KHALID ABDEL-HADI: LA VOCE LGBTQIA + DEL MEDIO ORIENTE

Khalid Abdel-Hadi è un attivista giordano per i diritti LGBTQIA+ che ha fondato nel 2007 la prima rivista queer del mondo arabo My Kali Magazine, di cui è attualmente caporedattore e curatore creativo.

GIORDANIA EFFETTIVAMENTE APERTA VERSO LA COMUNITA’ LGBTQIA+?

La Giordania è uno dei pochi Paesi del Medio Oriente in cui l’omosessualità è legale grazie all’abrogazione all’interno del nuovo codice penale del 1951 del reato di sodomia – presente invece nel precedente codice, promulgato nel 1936.

Nonostante questo piccolo spiraglio di luce però, in Giordania non esiste ad oggi una legge che protegga i membri della comunità LGBTQIA+ da episodi di discriminazione e violenza. Come denunciato da Human Rights Watch, gli episodi di violenza e molestie, soprattutto online, ai danni di molti attivisti queer giordani da parte delle autorità sono all’ordine del giorno.

Tra le più diffuse, vengono riportate: estorsioni, minacce, divulgazione di informazioni ottenute illegalmente fino ad arrivare alla chiusura di due organizzazioni che si occupano di diritti LGBTQIA+ e la conseguente detenzione di due attivisti nonché il congelamento dei loro conti bancari. Uno di loro è stato perfino costretto a lasciare la propria casa perché la polizia ha rivelato il suo orientamento sessuale ai genitori.

Secondo gli esperti internazionali, la sempre più crescente escalation di violenze nei confronti della comunità queer giordana, sembrerebbe celare un preciso piano del governo: eliminare ogni discussione riguardo l’identità di genere.

In questo contesto, dunque, le persone LGBTQIA+ della Giordania hanno solo due soluzioni: la repressione del proprio essere o la fuga dalla Giordania.

KHALID ABDEL-HADI: TRA OUTING E LOTTA

Khalid Abdel-Hadi è stato vittima di discriminazione a causa del suo orientamento sessuale sin dagli albori del suo attivismo nel 2007.

Durante i lavori che hanno poi portato alla pubblicazione della rivista “My Kali” infatti, una fonte anonima ha inviato ai media giordani una copia della prima pagina della rivista contenente una foto, che non era destinata alla pubblicazione, in cui Khalid Abdel-Hadi appariva in abiti molto succinti.

La pubblicazione di quella foto ed il conseguente outing forzato, fecero temere Khalid per la sua vita. Erano già iniziate a circolare infatti notizie di impiccagioni, arresti arbitrari, torture e phishing online ai danni di coloro che venivano anche solo sospettate di essere omosessuali in Paesi vicini quali l’Iran, l’Iraq, l’Egitto, la Siria.

Seguendo l’onda del sensazionalismo e della disinformazione, le varie testate giornalistiche giordane iniziarono a sostenere l’esistenza di un complotto per “promuovere un’agenda LGBTQIA+ nel Paese” e non di rado apparivano interviste di persone che si professavano omosessuali e che dichiaravano che questo era uno stile di vita perverso, chiedendo di essere guariti.

Dato questo clima di crescente odio ed ignoranza nei confronti della comunità LGBTQIA+, alcuni amici di Khalid Abdel-Hadi – con i quali aveva ideato il progetto di “My Kali” – tentarono di dissuaderlo nel continuare a lavorare al primo numero della rivista.

Ma Khalid non ha alcuna intenzione di essere messo a tacere e, tra mille difficoltà, sono più di 10 anni che cura e gestisce la rivista “My Kali”, ancora oggi unico spazio sicuro per la comunità LGBTQIA+ del Medio Oriente.

Grazie al suo impegno e alla sua dedizione, Khalid Abdel-Hadi ha realizzato e/o partecipato a diversi progetti miranti a decostruire gli stereotipi diffusi nel modo mediorientale sulla comunità LGBTQIA+. Proprio per il suo incessante attivismo, nel 2017 la testata giornalistica The Guardian ha inserito il suo nome nella lista degli eroi LGBTQIA+.

In particolare, due sono i progetti che l’hanno reso maggiormente noto a livello internazionale: (i) l’essere stato uno degli autori di “This Arab is Queer. An Anthology by LGBTQ+ Arab Writers”; (ii) l’essere stato uno dei curatori della mostra “Habibi, les révolutions de l’amour”, che si è svolta presso l’Institute du Monde Arabe di Parigi.

In occasione del mese del Pride Large Movements APS desidera celebrare il coraggio di Khalid Abdel-Hadi che si batte per l’autodeterminazione ed i diritti delle persone LGBTQIA+ in un contesto socio-culturale estremamente ostile.

Contesto che, sotto alcuni punti di vista, è ancora più complesso rispetto ai Paesi africani che abbiamo raccontato finora, complice anche il ruolo maggiormente centrale che la religione ha con riferimento al governo dei Paesi mediorientali.

Ci auguriamo dunque che le istanze della comunità queer vengano ascoltate ed accolte dal governo giordano – sull’onda di quell’apertura verso l’Occidente che ha portato all’abrogazione formale del reato di sodomia nel 1951 – nella speranza che questo Paese possa rappresentare un esempio da seguire per gli altri.

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Diritti politici in Egitto durante la presidenza di Al-Sisi

La presidenza di Al-Sisi, comincia dopo il golpe del 2013 ai danni del presidente Morsi, unico presidente eletto democraticamente nella storia del paese; fin da subito il governo di Al-Sisi si caratterizzò per un profondo e violento depauperamento dei diritti politici e sociali in Egitto. Fu immediatamente chiara la strategia con la quale Al-Sisi intendeva mantenere il potere in Egitto: soprusi, violenze ed omicidi sarebbero divenuti fatti all’ordine del giorno. Ciò che emerge con chiarezza infatti, è l’uso diffuso di varie forme di intimidazione volte a scoraggiare sia gli esponenti politici che i semplici giornalisti dal porre interrogativi sull’operato del governo e dei suoi rappresentanti. La polizia e l’esercito sovente impongono la volontà governativa attraverso varie forme di violenze, dalle intimidazioni e minacce a pestaggi, arresti arbitrari e purtroppo omicidi. Ogni persona, anche solo sospetta di volersi opporre al regime, è in pericolo. Lo scopo è palese: creare un clima politico e sociale di terrore, per impedire la formazione e la potenziale diffusione di qualsiasi forma di opposizione al regime. Il governo egiziano, quindi ritiene necessario utilizzare le forze armate come principale mezzo per il mantenimento del potere. Al centro della strategia politica di Al-Sisi vi è il rafforzamento delle strutture militari e della polizia così da creare un sistema clientelare e violento che ha definitivamente contribuito a consolidare il potere presidenziale. La polizia all’interno dell’apparato di potere egiziano ha un ruolo predominante, essendo lo strumento privilegiato – e perciò tutelato – con il quale il presidente impone le sue politiche alla popolazione e sopprime qualsiasi opposizione alla sua azione di governo.  La polizia gode di una quasi totale liberà nell’esercitare le sue funzioni, un’immunità di fondo che gli garantisce ampissimi margini di manovra per le operazioni che esegue, per sopprimere e disincentivare qualsiasi forma di contestazione al regime. (https://www.internazionale.it/notizie/blandine-lavignon/2020/04/22/egitto-ascesa-polizia). Lo strapotere che la polizia detiene all’interno della società si evince dalle numerose nomine dei suoi generali ai vertici dell’alta amministrazione egiziana, rendendo evidente come le violenze e le atrocità commesse da questa siano riconducibili direttamente ed inequivocabilmente alla volontà presidenziale. Anche l’esercito gode di ampi poteri discrezionali nella scelta del proprio modus operandi che gli garantisce un’importante e diffusa pressione sulla popolazione civile. Negli anni della sua presidenza, Al-Sisi ha posto al vertice dei ministeri, o in altre ruoli chiave, esponenti delle forze armate le quali hanno la funzione di fungere da contrappeso, agli occhi del presidente, allo strapotere della polizia. Di fatto questi due centri di potere devono essere bilanciati essendo potenzialmente in competizione fra loro. Proprio per rispettare questo bilanciamento di poteri dunque, il presidente elargisce favori e garanzie di immunità ad entrambi a discapito dei diritti politici della popolazione d’Egitto, che non può far altro che subirne le gravi e continue violenze. Nello specifico si pensi che il diritto di riunione e di libertà di espressione è profondamente limitato e la polizia fa rispettare queste limitazioni perpetrando arresti arbitrari e sottoponendo i prigionieri a tortura. Le autorità accusano gli oppositori politici di terrorismo, sottoponendoli a processi iniqui e arbitrari che si concludono spesso con la condanna alla detenzione in carceri mal tenuti e in cui vigono regole medievali. Il clima è ancor più esasperato da continui interventi presidenziali volti a modificare le discipline che regolano la magistratura ed i partiti politici. Dall’agosto del 2018 infatti, il governo può sciogliere arbitrariamente partiti indipendenti, impendendo così la costruzione di qualsiasi forma di opposizione legale al regime. Inoltre, di altrettanta gravità, è l’allargamento della giurisdizione dei tribunali militari divenuti – insieme ai neo-tribunali straordinari – il vero fulcro del potere giudiziario in Egitto. Detti tribunali sono caratterizzati da procedimenti sommari e gli esiti dei processi sono fortemente influenzati da pressioni governative che consentono di ammettere come valide le testimonianze rese sotto tortura e/o altra forma di pressione psicologica. Il quadro è ancor più drammatico con riferimento all’individuazione di potenziali oppositori politici: in questo caso, polizia ed esercito non sono sottoposte ad alcun tipo di limite o controllo in fase di identificazione di questi soggetti. Al contrario, il potere giudiziario asseconda questa assenza di disciplina chiara quando si tratta di individuare gli oppositori.  Ciò che stupisce dell’attuale situazione è che vi è stato un notevole indebolimento delle garanzie afferenti i diritti politici in Egitto. Seppur vero che nemmeno la presidenza di Mubarak si distinguesse particolarmente per la tutela e la salvaguardia dei diritti civili e politici in Egitto impossibile non notare come la degenerazione sia sempre più rapida. Si pensi in effetti che i principali agitatori della Rivoluzione egiziana del 2011, quella che portò alle dimissioni di Mubarak, furono i lavoratori, i quali,  stanchi delle pressioni dei capi sindacali, quasi tutti filo-governativi,  occuparono le piazze delle principali città egiziane (https://www.internazionale.it/notizie/blandine-lavignon/2020/04/22/egitto-ascesa-polizia ); ciò oggi sarebbe impensabile sia per un fondamentale disinteresse della classe politica rispetto alle istanze della popolazione e sia perché la polizia e i vari apparati governativi rendono impossibile qualsiasi forma di manifestazione del dissenso. L’attuale governo teme ogni tipo di rivendicazione di quelle forze che hanno permesso la fine del trentennale potere di Mubarak, ogni egiziano in questo senso è un potenziale oppositore.  A ben vedere non vi sono luoghi della democrazia che non siano stati compressi o del tutto eliminati da parte del governo tramite l’azione repressiva della polizia. Sono considerati “nemici della democrazia” tutti coloro che pongono domande o direttamente contestano l’operato del governo, come le ONG (https://espresso.repubblica.it/internazionale/2017/01/16/news/human-rights-watch-in-egitto-con-al-sisi-la-societa-civile-e-a-rischio-estinzione-1.293464 ) e i giornali indipendenti che, ad oggi, non esistono più; in tal senso è emblematica la vicenda dei giornalisti della redazione del giornale Mada Masr, (https://www.internazionale.it/bloc-notes/catherine-cornet/2019/11/26/egitto-raid-mada-masr ) che era l’unico giornale egiziano con cui si potevano reperire informazioni contro il governo, i quali sono stati in gran parte picchiati e arrestati. La questione sulla libertà di stampa appare ancor più preoccupante anche se si considera che ad oggi non vi sono giornali egiziani degni di questo nome dal momento che quelli rimasti intenti solo a fungere da megafono del governo. In Egitto infatti risulta difficilissimo svolgere la professione del giornalista, a meno che non si voglia

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Loujain al-Hathloul

Loujain al-Hathloul è un’attivista saudita per i diritti delle donne. La sua forza di volontà e la sua resistenza l’hanno portata a fare una differenza significativa nel suo paese, ma tutto si può affermare tranne che questo sia stato per lei e per le sue compagne un viaggio semplice. Loujain è stata una delle leader del movimento Women2drive, nato negli anni ‘90 con l’obiettivo di ottenere il diritto di guidare le auto da parte delle donne. Negli ultimi 7 anni la vita di Loujain è stata scandita da periodi più o meno lunghi di prigionia. In possesso di una patente ottenuta negli Emirati Arabi Uniti, nel 2013 si era filmata mentre tornava a casa guidando, accompagnata dal marito, ma fu il video dell’anno dopo a fare scalpore e che divenne virale su You Tube, perché quella volta guidò da Abu Dhabi fino al confine con l’Arabia Saudita. Nel 2014 il suo caso finì dinanzi ad un tribunale militare in quanto accusata di aver compiuto un gesto di sfida nei confronti del divieto di guida per le donne in Arabia Saudita, unico Paese al mondo che ancora manteneva viva questa legge. Loujain venne arrestata il 1 Dicembre 2014, e insieme a lei anche la giornalista Maysaa al-Amoudi, che decise di guidare anche lei verso il confine per sostenere la sua compagna. Loujain restò reclusa per un totale di circa 70 giorni. Nel 2015, quando la monarchia saudita concesse per la prima volta il diritto di voto alle donne, Loujain decise di candidarsi alle elezioni locali. Anche se il suo nome non venne mai incluso nelle liste, la forte personalità e determinazione di Loujain venne riconosciuta, e venne inserita al terzo posto della classifica delle 100 donne arabe più potenti al mondo sul fronte culturale e sociale. Il 4 giugno 2017 Loujain venne arrestata per la seconda volta in Arabia Saudita. La ragione non fu nota, e le fu impedito di mettersi in contatto con i suoi cari. La lotta di Loujain e le sue compagne, nonostante tutte le difficoltà affrontate, ha portato il principe ereditario Mohammed bin Salman a consentire alle donne di guidare, e dal giugno del 2018 le donne poterono finalmente ottenere la patente di guida. Appena prima di questo successo politico e umanitario, nel maggio del 2018 Loujain venne nuovamente arrestata con l’accusa di terrorismo e di aver cospirato contro l’Arabia Saudita insieme a Paesi “nemici”. Il suo processe venne spostato infatti in un tribunale speciale che si occupa di casi di terrorismo, quando Loujain altro non era che un’attivista pacifica. Soltanto tre mesi dopo l’arresto venne trasferita in un carcere nella sua città natale, e fu in grado di incontrare la sua famiglia. Raccontò a loro ciò che era accaduto durante quelle settimane di carcere: fu costretta a vivere una reclusione disumanizzante, con sedute di elettroshock, frustate e abusi sessuali. Per opporsi e denunciare le violenze subite, nell’ottobre del 2020 cominciò uno sciopero della fame, ma dopo due settimane le guardie carcerarie iniziarono a privarla del sonno svegliandola ogni due ore, e dopo diverse settimane estenuanti Loujain fu costretta a interrompere a riprendere a mangiare. Il 28 dicembre venne condannata a 5 anni e 8 mesi di carcere. Il 31 luglio 2020, Loujain ha amaramente festeggiato il suo 31esimo compleanno in carcere, ed è stata rilasciata solamente a febbraio 2021, con il divieto di lasciare l’Arabia Saudita per cinque anni. Il Global Gender Gap Report del 2020 del World Economic Forum, posiziona l’Arabia Saudita al 146esimo posto su 153 Paesi: quindi lo classifica come uno degli Stati peggiori in cui una donna possa vivere ad oggi, costretta ad avere un uomo come tutore che approvi la grande maggioranza delle sue azioni quotidiane.

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Yemen

La ragazza dello Yemen

Le mura rosse intorno alla città terminano in una maestosa porta rosso e nera con le sue colonne in rilievo. Li tantissimo tempo fa vi erano instancabili sentinelle che regolavano l’entrata e l’uscita dalla città. Oggi, invece, la gente entra ed esce  in un interminabile via vai. Li, poco dopo la porta, ci sono i mercatini di Sana’a che si estendono tra le strade e i vicoli sovrastati della case architettoniche di mattone e decorate con magnifici ghirigori bianchi. Camminando ti puoi perdere e il tuo sguardo non sa dove dirigersi. La piazza è affollata, tutti parlano, scherzano e di sottofondo si sente la musica che si leva  verso il cielo. È così da secoli in quel museo a cielo aperto in cui commercio, architettura e società si fondono e vivono. Li si vende qualsiasi cosa: il vero argento yemenita che da vita ad enormi piatti, gli specchi, il rame, l’erba medica, l’hennè o il legno. Si vende di tutto, basta che sia a buon prezzo. Girando per il mercato puoi vedere chi si ripara dal sole sotto le tende blu o gialle, chi si prova la giacca nel mercato dei vestiti, chi osserva il muro di pugnali tradizionali ornati di argento e pietre preziose o chi cerca da mangiare nel mercato alimentare con i suoi altissimi sacchi di cereali. La via centrale è una strada lunga che porta alle principali città del sud, è la porta dello Yemen.  Ma a chi è semplice non importa di questa imponenza, sta lungo la via a prendersi un caffè stretto ai suoi amici. In quel tutto è possibile trovare anche un ristorante italiano frequentato anche da italiani. È un posto unico al mondo, è “una venezia selvaggia sulla polvere”, è introvabile nel mondo un posto simile e per qualcuno quel posto è casa. Sono tre anni che Nada è lontana da casa e ci racconta di questo posto seduta intorno a un tavolino di metallo vicino alla metro di valle aurelia a Roma. Questa ragazza ci dice che è importante dire qualcosa di bello del suo paese, in molti non sanno dove è lo Yemen e chi lo conosce, se lo conosce, lo conosce solo come una delle pagine terribili della storia del nostro pianeta. Le notizie che abbiamo sono filtrare tanto da sapere solo che c’è una guerra, che c’è una terribile crisi umanitaria o che molti paesi occidentali vendono le armi all’Arabia Saudita per proseguire la guerra. Armi usate per colpire mercati, scuole o ospedali. Ma nessuno si preoccupa di dire cosa è lo Yemen al di la di questo, chi sono gli yemeniti e come era prima. Urliamo, tante volte, di non pensare ai numeri ma alle persone, però non sappiamo la storia di queste persone o dei luoghi da cui provengono. Nada dice che spesso la gente la guarda stupefatta e dice “c’è una ragazza dallo Yemen che sa l’inglese!”, “c’è una ragazza dallo Yemen che può vestire così!” o “c’è una ragazza dallo Yemen che è andata all’università!”. Sono stupefatti perché ciascuno pensa che tutte le donne in Yemen stanno in cucina, puliscono o non hanno una vita. Pensano che non ci sia istruzione: forse è vero che il 70% della popolazione non va all’università ma c’è un 30% molto forte che vuole cambiare tanto contro tutto quello che sta accadendo. Prima della partenza ricorda che in un mese la città è stata 15 giorni senza luce, la mattina si poteva fare tutto mentre di sera si doveva stare con le candele. Nonostante questo pensa che le persone in Yemen si abituano. Lo Yemenita è una persona semplice: se può avere un buon cibo tutti i giorni è contento e se mangiano un cibo normale dopo un po di giorni, sono sempre contenti. Si adattano. Basta pensare al fatto che gran parte della popolazione yemenita ha risposto costruendosi pannelli solari dall’immondizia come reazione alla mancanza di corrente. Ogni volta che chiama a casa dice ai suoi amici che le dispiace, se vogliono qualcosa, ma la risposta è “ma stiamo bene!”. Ci dice che sono contenti perché sono a casa, non importa se la vita è più costosa adesso. La vita, ovviamente, non è come prima. Occorre pensare tanto a come spendere lo stipendio con cui ora puoi fare molto di meno. Occorre pensare alla famiglia. Spesso le bombe si sentono vicine, c’è questa paura costante. Però la famiglia è li, gli amici sono li e la paura, con le persone care vicine, è diversa. I primi giorni del conflitto la paura era tremenda. Tutti le notti lei e sua madre non dormivano, c’erano giorni in cui non pensava di vedere la mattina. Apriva la finestra e vedeva la bomba li vicino. Sentiva tutto. Cominciava a pregare l’arrivo del giorno dopo. Al mattino però era un altro giorno, usciva di casa e parlava con gli amici. Come se nulla fosse. Gli yemeniti sono persone forti e semplici, si adattano. Ma alle volte la paura è più forte, il rischio è grande e la volontà di proteggere la famiglia ti costringe a scappare. È cosi che Nada e dovuta andare via con la madre. Pensa a quando lavorava li, al fatto che aveva una casa, dei soldi e una propria macchina. Spesso si è domandata “perché me ne sono andata?”, “perché chi non aveva un lavoro invece è rimasto?”. Certo, molte cose sono cambiate in meglio ma Nada dice che qui si sente come in guerra: “Quando arrivi in un altro paese, con posti nuovi e una nuova lingua, vivi una situazione di emergenza da sola”. Li aveva i suoi amici, qui deve iniziare tutto da zero. Non è la lingua ma sono gli affetti. Per farsi degli amici, per farsi una famiglia, per avere qualcuno che pensi a te o che si preoccupi di te, ci vuole tempo. Non si fa tutto in un anno o due, ci vuole tempo per fidarsi di qualcuno. Senza una stabilità è difficile riprendere gli studi o riprendere una patente o

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Nadia Murad per la dignità delle vittime della tratta di esseri umani

Nadia Murad Basee Taha è una donna Yazida Irachena conosciuta per essere sopravvissuta alla prigionia ed allo stupro sistematico da parte dei militanti dell’Isis, da agosto 2014 a novembre dello stesso anno, quando è riuscita a fuggire. Nel 2015 ha portato all’attenzione delle Nazioni Unite il tema della schiavitù sessuale e delle altre atrocità praticate dall’Isis nei confronti delle minoranze religiose diverse dall’Islam, raccontando di aver assistito ad un vero e proprio sterminio, e chiedendo di portare alla Corte Internazionale questo caso come un caso di genocidio. Nel 2016 Nadia Murad ha deciso di intraprendere un’azione legale contro i comandanti dell’Isis. Nello stesso anno diventa Ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani. Nel 2018 vince il premio Nobel per la Pace. La persecuzione degli Yazidi da parte dello Stato Islamico Nadia Murad è nata e cresciuta in una famiglia di Yazidi nel villaggio di Kocho, nel nord dell’Iraq, dove viveva con la madre, i suoi 8 fratelli e le sue 2 sorelle, e sognava di diventare un’insegnante. Nel suo libro, L’ultima ragazza, Nadia racconta che lo yazidismo è una delle più antiche religioni monoteistiche diffuse oralmente da sacerdoti, che tramandano le loro tradizioni e storie con questo metodo. È una religione preislamica che, nonostante abbia alcuni punti di congiunzione con le altre religioni mediorientali, si può affermare essere unica nel suo genere e spiegarne le caratteristiche e le peculiarità può risultare difficile anche per gli stessi sacerdoti che ne sono i massimi rappresentanti. Nell’agosto del 2014 l’Isis riuscì a conquistare il Sinjar senza particolari impedimenti, incontrando solo la temporanea resistenza degli yazidi stessi, che cercarono di difendere i loro villaggi con le armi e le poche munizioni che avevano a disposizione. L’opera di occupazione fu resa ancora più semplice dal fatto che gli arabi sunniti delle zone vicine non si erano ribellati, ma avevano anzi deciso di unirsi alle milizie dell’Isis, collaborando a bloccare la fuga degli yazidi. Alla caduta dei villaggi come Kocho, contribuì anche il ritiro delle truppe peshmerga – combattenti curdi del Kurdistan attivi nell’Iraq settentrionale, che avevano promesso di proteggere quelle zone dai militanti. Più tardi, questa decisione venne giustificata dal governo curdo: poiché l’esercito non sarebbe riuscito a proteggere quella zona, si era deciso di dispiegare i soldati in altre aree in cui vi erano più possibilità di vittoria. Il 15 agosto del 2014 i militanti dell’Isis radunarono l’intero villaggio di Kocho in una scuola e separarono uomini, donne e bambini. Tuttavia, lo scopo dell’Isis non era solamente quello di uccidere tutti gli Yazidi, indipendentemente dal loro genere, bensì il gruppo terroristico mirava a distruggerne integralmente la cultura. Per questo motivo quindi, le donne vennero rapite e ridotte in schiavitù. Furono torturate mediante lo stupro così da fare in modo che le stesse non sarebbero più state in grado di vivere una vita normale da quel momento in avanti. Nadia Murad, durante un suo discorso alle Nazioni Unite, raccontò di aver visto con i suoi occhi l’uccisione di tutti gli uomini, sei dei quali erano suoi fratelli. Le donne ed i bambini vennero deportati in un’altra regione, subendo ogni tipo di umiliazione durante il viaggio in autobus. Nadia e le altre arrivarono a Mosul, dove si trovavano molte altre ragazze yazide, considerate infedeli dallo stato islamico. Secondo l’interpretazione jihadista del Corano – seguita alla lettera dai militanti – violentare una schiava non era considerato un peccato. Sin dal momento in cui vennero fatte salire sugli autobus per raggiungere Mosul, Nadia e le altre donne divennero quindi vittime di tratta e schiave sessuali. Nadia venne condotta di fronte ad un tribunale jihadista, preposto a stabilire quale militante fosse il proprietario esclusivo di ciascuna ragazza yazida. La procedura formale era sempre la stessa: un giudice avrebbe attestato la “genuina” conversione all’Islam delle ragazze ed ufficializzato quindi la loro unione con il proprio carnefice. Un “matrimonio” fondato sullo stupro da parte dei militanti. Una vera e propria arma usata per annientare la dignità delle donne Yazide. “A un certo punto non resta altro che gli stupri. Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio. Smetti di pensare alla fuga o a rivedere la tua famiglia. Il passato diventa un ricordo lontano, come un sogno. Il tuo corpo non ti appartiene e non hai le energie per parlare, per ribellarti, per pensare al mondo esterno. Ci sono solo gli stupri e l’insensibilità scaturita dall’accettazione che questa è la tua vita, adesso.” Nel suo libro, Nadia usa queste parole durissime per descrivere la sua quotidianità dopo essere stata ceduta al suo secondo proprietario, poco prima di riuscire a fuggire dal militante che avrebbe dovuto trasferirla in Siria. La fuga di Nadia Murad dallo stato islamico La fuga di Nadia fu resa possibile grazie ad un errore del suo carnefice: il militante che la teneva prigioniera l’aveva infatti lasciata da sola in casa senza chiudere a chiave la porta, credendola forse troppo debole, stanca, disperata e debilitata per tentare di fuggire. Nadia, dopo aver camminato a lungo nel buio di Mosul, decise di chiedere aiuto ed asilo bussando alla porta di una casa nella speranza che non appartenesse a simpatizzanti dello stato islamico. Nadia ebbe la fortuna di imbattersi in una famiglia sunnita che non aveva avuto i mezzi per lasciare Mosul dopo l’arrivo di Daesh, e che accettò di aiutarla. Le procurarono un documento falso, ed uno degli uomini della famiglia la accompagnò in taxi fino a Kirkuk, poi a Sulaymaniyah, ed infine ad Erbil, dove Nadia poté ricongiungersi con parte della sua famiglia, con la quale raggiunse Zakho, ed infine la Germania. Nadia Murad oggi Dopo il suo primo viaggio a Ginevra, dove tenne il suo primo discorso alle Nazioni Unite, Nadia Murad ha raccontato la sua storia molte altre volte, coinvolgendo persone di ogni provenienza professionale, come giornalisti, diplomatici e chiunque abbia dimostrato interesse nel disastro che l’Isis ha provocato in Iraq.

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Salafiti: tra profonde differenze e reali unità

La difficoltà di comprendere il concetto di Salafismo – e quindi i Salafiti – inizia già con il tentativo di definirlo. È stato, infatti, identificato come una tendenza religiosa, un movimento di protesta, un movimento di riforma e ancora come una dottrina religiosa, ma nessuno di questi riesce a cogliere la vera entità del fenomeno. Oltretutto, il concetto di “Salafismo” – e di conseguenza la definizione di “salafiti” – ha assistito anche ad un’evoluzione profonda durante i secoli. Difatti, sono numerosi i pensatori ed i giuristi che hanno usato il termine in molte accezioni diverse e ciò rende ancora più difficile una ricostruzione chiara. L’origine e la differenza con il Wahhabismo Salafismo è un termine che deriva dall’arabo al-salaf al-ṣāliḥ, che letteralmente vuol dire ‘’antenati pii’’ e con cui si fa riferimento alle prime tre generazioni di musulmani: i Ṣaḥābi, i Tābiʿūn e i Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn. Secondo i salafiti quest’ultime rappresentano, a differenza dei musulmani di oggi, la versione pura e autentica dell’Islam, che si è persa nei secoli ed alla quale si dovrebbe tornare a fare riferimento. A livello ideologico, il Salafismo moderno risale soprattutto ad un giurista e teologo medievale, Ibn Taymiyya, vissuto tra il 1263 e il 1328 nel territorio dell’odierna Siria, sebbene l’attuale corrente venga ricondotta al wahhabismo, un movimento di riforma religiosa nato nel XVIII secolo e che caratterizza l’attuale Arabia Saudita. Nonostante molti tendano ad usare Wahhabismo e Salafismo come se fossero interscambiabili, i termini hanno connotazioni diverse, come viene chiaramente spiegato dallo studioso americano Blanchard: il primo termine, infatti, si riferisce ad “un credo islamico conservatore dell’Arabia Saudita” mentre il secondo ad “un movimento islamico puritano più generale che si è sviluppato in modo indipendente in vari tempi e in vari luoghi del mondo islamico”. I Salafiti uniti da un credo comune? Nella loro profonda differenza interna al movimento possiamo, tuttavia, riconoscere alcune caratteristiche di uguaglianza. Per una piena comprensione di ciò che accomuna tutti i salafiti passeremo attraverso la definizione di alcuni concetti chiave, senza i quali sarebbe impossibile l’osservazione basilare del fenomeno. Tutti i salafiti sono legati dallo stesso credo religioso, aqida, da cui traggono i principi e i metodi per applicare la propria fede a questioni e problemi anche contemporanei. Con il termine aqida (credo) ci si riferisce sia alle dottrine di base dell’Islam sia ai testi in cui vengono specificate queste dottrine. Nonostante il termine possa risultare di facile comprensione, l’aqida porta con sé un significato ben più complesso: esso indirizza le più importanti questioni religiose, fornisce i principi organizzativi e, più in generale, i vari aspetti del credo. L’unità di Dio è un punto cruciale per tutti i musulmani ma ha un significato particolare per i salafiti e viene espressa con il termine tawhid. L’unicità di Dio si sviluppa su tre dimensioni: Dio è il solo creatore e signore dell’universo, Dio è supremo e unico e Dio è il solo ad avere il diritto di essere onorato. Il tawhid deve essere difeso e rispettato e, solo seguendo severamente il Corano e l’esempio del Profeta Mohammed trasmesso attraverso la Sunna, è possibile farlo. Il Corano è la parola di Dio e la sua sacralità è evidente anche dal punto di vista della lingua utilizzata, l’arabo. Il testo sacro, infatti, è impossibile da tradurre ed anche impossibile da imitare sia nella forma che nel contenuto. La Sunna, anch’essa fonte scritta, contiene i testi, i fatti e persino i silenzi del profeta. L’importanza di seguire l’esempio di Muhammad si può comprendere da questo versetto coranico: “Voi avete, nel Messaggero di Dio, un esempio (iswah) buono, per chiunque speri in Dio e nell’Ultimo giorno e molto menzioni Dio”    (Corano, XXXIII, 21) Perciò, tutte le risposte sono contenute nel Corano e nella Sunna e l’importanza di attenersi a queste fonti è fondamentale perché ogni altro riferimento potrebbe portare a divergenze. Abbiamo già detto che il Corano è la parola di Dio; questo implica che non sia interpretabile. L’interpretazione, essendo un atto finalizzato ad attribuire un significato, presuppone un processo dove è la logica umana ad operare e l’applicazione dell’intelletto umano sui testi sacri non è consentita. È per tale motivo che non vengono riconosciute dai Salafiti le scuole giuridiche, perché queste hanno dato luogo a diversi indirizzi interpretativi delle stesse fonti. Detto ciò, il dovere di attenersi alle fonti sacre porta a non tollerare ogni forma di innovazione (bid’a). Ciò, però, non vuole dire che tutte le forme di innovazione sono respinte; difatti, solo quelle in seno all’Islam portano a prendere le distanze dal credo puro e vero. Un’importante distinzione va però fatta tra bid‘a e tajdīd, cioè tra innovazione religiosa e rinnovamento religioso. A differenza del primo concetto, che è visto con accezione negativa, il secondo è accettato in quanto nel processo di rinnovamento non viene apportata nessuna innovazione religiosa in seno all’Islam. Un ultimo termine che merita un approfondimento è un concetto che viene spesso usato, soprattutto dai media, in maniera incompleta ed a volte errata e che meglio aiuta ad inquadrare il Salafismo: stiamo parlando del ğihād.  La traduzione più familiare a noi è quella di “guerra santa”, sebbene, in realtà, si intenda qualcosa di molto più ampio. Viene definito ğihād ogni sforzo che il credente deve fare sulla via di Dio, un obbligo generale che riguarda ogni musulmano e che prevede di combattere le proprie cattive disposizioni e di migliorarsi sempre più, verso la strada di Dio. Si devono, dunque, distinguere lo ğihād minore – inteso come sforzo del musulmano verso la comunità e quindi concernente la sfera pubblica – dallo ğihād maggiore – che rappresenta lo sforzo di auto perfezionamento individuale e che si sviluppa, invece, nella dimensione privata. Quando si fa riferimento allo ğihād minore la valenza che gli viene attribuita è duplice: una che riguarda un intervento contro i vizi pubblici e una definita “braccio” ed è solo in questa seconda dimensione che viene menzionato l’utilizzo della forza. Questo cenno all’uso della forza è stato poi interpretato dalle frange estremiste come legittimante ad intraprendere la cosiddetta guerra santa. D’altra parte, i media,

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