Salafiti: tra profonde differenze e reali unità

La difficoltà di comprendere il concetto di Salafismo – e quindi i Salafiti – inizia già con il tentativo di definirlo. È stato, infatti, identificato come una tendenza religiosa, un movimento di protesta, un movimento di riforma e ancora come una dottrina religiosa, ma nessuno di questi riesce a cogliere la vera entità del fenomeno. Oltretutto, il concetto di “Salafismo” – e di conseguenza la definizione di “salafiti” – ha assistito anche ad un’evoluzione profonda durante i secoli. Difatti, sono numerosi i pensatori ed i giuristi che hanno usato il termine in molte accezioni diverse e ciò rende ancora più difficile una ricostruzione chiara.

L’origine e la differenza con il Wahhabismo

Salafismo è un termine che deriva dall’arabo al-salaf al-ṣāli, che letteralmente vuol dire ‘’antenati pii’’ e con cui si fa riferimento alle prime tre generazioni di musulmani: i Ṣaḥābi, i Tābiʿūn e i Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn. Secondo i salafiti quest’ultime rappresentano, a differenza dei musulmani di oggi, la versione pura e autentica dell’Islam, che si è persa nei secoli ed alla quale si dovrebbe tornare a fare riferimento.

A livello ideologico, il Salafismo moderno risale soprattutto ad un giurista e teologo medievale, Ibn Taymiyya, vissuto tra il 1263 e il 1328 nel territorio dell’odierna Siria, sebbene l’attuale corrente venga ricondotta al wahhabismo, un movimento di riforma religiosa nato nel XVIII secolo e che caratterizza l’attuale Arabia Saudita.

Nonostante molti tendano ad usare Wahhabismo e Salafismo come se fossero interscambiabili, i termini hanno connotazioni diverse, come viene chiaramente spiegato dallo studioso americano Blanchard: il primo termine, infatti, si riferisce ad “un credo islamico conservatore dell’Arabia Saudita” mentre il secondo ad “un movimento islamico puritano più generale che si è sviluppato in modo indipendente in vari tempi e in vari luoghi del mondo islamico”.

I Salafiti uniti da un credo comune?

Nella loro profonda differenza interna al movimento possiamo, tuttavia, riconoscere alcune caratteristiche di uguaglianza. Per una piena comprensione di ciò che accomuna tutti i salafiti passeremo attraverso la definizione di alcuni concetti chiave, senza i quali sarebbe impossibile l’osservazione basilare del fenomeno.

Tutti i salafiti sono legati dallo stesso credo religioso, aqida, da cui traggono i principi e i metodi per applicare la propria fede a questioni e problemi anche contemporanei.

Con il termine aqida (credo) ci si riferisce sia alle dottrine di base dell’Islam sia ai testi in cui vengono specificate queste dottrine. Nonostante il termine possa risultare di facile comprensione, l’aqida porta con sé un significato ben più complesso: esso indirizza le più importanti questioni religiose, fornisce i principi organizzativi e, più in generale, i vari aspetti del credo.

L’unità di Dio è un punto cruciale per tutti i musulmani ma ha un significato particolare per i salafiti e viene espressa con il termine tawhid. L’unicità di Dio si sviluppa su tre dimensioni: Dio è il solo creatore e signore dell’universo, Dio è supremo e unico e Dio è il solo ad avere il diritto di essere onorato. Il tawhid deve essere difeso e rispettato e, solo seguendo severamente il Corano e l’esempio del Profeta Mohammed trasmesso attraverso la Sunna, è possibile farlo. Il Corano è la parola di Dio e la sua sacralità è evidente anche dal punto di vista della lingua utilizzata, l’arabo. Il testo sacro, infatti, è impossibile da tradurre ed anche impossibile da imitare sia nella forma che nel contenuto. La Sunna, anch’essa fonte scritta, contiene i testi, i fatti e persino i silenzi del profeta. L’importanza di seguire l’esempio di Muhammad si può comprendere da questo versetto coranico:

“Voi avete, nel Messaggero di Dio, un esempio (iswah) buono, per chiunque speri in Dio e nell’Ultimo giorno e molto menzioni Dio”

   (Corano, XXXIII, 21)

Perciò, tutte le risposte sono contenute nel Corano e nella Sunna e l’importanza di attenersi a queste fonti è fondamentale perché ogni altro riferimento potrebbe portare a divergenze. Abbiamo già detto che il Corano è la parola di Dio; questo implica che non sia interpretabile. L’interpretazione, essendo un atto finalizzato ad attribuire un significato, presuppone un processo dove è la logica umana ad operare e l’applicazione dell’intelletto umano sui testi sacri non è consentita. È per tale motivo che non vengono riconosciute dai Salafiti le scuole giuridiche, perché queste hanno dato luogo a diversi indirizzi interpretativi delle stesse fonti.

Detto ciò, il dovere di attenersi alle fonti sacre porta a non tollerare ogni forma di innovazione (bid’a). Ciò, però, non vuole dire che tutte le forme di innovazione sono respinte; difatti, solo quelle in seno all’Islam portano a prendere le distanze dal credo puro e vero. Un’importante distinzione va però fatta tra bid‘a e tajdīd, cioè tra innovazione religiosa e rinnovamento religioso. A differenza del primo concetto, che è visto con accezione negativa, il secondo è accettato in quanto nel processo di rinnovamento non viene apportata nessuna innovazione religiosa in seno all’Islam.

Un ultimo termine che merita un approfondimento è un concetto che viene spesso usato, soprattutto dai media, in maniera incompleta ed a volte errata e che meglio aiuta ad inquadrare il Salafismo: stiamo parlando del ğihād.  La traduzione più familiare a noi è quella di “guerra santa”, sebbene, in realtà, si intenda qualcosa di molto più ampio. Viene definito ğihād ogni sforzo che il credente deve fare sulla via di Dio, un obbligo generale che riguarda ogni musulmano e che prevede di combattere le proprie cattive disposizioni e di migliorarsi sempre più, verso la strada di Dio. Si devono, dunque, distinguere lo ğihād minore – inteso come sforzo del musulmano verso la comunità e quindi concernente la sfera pubblica – dallo ğihād maggiore – che rappresenta lo sforzo di auto perfezionamento individuale e che si sviluppa, invece, nella dimensione privata. Quando si fa riferimento allo ğihād minore la valenza che gli viene attribuita è duplice: una che riguarda un intervento contro i vizi pubblici e una definita “braccio” ed è solo in questa seconda dimensione che viene menzionato l’utilizzo della forza. Questo cenno all’uso della forza è stato poi interpretato dalle frange estremiste come legittimante ad intraprendere la cosiddetta guerra santa. D’altra parte, i media, soprattutto occidentali, hanno contribuito ad enfatizzate questo aspetto dello ğihād più duro facendo un uso improprio, al punto di ridurre il senso del termine generale a questo singolo aspetto.   Ciò ha portato a stravolgere il concetto generale di ğihād intesocome sforzo che il credente è chiamato a fare sia pubblicamente che privatamente in qualcosa che rappresenta solo in parte il vero significato del termine.

Un gruppo… non così omogeneo

Quest’ultimo termine ci è utile per parlare, invece, delle profonde differenze che sussistono nel Salafismo. Anche se per lungo tempo sono stati un gruppo relativamente omogeneo, principalmente stanziato nei territori dell’Arabia Saudita, con il passare dei decenni i salafiti hanno subito delle spaccature interne e una diffusione in altri territori. La situazione odierna vede l’esistenza di varie correnti diverse tra loro, eppure, bisogna prestare attenzione alle categorizzazioni avanzate perché potrebbero fornire un’idea di separazione troppo netta. Tuttavia, per comprendere e sottolineare come le azioni violente e le rivendicazioni di carattere politico siano mosse da quella che è solo una minoranza, faremo cenno ad una delle divisioni proposte dallo studioso Quintan Wiktorowicz. Nonostante la sua formulazione sia stata di recente messa in discussione, mostrando come le divisioni tra le correnti non siano così rigide come potrebbero sembrare e come queste vadano bene quando si parla di Salafismo in termini ideologici, la sua teoria rimane una delle più autorevoli e tra le più utili nello studio del fenomeno. Wiktorowicz riconosce tre maggiori correnti interne al Salafismo, che lui stesso definisce: puristi (chiamati anche quietisti), politici e ğihādisti.

I salafiti puristi: tra purezza del credo e isolazionismo

I puristi si impegnano principalmente a preservare la purezza dell’Islam, che proteggono e promuovono attraverso attività missionarie e di educazione al credo Salafita. Si vedono impegnati anche nella lotta contro le pratiche che deviano dal messaggio originale, ma la loro guerra non è fatta di spade, bensì di discorsi e di buone maniere. Sugli esempi pacifici del profeta e degli antenati pii, ogni forma di attivismo violento e di impegno politico (anche non violento) non è ben vista, nemmeno nei casi più estremi, perché costituisce un’innovazione del credo originale, che, come abbiamo visto, non è tollerata.

Per mantenere questa purezza della religione, spesso i puristi si sono caratterizzati per il loro isolazionismo verso tutto ciò che potrebbe intaccare l’originalità del messaggio islamico. Per questo motivo tendono a rimanere separati soprattutto dai non-credenti ma anche dai non musulmani e dagli stessi musulmani che non seguono la pura interpretazione. Per questo motivo, anche se i Salafiti vivono e risiedono in luoghi lontani dai territori islamici, la loro tendenza è quella di rimanere in comunità chiuse.

L’importanza fondamentale del tawhid, della purezza e del rigetto verso qualsiasi forma di innovazione spinge i puristi a non riconoscere né i politici per il loro impegno, né gli ğihādisti per gli atti violenti. Il messaggio originale non parla di violenza o di attivismo politico, perciò le azioni di queste due correnti non solo deviano dalla purezza, ma sono anche spinte da un desiderio umano di far prevalere una loro decisione umana sul credo. I puristi perciò, non solo rifiutano, bensì boicottano le azioni delle altre due correnti.

Critica ai puristi, i politici contro le ingiustizie

I politici, a differenza dei puristi e come suggerisce il nome stesso, sono impegnati politicamente in varie forme. La prima testimonianza del loro sviluppo in Arabia Saudita si ebbe tra gli anni ’80 e ’90 quando un gruppo di giovani sfidò l’autorità dei salafiti puristi. Questi ultimi venivano e vengono accusati di una mancata conoscenza di ciò che accadeva e accade intorno a loro, principalmente in ragione del loro isolamento dal resto del mondo.

La loro comparsa, dovuta non solo al contesto locale ma anche al contatto con altri movimenti islamisti impegnati politicamente come i Fratelli Musulmani, ha permesso la creazione all’interno del credo Salafista di argomentazioni politiche viste dai puristi come un’innovazione. Dal punto di vista dei politici, invece, tutte le ingiustizie che i salafiti e il mondo musulmano stavano subendo andavano affrontate non più con preghiere, purificazione o propagande ma con un attivismo politico concreto.

Ğihādisti: una minoranza frammentata

Come abbiamo visto, il termine ğihād ha per i musulmani una connotazione diversa da quella presentata dai media. I puristi sottolineano il carattere pacifico dell’esempio lasciato dai primi antenati e rifiutano ogni forma di violenza, situazione ben diversa dall’interpretazione della corrente ğihādista dei salafiti.

Wiktorowicz nel suo articolo presenta un’interessante ricostruzione storica della loro evoluzione: senza entrare nel dettaglio, la loro “nascita” risale alla guerra in Afghanistan contro l’Unione Sovietica. Tenendo presente che la loro formazione “politica” è avvenuta principalmente sul campo di battaglia, il loro rapporto con lo ğihād intesa come guerra santa è molto più stretto rispetto alle altre correnti ed ai musulmani in generale. L’obiettivo di un rovesciamento dei sovrani apostati a favore dell’istituzione di Stati Islamici “giustifica” l’uso della violenza e delle armi. La loro critica verso i puristi (ma anche verso chi non segue il loro messaggio) è forte, il loro rifiuto di opporsi alle ingiustizie che i musulmani subiscono li porta ad essere accusati di non applicare il loro credo fino in fondo. Nonostante ciò, bisogna ricordare che gli ğihādisti costituiscono solo una minoranza, anche frammentata internamente, e che spesso non ha un nemico comune.

Conclusioni

Come abbiamo visto, il fenomeno è più complesso di quello che potrebbe apparire ad un primo sguardo e merita, perciò, un’attenzione particolare. Malgrado la tendenza ad osservare i salafiti solo attraverso la lente estremista, essi si differenziano molto al loro interno ed i confini tra le varie correnti risultano sfumati. Grazie a studiosi che hanno dedicato i loro sforzi all’osservazione ed all’analisi del gruppo, fornendoci anche categorizzazioni che ne favoriscono la comprensione, il quadro non è più così confuso come in passato. Ricordiamo che le azioni violente sono portate avanti solo da una minoranza; inoltre ciò è dovuto anche a tutto un insieme di fattori ed influenze che non sempre corrispondono al credo religioso. Perciò, in conclusione, identificare i salafiti con il termine terrorismo non è solo riduttivo dell’intero fenomeno a pochi individui, ma anche errato.

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Studentesse avvelenate: sviluppi sulle proteste in Iran

Attualmente l’Iran sta vivendo una situazione instabile per le proteste scoppiate dopo la morte di Mahsa Amini, 22enne curda in visita a Teheran con la famiglia, a causa delle percosse ricevute dalla polizia morale che l’aveva arrestata con l’accusa di uso improprio del velo. Secondo alcune indagini, le rivolte hanno portato a 530 vittime tra i manifestanti, più di 19.700 arresti e 4 condanne a morte eseguite. Molte donne arrestate dalla polizia hanno raccontato gli abusi a cui sono state sottoposte durante la detenzione e alcune hanno rivelato di essere state imbavagliate con i loro hijab. Non è la prima volta che le donne iraniane protestano contro le leggi imposte dal governo per salvaguardare i loro diritti fondamentali; già nel 1979 migliaia scesero in piazza per protestare contro la decisione di rendere l’hijab obbligatorio per tutte le donne sul luogo di lavoro. Nonostante ciò, l’ayatollah Ruhollah Khomeini procedette con le riforme che desiderava attuare e, nel corso del tempo, sia le restrizioni che le punizioni per chi violava le prime divennero più aspre. Un nuovo attacco “Inizialmente abbiamo sentito uno strano odore, poi alcune di noi hanno cominciato a sentirsi male”. Centinaia sono le testimonianze che ribadiscono le stesse parole, così come centinaia, secondo le stime del governo iraniano, sono le studentesse che frequentano le scuole colpite da episodi di avvelenamento che stanno avvenendo in Iran dalla fine di novembre 2022. Mal di testa, tosse, nausea, difficoltà respiratorie, palpitazioni, stati di sonnolenza acuta, questi sono i sintomi che le ragazze, e anche alcune insegnanti, hanno accusato dopo essere state esposte a quella che sembrerebbe una fuoriuscita di gas. Tutto è iniziato nella città sacra di Qom, conosciuta per essere il centro per gli studi religiosi sciiti, adesso le scuole coinvolte sarebbero 52 – a Lorestan, a Borujerd e perfino a Teheran – distribuite in 21 province del paese, come ha affermato il ministro dell’interno Ahmad Vahidi. Per mesi il governo ha minimizzato o, addirittura, negato i fatti accaduti accusando le studentesse di isteria e di fingere dei sintomi che necessiterebbero l’ospedalizzazione, come successo a molte di loro. Dopo molto tempo, il viceministro della salute Younes Panahi è stata la prima autorità a confermare gli avvelenamenti sostenendo che siano stati causati da sostanze chimiche reperibili con facilità e ha aggiunto, senza approfondire la questione, che qualcuno desidera che le ragazze non frequentino le scuole. Chi sono i responsabili? Le ipotesi più diffuse su chi stia intossicando le studentesse sono due. Alcuni sostengono che questi attacchi siano da imputare ad un gruppo estremista che è concorde con la politica che i talebani hanno attuato in Afghanistan riguardo l’istruzione femminile; altri ancora sono convinti che dietro tutto ciò ci sia il governo stesso che vuole scoraggiare donne e ragazze nel partecipare alle varie manifestazioni precedentemente citate. Solo quando questi eventi hanno catalizzato l’attenzione internazionale, il presidente Ebrahim Raisi ha annunciato l’apertura di un’inchiesta che ha portato all’arresto di oltre 100 persone accusate di avere legami con gruppi ostili. Tra gli arrestati, secondo il ministero dell’interno, c’è chi è sospettato di appartenere al gruppo di opposizione in esilio Mujahedin del popolo dell’Iran o Mujahedeen-e-Khalq (MEK), considerato dal governo un’organizzazione terrorista che vuole diffondere il panico tra la popolazione. Le indagini sono ancora in corso e si auspica che vengano condotte in maniera imparziale da parte delle autorità preposte anche se, come ricorda l’organizzazione Human Rights Watch, una lunga serie di precedenti fa pensare che la polizia possa agire in modo tendenzioso. Basti pensare alle donne che vennero sfregiate con l’acido da assalitori ignoti nel 2014 nella città di Isfahan, probabilmente perché indossavano il velo in modo non conforme alle norme vigenti in Iran, infatti le indagini portarono ad un nulla di fatto e le autorità negarono ogni coinvolgimento nelle aggressioni. Noi di Large Movements desideriamo che i veri responsabili di azioni tanto inique vengano consegnati alla giustizia e che il governo iraniano garantisca la sicurezza dei propri cittadini, nonché i loro diritti fondamentali. Auspichiamo che le donne iraniane possano vivere in piena libertà e realizzarsi secondo le proprie aspirazioni. Donna. Vita. Libertà. FONTI E APPROFONDIMENTI: I casi di avvelenamento di studentesse in Iran continuano ad aumentare – Il Post Iran: oltre 100 arresti per l’avvelenamento delle studentesse – Mondo – ANSA Large Movements – Donna, vita, libertà: la lotta delle donne iraniane è la lotta di tutte Large Movements – L’Iran e il ruolo della donna nell’Islam 6 grafici per capire le proteste in Iran | ISPI (ispionline.it) What explains mysterious poisonings of schoolgirls in Iran? | News | Al Jazeera Iranian Media Reports Hundreds of Schoolgirls Poisoned | Human Rights Watch (hrw.org) Acid attacks in Isfahan have nothing to do with the hijab, say Iranian officials | Iran | The Guardian ‘They used our hijabs to gag us’: Iran protesters tell of rapes, beatings and torture by police | Iran | The Guardian Se ti è piaciuto l’articolo, Condividici!

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Siria-accoglienza

Storia di un giovane siriano con un “cuore di pietra”

Le coste calabre continuano ad essere tra i maggiori punti di arrivo di immigrazione, motivo per cui negli ultimi anni il territorio accoglie nuove strutture per i richiedenti asilo. Tra questi, la cooperativa Jungi Mundu di Camini, dal 2000, è diventato uno SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Lo scorso agosto mi trovavo a Camini, comune di poco più di 600abitanti in provincia di Reggio Calabria, a pochi km dall’ormai nota Riace. Qui, Amnesty International già da qualche anno, organizza dei laboratori di formazione estivi per approfondire le tematiche di immigrazione e diritti di accoglienza. Appena scesa dal regionale, dopo 7 ore di viaggio e qualche grado in più intorno a me, ho subito capito che Camini non poteva che essere il luogo migliore dove parlare di immigrazione ed accoglienza. Una terra apparentemente abbandonata a sé stessa, dove l’edilizia moderna e la frenesia quotidiana sembrano appartenere ad un’altra dimensione. Una piazza. Un bar con qualche tavolino in legno, dei divanetti ed uno schermo con le partite di calcio del giorno. Cittadini dalla pelle bianca, cittadini dalla pelle nera. Anziani, giovani e bambini. Questo è lo scenario che mi trovavo davanti. Uno scenario che sembrava apparentemente normale. Eppure, nell’aria c’era qualcosa di speciale. La prima sera già mi era tutto più chiaro. Quella piazza, quel bar e quei cittadini facevano parte di un’enorme famiglia, in una piazza che riuniva più storie di vita, una diversa dall’altra. Una famiglia in cui i richiedenti asilo, per lo più provenienti dalla Siria, ed i caminesi erano entrati in perfetta armonia. Un’armonia fatta di impegno quotidiano, sacrifici e voglia di ricominciare dopo un vero e proprio viaggio della speranza, con alle spalle una vita di guerra ed ingiustizia. A “campo di accoglienza” spesso si associa l’immagine di un grande campo sperduto nel nulla con qualche baracca e sistemazione fatiscente. Di situazioni così purtroppo ne esistono ancora troppe ma questa volta vi voglio parlare di un’Italia che accoglie ed è sinonimo di rinascita e speranza per coloro che vi arrivano. Camini infatti è una vera eccezione e l’Italia è colma di borghi che hanno fatto dell’accoglienza la loro forza, dando ai rifugiati una “nuova” vita e dove loro stessi hanno ridato vita a delle realtà in cui l’unica cosa a regnare era diventata la desolazione. Erano circa le 9 di mattina quando M. decise di accompagnare me e le altre ragazze del gruppo a riempire le nostre borracce alla piccola sorgente di Camini. M. in mezzo a noi, seppure più piccolo di quasi 10 anni, sembrava già un uomo, pronto a farci scoprire la sua realtà, raccontandoci con cura la storia del paesaggio che ci circondava. Ritornando verso la piazza, ci ritrovammo lui ed io da soli. La voglia di condividere la sua storia e la sua “non infanzia” come lui stesso l’ha chiamata, trapelava da ogni poro della sua pelle. “Non smettere mai di inseguire i tuoi sogni”, mi dice M. Sono state queste parole, accompagnate da uno sguardo che non potrò mai più scordare, che mi hanno spinto a dare voce ad una storia fatta di guerra, dolore, odio ma che M. è riuscito a trasformare in una storia di vita, speranza e determinazione. M. viene dalla Siria, terra da sempre contesa fra i paesi limitrofi, e non solo. Terra la cui ricchezza delle materie prime è diventata responsabile di migliaia di vite che, in cerca di un futuro dignitoso, si imbattono in viaggi la cui destinazione e la certezza di arrivarvi sono in mano ad un destino…ancora troppo clandestino. M. arriva a Camini a giugno di 4 anni fa, quando aveva appena 9 anni, con la sua famiglia: cinque fratelli ed una sorellina che però non ce l’ha fatta di fronte ai raggi x di un’ecografia. Ora frequenta la II media, a Riace Marina, e descrive la scuola come un luogo in cui molti studenti prendono in giro i ragazzi stranieri. “Io ho tantissima forza ma non voglio usarla” inizia M. Era abituato in Siria dove tutti giravano armati e che anche per un minimo scherzo ci si poteva “rimettere la pelle”. A Camini ha trovato nuovi amici ma la sua esperienza lo ha fatto crescere con una rapidità tale che non si trova a suo agio con i bambini della sua età. Pur di non pensare e rivivere i fantasmi che sono in lui, esce comunque con i suoi coetanei per svagarsi un po’. M. poco prima dell’estate ha conosciuto un ragazzo più grande, di 25 anni e con lui riesce a parlare di “cose da adulti”. “Lui mi ha insegnato che non devo avere paura”. “Com’era vivere in Siria? Ci pensi spesso?” “Come potrei non ripensarci, ho visto tante di quelle cose che nessun bambino si può immaginare e non auguro a nessuno di vivere ciò che ho vissuto io”. Si ricorda tutto M. Mi racconta ad esempio quella volta che era uscito con il papà, aveva forse 4 anni ma aveva già una forza innaturale. C’era la guerra fuori e M. si ricorda la grotta in cui si erano nascosti. L’unica arma che possedevano erano il coraggio e la forza di sopravvivere. Il papà aveva studiato le tattiche ed i tempi di reazione delle varie armi da fuoco e quindi anche quella voltai due si erano riusciti a salvare, nonostante la loro testa fosse al centro di un mirino. La guerra persisteva, giorno e notte, anche nei momenti più inaspettati. M. si è visto più volte i proiettili sfiorargli il corpo. Un giorno ad esempio stava aggiustando l’antenna con il papà, la cui maglietta si ruppe proprio per un proiettile che gli era caduto a fianco, o quando il fratello stava pranzando fuori dal balcone di casa e si è visto cadere una bomba di fronte. M. si definisce forte, anche solo rispetto ad i suoi fratelli. Uno ha sofferto di crisi per tanto tempo, perché “certe immagini oltre a bombardarti dal vivo ti bombardano anche la testa”. Ammette che ha ancora bisogno della famiglia ma

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Sunniti e sciiti: scontro settario o conflitto per il controllo del potere?

L’inasprirsi negli ultimi decenni dei conflitti nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa ha acceso una forte attenzione verso l’Islam. Questi disordini vengono spesso erroneamente descritti solo in termini settari, adducendo la divisione tra le due correnti principali dell’Islam – sunniti e sciiti – come unica motivazione alla base del conflitto. Sebbene la convivenza tra le due correnti religiose non sia sempre stata pacifica, i motivi scatenanti le guerre sono alquanto complessi e non legati solo all’antagonismo reciproco. L’Islam nel mondo Sono molti gli errori che si commettono quando si parla di Islam, il primo fra tutti è collegare la religione all’etnia araba. Diversamente da quello che si tende a pensare, l’Islam è una realtà che non riguarda esclusivamente i paesi arabi o quelli del Medio Oriente e Nord Africa difatti solo una minoranza dei musulmani vive in questi territori.  Si stima che circa il 60% della popolazione musulmana mondiale vive in Asia, il 20% in Medio Oriente, 15% in Africa ed il restante tra Europa ed Americhe. Ad oggi il paese che ospita il maggior numero di musulmani è l’Indonesia, seguita da paesi come Pakistan, India e Bangladesh. Un altro interessante dato ci dice che mentre l’80% vive in paesi dove i musulmani costituiscono la maggioranza, il restante 20%, invece, vive come minoranza nel proprio paese. In questi ultimi le minoranze musulmane sono spesso vittime di persecuzioni e repressioni, come ci mostrano i casi degli Uiguri in Cina, i Rohingya in Myanmar finanche gli avvenimenti in India ed in Tailandia – dove i governi nazionali hanno adottato politiche discriminatorie nei confronti della comunità islamica.  Questi primi dati ci aiutano a capire come il mondo islamico non sia un universo monolitico, come siamo portati a pensare, ma che al contrario cela al suo interno numerose divisioni e diversità, alcune anche molto difficili da interpretare. La più grande divisione interna all’Islam, ma non l’unica, è quella tra sunniti e sciiti, una divisione che risale addirittura a circa 1400 anni fa.  Sunniti e sciiti: una questione di successione Per comprendere l’esatto momento che diede inizio alla più grande divisione nel mondo islamico, bisogna tornare al tempo della creazione della religione stessa, al tempo del profeta. La comunità islamica iniziò a strutturarsi al momento della grande emigrazione delle tribù dell’Arabia da Mecca a Medina sotto la guida del profeta Muhammad. Alla morte del profeta nel 632 d.C. quello che venne a crearsi all’interno della comunità fu un problema di successione e di organizzazione politica. In questo caso, la sfera religiosa ricopriva un ruolo marginale, poiché la questione della successione alla guida della ummah (comunità islamica) era di natura politica e tribale. Quest’ultima suscitò due risposte alternative: chi riteneva che il successore dovesse essere scelto all’interno della stessa tribù del profeta e chi designò come unico e legittimo successore Ali, cugino e genero di Muhammad – il nome “sciiti2 deriva proprio dall’arabo shi’at ‘Ali “la fazione di Ali”. Ad avere la meglio infine furono i primi e venne designato califfo – khalifa “vicario di Dio” – Abu Bakr, il primo di quelli che verranno chiamati dai sunniti al-rashidun cioè i “califfi ben diretti”. A lui seguiranno Umar, Uthman e solo in ultima istanza Ali, che guidò la comunità fino al 661 d.C. ponendo fine al trentennio di califfato. Secondo un racconto profetico che recita “Il califfato durerà 30 anni poi verrà il regno”, solo il periodo dei Califfi ben diretti può essere chiamato legittimamente Califfato per via della maggiore aura religiosa di cui godeva, nonostante ciò, l’appellativo Califfo continuò ad essere usato dalle dinastie che seguirono.  Al fine di ricostruire la spaccatura interna all’Islam, la battaglia di Karbala segnò definitivamente e in maniera irreversibile la lacerazione tra sunniti e sciiti. Intorno al 680 Hussein, figlio di Ali, guidò numerosi dei suoi seguaci dalla Mecca a Karbala (attuale Iraq) contro l’esercito del corrotto Califfo Omayyade di Damasco, uno scontro che assumerà per gli sciiti un’aura particolare, quasi di scontro tra bene e male. A Karbala Hussein venne ucciso e decapitato, un momento che viene ancora ricordato dai seguaci di Ali nel giorno di Ashura.  La guida politica e religiosa  I sunniti e il Califfato Il problema dell’organizzazione politica interna all’Islam è quindi la prima grande differenza tra sunniti e sciiti. Alla morte del profeta, dunque, la guida della comunità prese due strade distinte. Abbiamo visto come i sunniti abbiano concesso il comando politico della comunità al Califfato che venne detenuto da diverse dinastie, le quali si susseguirono nei secoli; tra le più importanti vediamo l’Omayyade, Abbaside e l’Ottomana. La fine dell’impero Ottomano nel 1922 e la creazione della Repubblica della Turchia porterà anche all’abolizione del Califfato nel 1924, una fine non definitiva perché nel 2014, l’ISIS ha riesumato il titolo di Califfo, proclamando il Califfato dell’ISIS.  In questo sistema di organizzazione sociale l’autorità politica, il Califfo, si confronta e si scontra con l’autorità religiosa, rappresentata ed esercitata dai giuristi. Sono i giuristi che con la loro autorevolezza riconosciuta dal popolo possono porre un argine all’eventuale prepotenza del potere politico dal quale sono indipendenti.  Un’altra particolarità dei sunniti è dettata dai diversi indirizzi interpretativi che sono emersi dopo la morte del profeta e che si sono stabilizzati e cristallizzati tra il VIII e XI sec. Nello specifico, ci si riferisce alle quattro scuole giuridiche che derivano da una diversa interpretazione delle fonti primarie del sunnismo. Questi quattro indirizzi si fondano sull’insegnamento di quattro personalità che hanno fondato le scuole e dalle quali prendono il nome: malikiti, hanafiti, shiafi’iti e hanbaliti; ognuna di queste scuole è ancora valida e caratterizza una particolare area geografica con alcune eccezioni come l’Egitto – che vede la presenza di tutte le scuole con la predominanza della scuola Hanafita – o la Siria – che risente sia della scuola shiafi’ta sia di quella hanafita. Imam: guida politica, spirituale e religiosa degli sciiti Gli sciiti non riconoscono il Califfato. Per loro, la guida della comunità spettava solo ad Ali e ai suoi discendenti ai quali venne attribuito il titolo di Imam. Per gli sciiti la differenza è dovuta al fatto che l’Imam raccoglie in sé l’intera autorità

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Il progetto GAP. L’acqua, strumento di sviluppo o di forza?

L’acqua è indispensabile per la sopravvivenza e per lo sviluppo dell’essere umano. Sebbene la maggior parte della superficie del pianeta sia ricoperta da acque, solo l’1% di queste è fruibile all’uomo. Questa piccola percentuale basterebbe a soddisfare il fabbisogno mondiale se non fosse per la sua diseguale distribuzione. La cattiva gestione della risorsa, unita ad un insieme di altre variabili, sta portando ad una serie di problemi ambientali (carestie, siccità, desertificazioni, innalzamento delle temperature) e non, con ripercussioni sulle migrazioni e sul sottosviluppo.  Molte delle fonti d’acqua disponibili al mondo sono condivise tra vari paesi e questo conduce molto spesso all’esacerbarsi di tensioni ed a scontri diplomatico-politici. A tutto ciò si aggiunge anche il vertiginoso aumento del consumo di acqua dovuto alla crescita della popolazione mondiale ed al conseguente maggiore utilizzo in settori come quello domestico, agricolo, industriale ed energetico.  Secondo il report FAO The State of Food and Agriculture 2020, la quantità annuale di risorse di acqua dolce disponibili pro-capite è diminuita di oltre il 20% negli ultimi due decenni, fino ad arrivare anche al 30% in alcune aree. Le risorse idriche sono sempre più sotto pressione in tutto il mondo e la necessità di una gestione sostenibile che ne assicuri la disponibilità alle generazioni future non è mai stata così impellente. L’acqua sembrerebbe perciò destinata a divenire secondo molti un motivo di conflitto più importante del petrolio. Le guerre e le ripercussioni legate all’oro nero non sono nuove – il mondo è stato più volte scosso da motivazioni connesse allo sfruttamento di detta risorsa energetica – ma i conflitti legati alla gestione di risorse d’acqua, per quanto potrebbero essere percepiti come ancora lontani, sono più attuali che mai. L’acqua, oltre ad essere fondamentale per la sopravvivenza ed il benessere dell’essere umano, è anche funzionale allo sviluppo socioeconomico degli Stati ed è per questo che l’accesso alle risorse idriche è divenuto fondamentale. Ed è soprattutto in un’area come quella del Medio Oriente – dove la disponibilità e l’accesso a fonti di acqua è limitata – che il controllo delle risorse idriche sta divenendo un’arma geopolitica molto importante sullo scacchiere delle potenze, come il caso del Tigri e dell’Eufrate ci dimostra. Il Tigri, l’Eufrate e il progetto GAP La Mesopotamia ha favorito per millenni lo sviluppo di civiltà grazie alla fertilità donata dall’inondazione dei fiumi Tigri ed Eufrate e dalle opere di irrigazione create dall’uomo. Entrambi i fiumi si originano nei territori dell’attuale Turchia, proseguono in Siria per poi congiungersi in Iraq e sfociare nel Golfo Persico. Essi costituiscono un’importante risorsa d’acqua per tutti i paesi rivieraschi che attraversano: di fatto, molti grandi interventi sono stati realizzati per il loro utilizzo strategico, soprattutto negli ultimi anni.  In questo quadro si inserisce l’enorme progetto turco nel sud-est dell’Anatolia, il GAP (Güneydoğu Anadolu Projesi). Questo progetto prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche per la riqualificazione di un territorio caratterizzato da: rigide condizioni territoriali e climatiche, risorse idriche mal distribuite, terre aride, insufficienti servizi sociali, bassi livelli di reddito pro capite e modelli di migrazione “inusuali”.  La Turchia negli ultimi decenni è stata interessata da un forte sviluppo economico e sociale che ha generato un incremento del benessere della sua popolazione e, conseguentemente, del fabbisogno di energia.  È sorto così il progetto del GAP che, da un lato, doveva rispondere alla rapida crescita economica e demografica dell’intero paese e, dall’altro, doveva migliorare gli standard socioeconomici della regione interessata dalla sua presenza, attraverso la riduzione delle disparità e delle disuguaglianze con le altre regioni della Turchia.  Il GAP, quindi, potrebbe portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e del benessere dell’area e ad una maggiore efficienza in termini di produzione energetica prodotta a basso costo ed a basse emissioni. A tutti questi benefici per il territorio e per la popolazione turca, tuttavia, si aggiunge una serie di risvolti sociali, politici, ambientali e culturali negativi. Il GAP come motivo di tensione tra Stati Lo sfruttamento dei due fiumi ha portato negli anni ad una serie di problematiche politiche e diplomatiche tra la Turchia e gli altri due paesi rivieraschi, Siria ed Iraq.  Fino agli anni ’60, le relazioni tra i paesi non erano influenzate da tensioni legate all’utilizzo delle acque, poiché le dimensioni dei progetti sviluppati sui due fiumi erano contenute e non prevedevano un utilizzo intensivo della risorsa idrica. Le tensioni si inasprirono quando iniziarono i primi passi concreti verso la realizzazione di vari progetti idroelettrici in tutti e tre i paesi, come la costruzione della diga di Keban in Turchia, la diga di Tabqa in Siria – che con il riempimento del bacino del lago di Assad ha scatenato la collera dell’Iraq – ed il lancio ufficiale del GAP negli anni ’70, che vide l’inaugurazione della prima diga, Karakaya, alla fine degli anni ’80. Venne, dunque, creato un Comitato Tecnico Congiunto (JTC) per cercare di raggiungere un accordo per uno sfruttamento bilanciato di entrambi i fiumi tra i tre paesi. Inizialmente, al Comitato parteciparono solo Turchia e Iraq. La Siria si aggiunse solo in seguito, ma il lavoro del JTC non portò mai ad un risultato concreto.  Il primo accordo si ottenne solo a livello bilaterale nel 1987 tra Turchia e Siria, stabilendo un rilascio medio annuo di 16 miliardi di metri cubi di acqua alla Siria con una portata minima annua media di 500 m3/s. A questo seguirono una serie di altri accordi, tra i quali quello del 1990 tra Siria e Iraq nel quale i due paesi concordarono di ricevere rispettivamente il 42% e il 58% del flusso dell’Eufrate al confine turco-siriano. Il completamento della diga di Atatürk nel 1990, fiore all’occhiello dell’intero progetto GAP nonché una delle dighe più grandi al mondo, fece riemergere diverse tensioni tra i paesi. La Turchia, infatti, per riempire il bacino della diga deviò l’Eufrate per circa un mese, causando una notevole riduzione della quantità ed il peggioramento della qualità dell’acqua diretta verso la Siria e l’Iraq. A seguito dell’episodio, vennero inviate invano note minacciose alla Turchia per richiedere lo stop alla costruzione di altre dighe previste sul corso dei due fiumi, come quelle

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Muzoon Almellehan

“Non smettere mai di imparare e di sognare. Non perdere mai la speranza.” La piccola Muzoon è nata l’8 aprile 1999 da Eman e Rakan Almellehan nella città di Dara’a, Siria, dove il papà lavorava come insegnante. Dara’a è stata teatro delle prime proteste contro il regime e di alcune delle prime repressioni contro la popolazione locale. Infatti, subito dopo lo scoppio della guerra civile siriana, la loro città fu assediata dalle forze governative. Due anni dopo, nel 2014, la città venne presa dalle forze islamiste, questo portò ad un inasprimento della guerra che spinse Muzoon e tutta la sua famiglia a scappare verso la Giordania. «Anche da bambina, sapevo che l’istruzione era fondamentale per il mio futuro. Quando ho dovuto abbandonare la Siria, gli unici effetti personali che ho portato con me sono stati i miei libri di scuola» racconta. Ciononostante, Muzoon è stata anche tra le prime – e le più giovani – rifugiate siriane a operare per realizzare un cambiamento. Il primo campo dove arrivarono fu quello di Za’atari, nei 18 mesi trascorsi lì, la piccola Muzoon cominciò ad occuparsi del diritto all’istruzione per i bambini, ed in primo luogo per le ragazze. Infatti, Muzoon si iscrisse alle scuole all’interno del campo, ma presto si accorse che molte ragazze rifugiate – alcune di 13 e 14 anni – interrompevano le lezioni e si sposavano. “Da rifugiata, ho visto cosa succede quando i bambini sono costretti a un matrimonio precoce o al lavoro manuale. Essi restano esclusi dal percorso formativo e perdono la possibilità di avere un futuro.” Racconta. “Ero fortunata perché mi trovavo in un campo dove c’erano delle scuole e perché i miei genitori credevano nell’istruzione“. Malgrado la sua età, Muzoon iniziò a girare di tenda in tenda per i campi, per parlare con i genitori del valore dell’istruzione e dei rischi del matrimonio precoce. In ogni occasione, esortava i genitori a rimandare le figlie a scuola. “Le ragazze devono ricevere un’istruzione”, dice Muzoon. “È la migliore protezione per loro. Se una madre non è istruita, come può aiutare i suoi figli? Se i giovani non sono istruiti, chi ricostruirà il nostro Paese?”. Le organizzazioni umanitarie cominciarono ad interessarsi al lavoro di Muzoon, per questo divenne una Good Will Ambassador di UNICEF. E quando il premio Nobel per la pace e Asia Game Changer, Malala Yousafzai andò a visitare il campo di Za’atari, fece di tutto per trovare Muzoon. Malala aveva sentito parlare del suo lavoro e i compagni di classe di Muzoon le raccontarono di essere stati ispirati e di essere rimasti a scuola grazie a Muzoon. Nel 2015, Muzoon e la sua famiglia, dopo aver rinunciato a vari reinsediamenti verso Canada e Svezia per motivi logistici, riuscirono finalmente a trovare rifugio nel Regno Unito nell’ambito di un piano annunciato nel mese di settembre da David Cameron con il quale il governo britannico prevedeva di accogliere 20.000 rifugiati siriani. Muzoon e la sua famiglia, riuscirono, quini a trasferirsi a Newcastle, dove tutti i figli della famiglia Almellehan frequentano la scuola di Kenton. Oggi Muzoon ha 23 anni ha terminato la scuola secondaria, ed ha finalmente realizzato il suo sogno di entrare all’università dove studia Scienze Politiche. Ma soprattutto, continua ad impegnarsi per difendere tutte le ragazze a cui è negata l’istruzione nel mondo, in particolare le sue sorelle siriane. “Abbiamo bisogno di istruzione, perché la Siria ha bisogno di noi“, dice Muzoon. “Senza di noi, chi porterà la pace?”. Noi di Large Movements condividiamo il pensiero di Muzoon ed abbiamo ritenuto importante condividere con voi la sua storia perché ci rendiamo conto di quanto, molto spesso diamo per scontato quello che abbiamo sotto il nostro naso. L’istruzione è una di quelle cose che molto spesso vengono date per scontato, quando, specialmente in un periodo così particolare, dovremmo tutti ricordarci che l’istruzione per tutti, ma soprattutto per tutte le donne e bambine di questo mondo sia fondamentale non solo per il raggiungimento dell’eguaglianza di genere, ma anche, e soprattutto, come dice Muzoon, per la loro stessa protezione e affinché in questo modo, anche le donne possano essere incluse come voce fondamentale all’interno delle trattative e dei processi di pace. Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

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