllata dal governo, e una o più compagnie petrolifere estere che hanno siglato contratti di associazione e partecipazione con la NNPC. In questo modo la NNPC detiene la quota di maggioranza, lasciando alle multinazionali il ruolo operativo sul campo. Di fatto le compagnie gestiscono vastissime porzioni di territorio, si pensi al fatto che la sola Shell Petroleum Development Company of Nigeria (SPDC) gestisce un’area di oltre 31.000 chilometri quadrati, costruendo buona parte delle infrastrutture petrolifere vicino alle abitazioni, alle coltivazioni e alle fonti d’acqua delle comunità. Le comunità che vivono sul Delta del Niger però non traggono benefici dalla ricchezza del petrolio e, nonostante la presenza di 606 pozzi petroliferi, la Nigeria resta uno tra i paesi africani più poveri. Gli unici ad arricchirsi con il petrolio sono quindi le multinazionali e le élite locali, situazione che ha però suscitato da una parte proteste e mobilitazioni, dall’altra repressioni violente da parte dello Stato e dagli agenti della sicurezza privata assunti dalle compagnie. Occorre inoltre notare che il 60% della popolazione del Delta del Niger sopravvive grazie ad attività direttamente collegate all’ecosistema. In altre parole quando le coltivazioni e le zone di pesca vengono danneggiate, gli abitanti non hanno la possibilità di trovare fonti di reddito alternative rispetto a quelle perdute sprofondando ancor più nella povertà. In questo ecosistema quindi non si può vivere secondo il motto della Nigeria “Unità e fede, pace e progresso” poiché davanti alle persone sempre più spesso si presentano due alternative: la lotta o la migrazione. Il Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni e Il movimento per l’emancipazione del Delta del Niger Le comunità locali, appoggiate principalmente dal Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger e dal Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni, si oppongono alle politiche di sfruttamento portate avanti dalle multinazionali e chiedono la bonifica dei corsi d’acqua e dei terreni oltre che una più equa distribuzione dei proventi del petrolio come risarcimento del debito ecologico. Il Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni, popolazione principale della regione del Delta del Niger, conduce dal 1990 una campagna non violenta contro il degrado ambientale. Gli Ogoni sono un popolo indigeno colpito dallo sfruttamento intenso delle risorse petrolifere concesso dalla giunta militare alla multinazionale Shell negli anni ‘80. Secondo l’accordo stipulato tra le parti, pur se formalmente le terre sono rimaste nelle mani della popolazione, la Shell poteva sfruttare le risorse presenti ed era obbligata a destinare solo l’1,5% delle royalties derivanti dai guadagni alla popolazione locale. Dopo numerose battaglie condotte dal Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni, si è raggiunto un accordo in virtù del quale la Shell deve destinare alla popolazione più del 15% delle royalties. Oltre a questo, un importante risultato conseguito dal leader del Movimento Ken Sawro-Wiwa è stato quello di essere riuscito ad attirare l’attenzione internazionale ricorrendo a concetti forti e di impatto per descrivere il problema. Uno degli esempi più lampanti è il concetto di “Guerra ecologica”. Nel 1995 però Ken Sawro-Wiwa, e otto attivisti furono arrestati e condannati a morte

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Cos'è Boko Haram - Large Movements

Essere donne in Nigeria: la violenza di Boko Haram

L’intensificarsi della violenza e delle atrocità dell’organizzazione terroristica Boko Haram in Nigeria si è abbattuta più ferocemente sulle donne del paese. I rapimenti e la conseguente schiavitù delle donne da parte di Boko Haram sono costanti e solo il rapimento di quasi 300 studentesse nella città di Chibok nel 2014 ha finalmente attirato l’attenzione dei media internazionali sull’organizzazione terroristica. #BringBackOurGirls: Boko Haram e i rapimenti di donne Nel 2014 Boko Haram controllava la maggior parte dei territori della Nigeria nordorientale. L’organizzazione terroristica ha attaccato e, in alcuni casi, ”governato” più di 130 villaggi e città, dove ha imposto la sua interpretazione della Shari’a. I miliziani di Boko Haram hanno perpetrato uccisioni, raso al suolo e saccheggiato case, imprese, scuole, chiese, mercati e strutture sanitarie negli Stati federati di Borno, Yobe e Adamawa. Dal 2009 al 2014 l’organizzazione terroristica ha distrutto almeno 211 scuole nel solo Stato di Borno e rapito più di 500 donne e ragazze, di queste almeno 100 sono fuggite. Alcune delle donne rapite hanno subito diversi abusi: violenze sessuali, matrimoni forzati e conversioni forzate.  Il 14 aprile del 2014 l’organizzazione ha messo in atto il più grande rapimento di ragazze avvenuto finora: Boko Haram ha catturato 276 studentesse di una scuola secondaria gestita dal governo a Chibok, nello Stato di Borno. La notizia del rapimento ha avuto una rapida diffusione suscitando la campagna social media #BringBackOurGirls, un grido internazionale per il rilascio delle studentesse. L’atteggiamento del governo, verso il rapimento ed il movimento, viene esemplificato dall’arresto nel maggio 2014 di due donne che avevano guidato le proteste di Abuja, la capitale nigeriana. Gli attivisti sostengono che sia accaduto per il volere della moglie dell’allora presidente Goodluck Jonathan. Patience Jonathan ha infatti accusato le donne di aver messo in cattiva luce il governo del marito. Il rapimento di Chibok ha rappresentato uno spartiacque importante: prima del rapimento i funzionari del governo del nord-est della Nigeria negavano l’esistenza dell’insurrezione di Boko Haram e dei rapimenti delle donne. Purtroppo queste non sono state né le prime, né le ultime ragazze rapite da Boko Haram. Nonostante l’indignazione internazionale seguita alla campagna #BringBackOurGirls, i rapimenti non si sono fermati. Un caso analogo a quello della scuola di Chibok è accaduto il 19 febbraio 2018: i miliziani di Boko Haram hanno rapito 110 ragazze tra gli 11 e i 19 anni in una scuola femminile di Dapchi, nei pressi del confine Nord-Est tra Nigeria e Niger. L’obiettivo dell’organizzazione, in questo caso, erano le ragazze più piccole in quanto nella scuole di Dapchi erano presenti classi inferiori rispetto alla scuola di Chibok. La ragione è da ritrovare nel fatto che Boko Haram “seleziona” ragazze molte giovani e donne anziane per usarle negli attentati terroristici, mentre le ragazze in età da concepimento, tra i 14 e i 19 anni, vengono ritenute più utili per la procreazione. Il destino delle ragazze catturate da Boko Haram può assumere due tragiche alternative: diventare delle bambine kamikaze o essere usate per la procreazione. Vivere sotto Boko Haram: le testimonianze delle donne rapite Le donne rapite da Boko Haram sono state costrette a vivere al fianco dei miliziani per giorni o mesi prima di riuscire a fuggire. Spesso alle ragazze rapite sono stati assegnati compiti domestici, come cucinare, mentre altre sono state costrette a sposarsi ed a fare sesso con i membri di Boko Haram. Si ritiene quindi che Boko Haram stia cercando di “sostituire” le famiglie che i combattenti hanno dovuto lasciare quando l’esercito nigeriano ha costretto i miliziani a lasciare i villaggi ed a rifugiarsi nella boscaglia. Le ragazze di fede cristiana, inoltre, sono state costrette a convertirsi all’Islam mentre, in alcune occasioni, le donne musulmane sono state lasciate andare. Ciò sta avendo effetti sulle tensioni storiche che vi sono in Nigeria tra le comunità cristiane e quelle musulmane in quanto le azioni di Boko Haram stanno aggravando la situazione. Una delle testimonianze delle donne rapite da Boko Haram vede protagonista una giovane donna di 19 anni che è stata rapita poco dopo gli eventi di Chibok insieme al suo bambino e ad altre 5 ragazze. La donna è stata costretta a dormire sotto un albero ma una notte venne svegliata da uno dei miliziani che l’ha condotta in un cespuglio buio. Il miliziano l’ha fatta sdraiare per terra con il suo bambino al lato. Lei ha cominciato a piangere ed a pregare di non farle del male. Lui disse: “O ti uccido o faccio a modo mio”. Poi la violentò. Il giorno dopo i miliziani la liberarono dopo che lei finse di convertirsi dal cristianesimo all’Islam. Un’altra ragazza che ha avuto il coraggio di raccontare la sua esperienza aveva 18 anni  quando è stata rapita e tenuta prigioniera per tre mesi. La ragazza ha interagito direttamente con il leader di una cellula di Boko Haram ed aveva informazioni dettagliate su come funzionava il campo, sul fatto che si trovava a Gwoza e sul rapporto con il principale campo di Boko Haram nella foresta di Sambisa. Aveva anche informazioni su come Boko Haram controllava i gruppi di sicurezza. Uno dei peggiori ricordi della ragazza è stato il momento in cui l’organizzazione terroristica l’ha usata come esca per attirare nuovi combattenti o vittime. Boko Haram le chiese di trovare uomini cristiani e di portarli nella boscaglia in modo da poterli rapire. Una volta tornati al campo hanno chiesto loro di rinunciare al cristianesimo, di accettare l’Islam e di diventare membri di Boko Haram. Quando si rifiutarono, i miliziani cominciarono a tagliare le gole spargendo sangue dappertutto. La ragazza è scappata, ma il suo calvario è tutt’altro che finito. Secondo altre ragazze sfuggite a Boko Haram, i ribelli la stanno cercando. Credono che sia incinta del figlio del loro capo e vogliono il bambino. Si sposta di casa in casa quasi ogni notte, sperando che i miliziani non la trovino. A queste testimonianze si aggiungono quelle delle ex-prigioniere che hanno riconosciuto i volti delle compagne di prigionia tra gli attentatori. Ciò ha confermato che Boko Haram ha costretto alcune

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La voce queer di Kakuma: la storia di A.

Nei nostri articoli precedenti abbiamo parlato delle condizioni della comunità LGBTQ+ in Kenya e delle violazioni dei diritti umani che avvengono all’interno del campo profughi di Kakuma.  Abbiamo poi raccolto la testimonianza di J, il primo caso del nostro approfondimento sulle violazioni di diritti umani all’interno di Kakuma. Proseguendo, dunque, l’inchiesta che Large Movements APS sta portando avanti insieme ad International Support Human Rights, in questo articolo analizzeremo la situazione specifica di A., nome di fantasia di una donna lesbica ospite di Kakuma con la quale abbiamo avuto modo di parlare.  Come tanti altri che vivono a Kakuma, A. è fuggita dal suo Paese d’origine a causa delle discriminazioni subite da amici e familiari in ragione della sua omosessualità ed ha cercato rifugio nel vicino Kenya. La possibilità di sfuggire ai maltrattamenti e le discriminazioni subite e la speranza di costruirsi una vita migliore sono stati i motori che l’hanno spinta lontano da casa, ma la realtà con cui si è scontrata è stata tanto dura con lei quanto quella da cui è scappata. La testimonianza di A. Attraverso la Word Cloud estrapolata dalle interviste agli ospiti queer di Kakuma è possibile intuire la natura della loro permanenza all’interno del campo. Parole come “violence”, “assault”, “forced” tracciano un’immagine chiara e poco rassicurante sulla situazione dentro Kakuma per le persone LGBTQ+ come A. L’arrivo a Kakuma A. è una cittadina ugandese. È fuggita dal suo Paese quando la sua famiglia ha scoperto della sua omosessualità. A. infatti, è stata fortemente discriminata ed ha subito gravi attacchi omofobi di varia natura, a tal punto che la sua famiglia, prima che lei riuscisse a fuggire per il Kenya, stava per costringerla a sposarsi. È arrivata a Kakuma nel novembre del 2019 e vi risiede tuttora.  Le violenze e le denunce inascoltate Non appena arrivata, A. si è trovata di fronte a delle condizioni di vita molto difficili per la comunità LGBTQ+ residente a Kakuma. La convivenza tra le persone queer e gli altri rifugiati, infatti, ha portato a diversi attacchi ed aggressioni a discapito degli ospiti LGBTQ+ del campo. Per questo motivo, ci riporta A., sia lei che gli altri membri della comunità queer residenti a Kakuma sono profondamente spaventati per la loro vita. Nel luglio del 2020, quella che era stata la casa di A. nel campo è stata data alle fiamme da altri ospiti e lei ha perso nell’incendio quasi tutti i suoi averi, inclusi beni di prima necessità come vestiti e medicinali. Dopo tutto, il resto dei residenti del campo ha più volte riferito che le persone queer come A. non sono benvenute, definendole “una maledizione” o minacciandole di morte con percosse, aggressioni sessuali ed attacchi incendiari.  La situazione è stata ripetutamente denunciata all’UNHCR ed alle autorità, ma entrambi hanno sempre respinto A. e non sono stati in grado di fornire tutela e protezione dalle violenze gravi subite da A. e dagli altri residenti LGBTQ+. Quando nel luglio 2020 la casa di A. è stata colpita da un incendio doloso, pur se ha riportato immediatamente il fatto allo staff di UNHCR presente nel campo, la donna ha ricevuto supporto solo dagli altri ospiti queer del campo, che le hanno fornito i beni di prima necessità di cui aveva bisogno e che erano andati distrutti nell’incendio. I ricollocamenti Uno dei problemi principali che impedisce di fornire servizi puntuali e garantire efficacemente i diritti umani fondamentali è rappresentato dall’estrema difficoltà nell’ottenere informazioni, in particolare sui ricollocamenti. Il personale di UNHCR presente nel campo ed i componenti del RAS, il dipartimento governativo kenyota che gestisce l’intera procedura di ricollocamento e di concessione dello status di rifugiato, infatti, non forniscono informazioni chiare o non le forniscono affatto. A. stessa non ha mai fatto domanda di reinsediamento non solo perché è molto difficile ottenere informazioni sulle procedure necessarie (tutte le volte che ci ha provato non è stata assistita, proprio dalle persone direttamente responsabili dell’informativa in merito) ma anche a causa del suo status. Non si può accedere al programma di reinsediamento, infatti, se non è stato riconosciuto lo status di rifugiato. Status che, secondo la legge kenyota, deve essere concesso o diniegato entro 6 mesi dall’esame della domanda. Nonostante A. si trovi a Kakuma da quasi 3 anni però, non ha ancora notizie circa l’esito della sua richiesta di asilo.  Il fatto che non abbia presentato domanda per il ricollocamento, dunque, non significa che A. non ne riconosca l’importanza. Tanto è vero che A. ci ha detto che ritiene quella del ricollocamento l’unica opzione in grado di ridare speranza alle persone LGTBQ+ ospiti in Kenya dato che nel contesto in cui si trovano attualmente non possono muoversi liberamente, non vengono forniti loro beni di prima necessità, come gli assorbenti, e vivono nella paura di essere nuovamente attaccati.  Per di più, lei e tutte le altre persone LGBTQ+ di Kakuma sono traumatizzate dal trattamento ricevuto nel campo. Soprattutto, si sentono come se la loro vita fosse rimasta bloccata all’interno di Kakuma, dove ogni giorno è uguale al precedente, e sono molto spaventati dall’idea di invecchiare nel campo. A. vuole tornare a scuola e finire gli studi. Vuole trovare un lavoro per potersi mantenere. Vuole un futuro migliore per i bambini del campo, affinché possano tornare a scuola come dovrebbero, perché, come dice giustamente, l’istruzione è un diritto umano. Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

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UNITI PER KAKUMA

Nella primavera del 2022 International Support – Human Rights e Large Movements APS hanno deciso di unire le proprie competenze specifiche per portare avanti una campagna di advocacy quanto più possibile estesa per sensibilizzare l’opinione pubblica ed i decisori politici sulle condizioni di vita dei richiedenti asilo e dei rifugiati LGBTQ+ in Kenya. Spiegazione partenariato e ruoli L’Organizzazione International Support – Human Rights, è impegnata da oltre 10 anni nella tutela e salvaguardia dei diritti dei rifugiati LGBTQ+ del Kenya e dal 2018, con l’aiuto dei suoi partner e le pressioni internazionali, è riuscita a reinsediarne una parte. L’associazione ha da sempre lavorato a stretto contatto con il personale UNHCR, cercando di indirizzare l’Agenzia verso il cambiamento per garantire maggiore sicurezza per gli ospiti LGBTQ+ dei suoi campi. International Support – Human Rights si è fatta tramite delle richieste di questa categoria vulnerabile di richiedenti con il Parlamento Europeo ed ha agevolato l’adozione della Risoluzione del 2021 presentata alla Plenaria di Strasburgo. In questo testo, i Paesi europei si sono impegnati a sostenere il Kenya per migliorare le condizioni di accoglienza nei due campi profughi più grandi dell’Africa. L’Organizzazione, inoltre, è sempre stata in prima linea anche durante le emergenze, inviando soccorsi e richiedendo indagini mirate, come nel caso dell’incendio del 2021 in cui purtroppo ha perso la vita un giovane rifugiato della comunità LGBTQ+. La decisione di collaborare con questa associazione deriva direttamente dalla mission più ampia di Large Movements APS: creare un network sempre più esteso e solido di associazioni che condividono la stessa metodologia operativa, così da promuovere quel cambio di narrativa – non più demandabile – riguardante il mondo della cooperazione internazionale e dell’inclusione sociale. Questa condivisione metodologica passa anche dalla capitalizzazione delle best practices sviluppate sul campo da altre associazioni, consentendo così di estrapolare lezioni importanti per poter realizzare progetti che abbiano un impatto sociale sempre maggiore. Per di più, dal momento che uno dei nostri obiettivi a lungo termine è quello di stimolare il dialogo tra istituzioni ed i beneficiari diretti delle politiche migratorie così da realizzare proposte di legge, di intervento o progetti che tengano conto dei bisogni reali delle comunità coinvolte, l’esperienza di International Support – Human Rights in tal senso si rivela fondamentale anche per la formazione e crescita professionale del nostro team. Nel pieno rispetto della sinergia di lavoro, Large Movements APS ha messo da subito a disposizione del partenariato le proprie competenze in materia di infotainment e di progettazione, così da dar vita ad una strategia di advocacy quanto più possibile innovativa e creativa. FASE I: Ricerca ed analisi Grazie al lavoro comune, nell’ultimo anno siamo stati in grado di: Analizzare la normativa internazionale che si applica a questa tematica; Reperire informazioni sulla situazione attuale in Kenya per la comunità LGBTQ+ attraverso le interviste ai vari attori coinvolti (personale UNHCR, ONG attive sul territorio, rifugiati e richiedenti asilo LGBTQ+, giornalisti d’inchiesta operanti in Kenya, personale polizia kenyota); Raccogliere sufficienti prove per circostanziare i racconti dei rifugiati e richiedenti asilo LGBTQ+ in merito alle violazioni dei diritti umani che sono costretti a subire Di seguito, il risultato di questa prima fase di attività. Quadro normativo di riferimento Come premesso, abbiamo avuto modo di raccogliere molte testimonianze e molto materiale che documenta la scarsa protezione della comunità LGBTQ+ residente nel campo di Kakuma, alla luce del quale possiamo affermare che ci sia poca tutela per la categoria delle persone vulnerabili. Soprattutto con riferimento alle donne lesbiche, i loro bambini, le persone queer disabili e le persone trans, categorie queste maggiormente esposte a violenze e soprusi. I rifugiati della comunità LGBTQ+ subiscono abitualmente violenze ed attacchi. Tutto questo viola sia la Convenzione sullo Status di rifugiato dell’Onu, che ogni convenzione sottoscritta dal Kenya. Tutte infatti, riconoscono uguali diritti, inalienabili per tutti gli uomini. poiché tali diritti derivano dalla dignità intrinseca della persona umana. Per agevolare la piena comprensione della gravità della situazione sul terreno kenyota, si citano alcuni articoli e Convenzioni contenenti i principi fondamentali che lo stesso Kenya ha riconosciuto come applicabili a qualsiasi individuo: L‘articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e l‘articolo 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, i quali prevedono che nessuno può essere sottoposto a tortura e/o a trattamenti crudeli, inumani o degradanti o punizioni; la Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women (Mar 1984) – che stabilisce una serie di norme e principi per eliminare la discriminazione contro le donne in tutte le forme, sia nella vita privata che in quella pubblica -e la Convention on the Rights of the Child (Jan/Jul 1990) – stabilisce i diritti fondamentali dei bambini e delle bambine, compresi il diritto alla vita, alla salute, all’educazione e all’espressione libera; la Carta Africana dei Diritti dell’uomo e dei popoli, sottoscritta dal Kenya insieme agli Stati membri dell’Organizzazione dell’Unità Africana. In questa Convenzione si riconosce che: (i) i diritti umani fondamentali derivano dalle azioni degli esseri umani; (ii) il loro rispetto è essenziale alla garanzia di una vita dignitosa; (iii) la protezione internazionale è strumento fondamentale per l’effettivo godimento degli stessi da parte di tutti; (iv) si ribadisce l’adesione di tutti gli Stati firmatari a tutti i principi dei diritti e delle libertà dell’uomo e dei popoli contenuti nelle Dichiarazioni, nelle Convenzioni e negli altri strumenti adottati dall’Organizzazione dell’Unità Africana, dal Movimento dei Paesi Non Allineati e dalle Nazioni Unite. L’articolo 2 della Carta sopracitata afferma “Ogni individuo ha diritto al godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti e garantiti nella presente Carta, senza distinzione alcuna di razza, etnia, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica o di altra natura, origine nazionale e sociale, fortuna, nascita o qualsiasi status”. Per completezza si potrebbero aggiungere l’orientamento sessuale e l’identità di genere – in perfetta armonia con le Linee Guida dell’UNHCR sulla definizione di gruppo sociale – ma anche senza questa specifica, il testo dell’articolo appare chiarissimo; L’articolo 7 della stessa Carta afferma che “Ogni individuo deve essere uguale davanti alla legge.  Ogni individuo ha diritto

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