Salafiti: tra profonde differenze e reali unità

La difficoltà di comprendere il concetto di Salafismo – e quindi i Salafiti – inizia già con il tentativo di definirlo. È stato, infatti, identificato come una tendenza religiosa, un movimento di protesta, un movimento di riforma e ancora come una dottrina religiosa, ma nessuno di questi riesce a cogliere la vera entità del fenomeno. Oltretutto, il concetto di “Salafismo” – e di conseguenza la definizione di “salafiti” – ha assistito anche ad un’evoluzione profonda durante i secoli. Difatti, sono numerosi i pensatori ed i giuristi che hanno usato il termine in molte accezioni diverse e ciò rende ancora più difficile una ricostruzione chiara.

L’origine e la differenza con il Wahhabismo

Salafismo è un termine che deriva dall’arabo al-salaf al-ṣāli, che letteralmente vuol dire ‘’antenati pii’’ e con cui si fa riferimento alle prime tre generazioni di musulmani: i Ṣaḥābi, i Tābiʿūn e i Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn. Secondo i salafiti quest’ultime rappresentano, a differenza dei musulmani di oggi, la versione pura e autentica dell’Islam, che si è persa nei secoli ed alla quale si dovrebbe tornare a fare riferimento.

A livello ideologico, il Salafismo moderno risale soprattutto ad un giurista e teologo medievale, Ibn Taymiyya, vissuto tra il 1263 e il 1328 nel territorio dell’odierna Siria, sebbene l’attuale corrente venga ricondotta al wahhabismo, un movimento di riforma religiosa nato nel XVIII secolo e che caratterizza l’attuale Arabia Saudita.

Nonostante molti tendano ad usare Wahhabismo e Salafismo come se fossero interscambiabili, i termini hanno connotazioni diverse, come viene chiaramente spiegato dallo studioso americano Blanchard: il primo termine, infatti, si riferisce ad “un credo islamico conservatore dell’Arabia Saudita” mentre il secondo ad “un movimento islamico puritano più generale che si è sviluppato in modo indipendente in vari tempi e in vari luoghi del mondo islamico”.

I Salafiti uniti da un credo comune?

Nella loro profonda differenza interna al movimento possiamo, tuttavia, riconoscere alcune caratteristiche di uguaglianza. Per una piena comprensione di ciò che accomuna tutti i salafiti passeremo attraverso la definizione di alcuni concetti chiave, senza i quali sarebbe impossibile l’osservazione basilare del fenomeno.

Tutti i salafiti sono legati dallo stesso credo religioso, aqida, da cui traggono i principi e i metodi per applicare la propria fede a questioni e problemi anche contemporanei.

Con il termine aqida (credo) ci si riferisce sia alle dottrine di base dell’Islam sia ai testi in cui vengono specificate queste dottrine. Nonostante il termine possa risultare di facile comprensione, l’aqida porta con sé un significato ben più complesso: esso indirizza le più importanti questioni religiose, fornisce i principi organizzativi e, più in generale, i vari aspetti del credo.

L’unità di Dio è un punto cruciale per tutti i musulmani ma ha un significato particolare per i salafiti e viene espressa con il termine tawhid. L’unicità di Dio si sviluppa su tre dimensioni: Dio è il solo creatore e signore dell’universo, Dio è supremo e unico e Dio è il solo ad avere il diritto di essere onorato. Il tawhid deve essere difeso e rispettato e, solo seguendo severamente il Corano e l’esempio del Profeta Mohammed trasmesso attraverso la Sunna, è possibile farlo. Il Corano è la parola di Dio e la sua sacralità è evidente anche dal punto di vista della lingua utilizzata, l’arabo. Il testo sacro, infatti, è impossibile da tradurre ed anche impossibile da imitare sia nella forma che nel contenuto. La Sunna, anch’essa fonte scritta, contiene i testi, i fatti e persino i silenzi del profeta. L’importanza di seguire l’esempio di Muhammad si può comprendere da questo versetto coranico:

“Voi avete, nel Messaggero di Dio, un esempio (iswah) buono, per chiunque speri in Dio e nell’Ultimo giorno e molto menzioni Dio”

   (Corano, XXXIII, 21)

Perciò, tutte le risposte sono contenute nel Corano e nella Sunna e l’importanza di attenersi a queste fonti è fondamentale perché ogni altro riferimento potrebbe portare a divergenze. Abbiamo già detto che il Corano è la parola di Dio; questo implica che non sia interpretabile. L’interpretazione, essendo un atto finalizzato ad attribuire un significato, presuppone un processo dove è la logica umana ad operare e l’applicazione dell’intelletto umano sui testi sacri non è consentita. È per tale motivo che non vengono riconosciute dai Salafiti le scuole giuridiche, perché queste hanno dato luogo a diversi indirizzi interpretativi delle stesse fonti.

Detto ciò, il dovere di attenersi alle fonti sacre porta a non tollerare ogni forma di innovazione (bid’a). Ciò, però, non vuole dire che tutte le forme di innovazione sono respinte; difatti, solo quelle in seno all’Islam portano a prendere le distanze dal credo puro e vero. Un’importante distinzione va però fatta tra bid‘a e tajdīd, cioè tra innovazione religiosa e rinnovamento religioso. A differenza del primo concetto, che è visto con accezione negativa, il secondo è accettato in quanto nel processo di rinnovamento non viene apportata nessuna innovazione religiosa in seno all’Islam.

Un ultimo termine che merita un approfondimento è un concetto che viene spesso usato, soprattutto dai media, in maniera incompleta ed a volte errata e che meglio aiuta ad inquadrare il Salafismo: stiamo parlando del ğihād.  La traduzione più familiare a noi è quella di “guerra santa”, sebbene, in realtà, si intenda qualcosa di molto più ampio. Viene definito ğihād ogni sforzo che il credente deve fare sulla via di Dio, un obbligo generale che riguarda ogni musulmano e che prevede di combattere le proprie cattive disposizioni e di migliorarsi sempre più, verso la strada di Dio. Si devono, dunque, distinguere lo ğihād minore – inteso come sforzo del musulmano verso la comunità e quindi concernente la sfera pubblica – dallo ğihād maggiore – che rappresenta lo sforzo di auto perfezionamento individuale e che si sviluppa, invece, nella dimensione privata. Quando si fa riferimento allo ğihād minore la valenza che gli viene attribuita è duplice: una che riguarda un intervento contro i vizi pubblici e una definita “braccio” ed è solo in questa seconda dimensione che viene menzionato l’utilizzo della forza. Questo cenno all’uso della forza è stato poi interpretato dalle frange estremiste come legittimante ad intraprendere la cosiddetta guerra santa. D’altra parte, i media, soprattutto occidentali, hanno contribuito ad enfatizzate questo aspetto dello ğihād più duro facendo un uso improprio, al punto di ridurre il senso del termine generale a questo singolo aspetto.   Ciò ha portato a stravolgere il concetto generale di ğihād intesocome sforzo che il credente è chiamato a fare sia pubblicamente che privatamente in qualcosa che rappresenta solo in parte il vero significato del termine.

Un gruppo… non così omogeneo

Quest’ultimo termine ci è utile per parlare, invece, delle profonde differenze che sussistono nel Salafismo. Anche se per lungo tempo sono stati un gruppo relativamente omogeneo, principalmente stanziato nei territori dell’Arabia Saudita, con il passare dei decenni i salafiti hanno subito delle spaccature interne e una diffusione in altri territori. La situazione odierna vede l’esistenza di varie correnti diverse tra loro, eppure, bisogna prestare attenzione alle categorizzazioni avanzate perché potrebbero fornire un’idea di separazione troppo netta. Tuttavia, per comprendere e sottolineare come le azioni violente e le rivendicazioni di carattere politico siano mosse da quella che è solo una minoranza, faremo cenno ad una delle divisioni proposte dallo studioso Quintan Wiktorowicz. Nonostante la sua formulazione sia stata di recente messa in discussione, mostrando come le divisioni tra le correnti non siano così rigide come potrebbero sembrare e come queste vadano bene quando si parla di Salafismo in termini ideologici, la sua teoria rimane una delle più autorevoli e tra le più utili nello studio del fenomeno. Wiktorowicz riconosce tre maggiori correnti interne al Salafismo, che lui stesso definisce: puristi (chiamati anche quietisti), politici e ğihādisti.

I salafiti puristi: tra purezza del credo e isolazionismo

I puristi si impegnano principalmente a preservare la purezza dell’Islam, che proteggono e promuovono attraverso attività missionarie e di educazione al credo Salafita. Si vedono impegnati anche nella lotta contro le pratiche che deviano dal messaggio originale, ma la loro guerra non è fatta di spade, bensì di discorsi e di buone maniere. Sugli esempi pacifici del profeta e degli antenati pii, ogni forma di attivismo violento e di impegno politico (anche non violento) non è ben vista, nemmeno nei casi più estremi, perché costituisce un’innovazione del credo originale, che, come abbiamo visto, non è tollerata.

Per mantenere questa purezza della religione, spesso i puristi si sono caratterizzati per il loro isolazionismo verso tutto ciò che potrebbe intaccare l’originalità del messaggio islamico. Per questo motivo tendono a rimanere separati soprattutto dai non-credenti ma anche dai non musulmani e dagli stessi musulmani che non seguono la pura interpretazione. Per questo motivo, anche se i Salafiti vivono e risiedono in luoghi lontani dai territori islamici, la loro tendenza è quella di rimanere in comunità chiuse.

L’importanza fondamentale del tawhid, della purezza e del rigetto verso qualsiasi forma di innovazione spinge i puristi a non riconoscere né i politici per il loro impegno, né gli ğihādisti per gli atti violenti. Il messaggio originale non parla di violenza o di attivismo politico, perciò le azioni di queste due correnti non solo deviano dalla purezza, ma sono anche spinte da un desiderio umano di far prevalere una loro decisione umana sul credo. I puristi perciò, non solo rifiutano, bensì boicottano le azioni delle altre due correnti.

Critica ai puristi, i politici contro le ingiustizie

I politici, a differenza dei puristi e come suggerisce il nome stesso, sono impegnati politicamente in varie forme. La prima testimonianza del loro sviluppo in Arabia Saudita si ebbe tra gli anni ’80 e ’90 quando un gruppo di giovani sfidò l’autorità dei salafiti puristi. Questi ultimi venivano e vengono accusati di una mancata conoscenza di ciò che accadeva e accade intorno a loro, principalmente in ragione del loro isolamento dal resto del mondo.

La loro comparsa, dovuta non solo al contesto locale ma anche al contatto con altri movimenti islamisti impegnati politicamente come i Fratelli Musulmani, ha permesso la creazione all’interno del credo Salafista di argomentazioni politiche viste dai puristi come un’innovazione. Dal punto di vista dei politici, invece, tutte le ingiustizie che i salafiti e il mondo musulmano stavano subendo andavano affrontate non più con preghiere, purificazione o propagande ma con un attivismo politico concreto.

Ğihādisti: una minoranza frammentata

Come abbiamo visto, il termine ğihād ha per i musulmani una connotazione diversa da quella presentata dai media. I puristi sottolineano il carattere pacifico dell’esempio lasciato dai primi antenati e rifiutano ogni forma di violenza, situazione ben diversa dall’interpretazione della corrente ğihādista dei salafiti.

Wiktorowicz nel suo articolo presenta un’interessante ricostruzione storica della loro evoluzione: senza entrare nel dettaglio, la loro “nascita” risale alla guerra in Afghanistan contro l’Unione Sovietica. Tenendo presente che la loro formazione “politica” è avvenuta principalmente sul campo di battaglia, il loro rapporto con lo ğihād intesa come guerra santa è molto più stretto rispetto alle altre correnti ed ai musulmani in generale. L’obiettivo di un rovesciamento dei sovrani apostati a favore dell’istituzione di Stati Islamici “giustifica” l’uso della violenza e delle armi. La loro critica verso i puristi (ma anche verso chi non segue il loro messaggio) è forte, il loro rifiuto di opporsi alle ingiustizie che i musulmani subiscono li porta ad essere accusati di non applicare il loro credo fino in fondo. Nonostante ciò, bisogna ricordare che gli ğihādisti costituiscono solo una minoranza, anche frammentata internamente, e che spesso non ha un nemico comune.

Conclusioni

Come abbiamo visto, il fenomeno è più complesso di quello che potrebbe apparire ad un primo sguardo e merita, perciò, un’attenzione particolare. Malgrado la tendenza ad osservare i salafiti solo attraverso la lente estremista, essi si differenziano molto al loro interno ed i confini tra le varie correnti risultano sfumati. Grazie a studiosi che hanno dedicato i loro sforzi all’osservazione ed all’analisi del gruppo, fornendoci anche categorizzazioni che ne favoriscono la comprensione, il quadro non è più così confuso come in passato. Ricordiamo che le azioni violente sono portate avanti solo da una minoranza; inoltre ciò è dovuto anche a tutto un insieme di fattori ed influenze che non sempre corrispondono al credo religioso. Perciò, in conclusione, identificare i salafiti con il termine terrorismo non è solo riduttivo dell’intero fenomeno a pochi individui, ma anche errato.

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Atena Daemi per i Diritti Umani in Iran

Atena Daemi sognava la fine della pena di morte nel suo paese, L’Iran, e auspicava a un rispetto maggiore dei diritti umani. Per questa ragione è stata incarcerata, picchiata e detenuta in isolamento. Oggi racconteremo la storia di questa donna coraggiosa e vedremo insieme la situazione dei diritti umani in Iran. I Diritti Umani in Iran Atena Daemi è stata incarcerata per la sua lotta a favore dei diritti umani che in Iran, suo paese natale, spesso non vengono rispettati. Secondo il più recente rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani, il paese soffre di gravi discriminazioni di genere, una percentuale troppo elevata di detenzioni arbitrarie e problematiche relative all’applicazione della pena di morte. Vediamo nello specifico quali sono i problemi. Per quanto riguarda la pena di morte e le detenzioni arbitrarie, nel paese sono state registrati numeri elevati di esecuzioni anche per crimini che non rientrano nelle categorie più gravi. Per categorie gravi la Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite intende solo quelli riguardanti omicidi intenzionali. Le esecuzioni sono state spesso il seguito di processi tenutisi in modo iniquo e con l’uso della tortura al fine di estrarre una confessione fittizia: in particolare per circostanze con connessioni alle proteste antigovernative che hanno avuto luogo nel paese negli ultimi anni. Il caso più emblematico è quello di Navid Afkari che è stato segretamente giustiziato dopo aver partecipato nell’agosto 2008 a delle proteste nella città di Shiraz. Il relatore speciale delle Nazioni Unite inviato in Iran, si è detto preoccupato dal fatto che queste esecuzioni sembrano celare una volontà, da parte del governo, di reprimere il dissenso nel paese. Il rapporto dell’ONU sottolinea l’elevato numero di esecuzioni ai danni di minorenni: tra il 1° gennaio e il 1° dicembre 2020 sono stati giustiziati 3 minorenni e più di 85 si trovano nel braccio della morte. In Iran il Codice penale prevede la pena di morte per le ragazze con più di 9 anni di età e per i ragazzi con più di 15 anni di età in caso di crimini quali l’omicidio e l’adulterio. I diritti delle donne sono fortemente ostacolati non solo dalla legge ma anche dalle abitudini e dalle convenzioni sociali. Nonostante i diritti delle donne siano codificati negli articoli 20 e 21 della costituzione, vi è discriminazione sui diritti di matrimonio, divorzio e custodia parentale. Una donna iraniana non può sposarsi senza il permesso del padre o del nonno paterno se il matrimonio in questione è il primo. È illegale il matrimonio tra una donna musulmana e un uomo non musulmano e il matrimonio con un uomo di nazionalità non-iraniana deve ricevere il consenso del governo. Le ragazze possono sposarsi legalmente fin dai 13 anni ma ci sono stati casi di bambine sposate anche in età più giovane con il consenso paterno e del giudice. Le donne sposate rimangono sotto l’autorità del marito che può proibire loro di lavorare, di avere un passaporto o di recarsi all’estero. Per quanto riguarda il divorzio, il marito ha diritto assoluto a richiedere il divorzio mentre la moglie può richiederlo sono in specifici casi. Infine, la libertà di pensiero e di manifestazione è limitata nel paese. I difensori dei diritti umani e i loro avvocati vengono quotidianamente vessati. Tra i casi più famosi quello di Golrokh Iraee Ebrahimi e della stessa Atena Daemi. Arrestate entrambe per aver condannato le esecuzioni arbitrarie dei prigionieri politici e per aver cantato una canzone commemorativa, Iraee fu rilasciata nell’aprile 2019 mentre Daemi resta in carcere. Oltre agli arresti vi è anche un dilagante fenomeno di intimidazione dei famigliari degli arrestati. L’uso eccessivo della forza e le interruzioni delle telecomunicazioni durante le manifestazioni è prassi comune. Il relatore speciale ONU riporta uno shutdown di internet senza precedenti, richiesto dal governo durante le manifestazioni del novembre 2019. In generale il governo continua a censurare i siti internet e le piattaforme di social media. Telegram, Twitter, Facebook e YouTube sono state bloccate in modo permanente e risultano attualmente inaccessibili. La storia di Atena Daemi Atena Daemi si è battuta con coraggio contro le sopramenzionate infrazioni dei diritti umani, e soprattutto contro la pena di morte, le detenzioni arbitrari e per i diritti delle donne e dei bambini. Fu arrestata il 21 ottobre 2014 e dopo 86 giorni di interrogatori fu condannata a 14 anni di reclusione per i reati di: “propaganda contro il sistema”, “adunata sediziosa e collusione contro la sicurezza nazionale”, “blasfemia e offesa al Capo Supremo” e “occultamento di prove”. Durante il processo furono usate come prove i suoi post su Facebook in cui si batteva contro la pena di morte. Il 28 settembre 2016, dopo essere stata rilasciata su cauzione, vede la sua pena ridotta a 7 anni. Viene nuovamente arrestata il 28 novembre 2016 e dopo aver presentato una denuncia contro il “Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica” (IRGC) per uso eccessivo della forza, viene processata il 19 dicembre 2016 con le accuse di: “insulto contro il leader supremo e gli ufficiali di stato”,” “propaganda contro il sistema” e “resistenza all’arresto”. Viene condannata e le vengono aggiunti 3 mesi e un giorno alla sua pena di 7 anni. Alla medesima pena vengono condannate anche le sue sorelle, Ensieh e Hanieh, che vengono però assolte 54 giorni dopo. Il 21 dicembre 2019 Daemi e altri carcerati organizzano un sit-in come protesta contro le repressioni e la risposta dello stato contro le manifestazioni del novembre 2019. In seguito a questo evento fu trasferita in isolamento il 28 dicembre 2019 e vi rimase fino al 8 gennaio 2020. Inoltre, fu condannata a 2 ulteriori anni di prigione e 74 frustrate. Oltre alla solita accusa di “propaganda contro il sistema” fu accusata di “interruzione dell’ordine carcerario” per aver ballato e festeggiato durante la festa di Ashoora. Daemi si è rifiutata di andare al processo dichiarando che tali accuse sono infondate e basate su bugie. Le condizioni di salute di Atena Daemi durante la sua permanenza in carcere sono peggiorate notevolmente. Dopo lo sciopero della fame

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Diritti LGBTQ+ in Egitto: niente di buono all’ombra delle piramidi

Le persone LGBTQ+ egiziane vivono una condizione estremamente drammatica: lasciate sole a fronteggiare le istituzioni, immerse in un contesto conservatore che le lascia ai margini della società. Negli ultimi anni, inoltre, quella che era una generale tendenza da parte dello Stato alla discriminazione, laddove possibile (non esistendo, in Egitto, una legge che punisca il “reato di omosessualità” o leggi affini), si è trasformato in un vero e proprio atteggiamento persecutorio attraverso norme emanate appositamente per colpire le minoranze sessuali. Senza il riconoscimento delle unioni per persone dello stesso sesso, senza una disciplina per l’omogenitorialità, senza tutele e politiche in favore delle persone transgender e delle altre minoranze sessuali, l’Egitto è ora più che mai un Paese profondamente avverso alla comunità LGBTQ+. Quadro Legislativo e Impatto nella Società Civile Come è stato già detto, il Codice Penale egiziano non accoglie al suo interno uno specifico divieto per le relazioni omosessuali o il travestitismo. Fino al 2000, le azioni contro le persone queer egiziane sono state portate avanti impugnando la legge n. 10 del 1961, la “legge sulla depravazione”, che prevede “pene fino a 17 anni di carcere per la pratica abituale della depravazione”. È tuttavia col nuovo millennio che lo Stato egiziano inaugura una serie di meccanismi legali basati su giurisprudenza e interpretazioni delle norme attraverso i quali sferrare colpi alla comunità LGBTQ+. Si afferma, infatti, la pratica della raccolta di prove online, ampiamente messa in atto dalle autorità del Paese. In pratica una divisione speciale del Ministero dell’Interno, la Direzione per la Protezione della Morale Pubblica, crea apposite trappole online su app o siti d’incontri per avere in seguito il pretesto per perseguire penalmente chiunque vi cada dentro. È in quegli anni di rinnovata intolleranza verso le minoranze sessuali che si sviluppa il caso dei Cairo 52: 52 uomini arrestati nel maggio del 2001 a bordo del nightclub galleggiante Queen Boat, ancorato sul Nilo al Cairo. Gli uomini, dichiaratisi tutti innocenti, si trovarono loro malgrado al centro dell’attenzione mediatica nazionale –  con giornali e riviste che pubblicarono i loro nomi e gli indirizzi di casa – e internazionale – con diverse ONG, membri del Congresso statunitense e le Nazioni Unite che denunciarono la scorrettezza dei procedimenti messi in atto. Quegli uomini, infatti, furono costretti a subire percosse ed esami fisici atti a “dimostrare la loro omosessualità”, rimanere per ore in piedi in celle anguste senza letti ed altre privazioni dei diritti umani. Il processo, conclusosi nel marzo 2003, portò alla condanna a 3 anni di prigione per 21 di loro, mentre i restanti vennero rilasciati. Questo forte atteggiamento discriminatorio da parte delle Istituzioni ha subito un ulteriore slancio con la presidenza di Al-Sisi, iniziata nel 2014. Secondo quanto riportato dall’Egyptian Initiative for Personal Rights, che è fra le poche realtà in Egitto a riconoscere i diritti LGBTQ+, fra il 2000 e il 2013 gli arresti legati all’omosessualità sarebbero 14. Dal 2013 al 2017 la media annuale sale a 66 arresti, con picchi di 75 nel 2017 e 92 nel 2019. Da marzo 2020, la situazione delle persone LGBTQ+ egiziane è ulteriormente peggiorata. Da questo momento in poi, i casi riguardanti le minoranze sessuali sono stati ricondotti alle violazioni della legge sulla criminalità informatica, con un consequenziale inasprimento delle multe e delle pene. Questa disciplina, infatti, dal 2019 è di competenza dei tribunali economici e si trova all’interno di un ambito in cui le definizioni sono molto vaghe, ambigue, aperte a più interpretazioni, la maggior parte delle quali usate a sfavore della comunità LGBTQ+. Se prima le condanne per depravazione si risolvevano in multe da 300-400 lire egiziane o reclusioni dai 3 ai 6 mesi, le nuove norme prevedono sanzioni fino a 100 mila lire egiziane e pene detentive di due anni minimo, come spiega Afsaneh Rigot, ricercatrice ed esperta in dati digitali e comunità LGBTQ+, che aggiunge: “Il quadro repressivo sempre più sofisticato e creativo che l’Egitto usa per criminalizzare la comunità LGBTQ+ minaccia non soltanto gli egiziani, ma anche tutte le persone LGBTQ+”. Percezione e Status Sociale Un quadro legislativo repressivo come quello appena descritto non può far ben sperare sul trattamento che le persone LGBTQ+ ricevono in Egitto e infatti le minoranze sessuali egiziane sono estremamente marginalizzate all’interno della società. Questa avversione della popolazione egiziana, abbracciata in toto dalle istituzioni statali, affonda le sue radici nel conservatorismo di matrice religiosa islamica e cristiana (le due confessioni principali del paese). Il pretesto principale che viene invocato a giustificazione della persecuzione in atto verso la comunità LGBTQ+ è infatti quasi sempre la preservazione degli usi e della morale del Paese che sono sempre il riflesso dei costumi religiosi imposti dall’Islam e dal Cristianesimo. Non è sempre stato così però. L’Egitto è stato la casa di una delle più grandi e avanzate civiltà del mondo antico che ha lasciato alle sue spalle maestose tracce del suo passaggio a perenne monito dell’ingegno e della creatività umana. Fra queste ritroviamo, purtroppo, poche testimonianze di come venisse vissuta l’omosessualità presso gli antichi egizi ma quello che ci è arrivato ci permette di fare alcune speculazioni: il ritrovamento di un cumulo tombale dedicato a quelli che sembrano in tutto e per tutto due amanti uomini, la presenza di personaggi e comportamenti omosessuali nella mitologia con le divinità Seth e Horus più altre testimonianze storiche più o meno affidabili sulle tendenze sessuali di alcuni faraoni (Pepi II nello specifico) sono tutti fattori che ci portano a dedurre che l’omosessualità di per sé non fosse condannata e fosse anche vissuta senza particolari preoccupazioni. Una condanna, al massimo, era riservata al partner passivo all’interno della relazione sessuale per aver “rinunciato” alle sue prerogative maschili ed essersi così “abbassato” al livello femminile, un atteggiamento che fa capo a una visione delle relazioni interpersonali più maschilista e patriarcale che esplicitamente omofoba. Al di là della sua origine, l’odio omofobico e transfobico è notevolmente presente nella società egiziana, perfettamente integrato fra i meccanismi che ne regolano il funzionamento. Se abbiamo già visto, da un lato, l’atteggiamento delle istituzioni, dall’altro troviamo i media egiziani che, in accordo con la linea seguita dal governo,

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Il progetto GAP. L’acqua, strumento di sviluppo o di forza?

L’acqua è indispensabile per la sopravvivenza e per lo sviluppo dell’essere umano. Sebbene la maggior parte della superficie del pianeta sia ricoperta da acque, solo l’1% di queste è fruibile all’uomo. Questa piccola percentuale basterebbe a soddisfare il fabbisogno mondiale se non fosse per la sua diseguale distribuzione. La cattiva gestione della risorsa, unita ad un insieme di altre variabili, sta portando ad una serie di problemi ambientali (carestie, siccità, desertificazioni, innalzamento delle temperature) e non, con ripercussioni sulle migrazioni e sul sottosviluppo.  Molte delle fonti d’acqua disponibili al mondo sono condivise tra vari paesi e questo conduce molto spesso all’esacerbarsi di tensioni ed a scontri diplomatico-politici. A tutto ciò si aggiunge anche il vertiginoso aumento del consumo di acqua dovuto alla crescita della popolazione mondiale ed al conseguente maggiore utilizzo in settori come quello domestico, agricolo, industriale ed energetico.  Secondo il report FAO The State of Food and Agriculture 2020, la quantità annuale di risorse di acqua dolce disponibili pro-capite è diminuita di oltre il 20% negli ultimi due decenni, fino ad arrivare anche al 30% in alcune aree. Le risorse idriche sono sempre più sotto pressione in tutto il mondo e la necessità di una gestione sostenibile che ne assicuri la disponibilità alle generazioni future non è mai stata così impellente. L’acqua sembrerebbe perciò destinata a divenire secondo molti un motivo di conflitto più importante del petrolio. Le guerre e le ripercussioni legate all’oro nero non sono nuove – il mondo è stato più volte scosso da motivazioni connesse allo sfruttamento di detta risorsa energetica – ma i conflitti legati alla gestione di risorse d’acqua, per quanto potrebbero essere percepiti come ancora lontani, sono più attuali che mai. L’acqua, oltre ad essere fondamentale per la sopravvivenza ed il benessere dell’essere umano, è anche funzionale allo sviluppo socioeconomico degli Stati ed è per questo che l’accesso alle risorse idriche è divenuto fondamentale. Ed è soprattutto in un’area come quella del Medio Oriente – dove la disponibilità e l’accesso a fonti di acqua è limitata – che il controllo delle risorse idriche sta divenendo un’arma geopolitica molto importante sullo scacchiere delle potenze, come il caso del Tigri e dell’Eufrate ci dimostra. Il Tigri, l’Eufrate e il progetto GAP La Mesopotamia ha favorito per millenni lo sviluppo di civiltà grazie alla fertilità donata dall’inondazione dei fiumi Tigri ed Eufrate e dalle opere di irrigazione create dall’uomo. Entrambi i fiumi si originano nei territori dell’attuale Turchia, proseguono in Siria per poi congiungersi in Iraq e sfociare nel Golfo Persico. Essi costituiscono un’importante risorsa d’acqua per tutti i paesi rivieraschi che attraversano: di fatto, molti grandi interventi sono stati realizzati per il loro utilizzo strategico, soprattutto negli ultimi anni.  In questo quadro si inserisce l’enorme progetto turco nel sud-est dell’Anatolia, il GAP (Güneydoğu Anadolu Projesi). Questo progetto prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche per la riqualificazione di un territorio caratterizzato da: rigide condizioni territoriali e climatiche, risorse idriche mal distribuite, terre aride, insufficienti servizi sociali, bassi livelli di reddito pro capite e modelli di migrazione “inusuali”.  La Turchia negli ultimi decenni è stata interessata da un forte sviluppo economico e sociale che ha generato un incremento del benessere della sua popolazione e, conseguentemente, del fabbisogno di energia.  È sorto così il progetto del GAP che, da un lato, doveva rispondere alla rapida crescita economica e demografica dell’intero paese e, dall’altro, doveva migliorare gli standard socioeconomici della regione interessata dalla sua presenza, attraverso la riduzione delle disparità e delle disuguaglianze con le altre regioni della Turchia.  Il GAP, quindi, potrebbe portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e del benessere dell’area e ad una maggiore efficienza in termini di produzione energetica prodotta a basso costo ed a basse emissioni. A tutti questi benefici per il territorio e per la popolazione turca, tuttavia, si aggiunge una serie di risvolti sociali, politici, ambientali e culturali negativi. Il GAP come motivo di tensione tra Stati Lo sfruttamento dei due fiumi ha portato negli anni ad una serie di problematiche politiche e diplomatiche tra la Turchia e gli altri due paesi rivieraschi, Siria ed Iraq.  Fino agli anni ’60, le relazioni tra i paesi non erano influenzate da tensioni legate all’utilizzo delle acque, poiché le dimensioni dei progetti sviluppati sui due fiumi erano contenute e non prevedevano un utilizzo intensivo della risorsa idrica. Le tensioni si inasprirono quando iniziarono i primi passi concreti verso la realizzazione di vari progetti idroelettrici in tutti e tre i paesi, come la costruzione della diga di Keban in Turchia, la diga di Tabqa in Siria – che con il riempimento del bacino del lago di Assad ha scatenato la collera dell’Iraq – ed il lancio ufficiale del GAP negli anni ’70, che vide l’inaugurazione della prima diga, Karakaya, alla fine degli anni ’80. Venne, dunque, creato un Comitato Tecnico Congiunto (JTC) per cercare di raggiungere un accordo per uno sfruttamento bilanciato di entrambi i fiumi tra i tre paesi. Inizialmente, al Comitato parteciparono solo Turchia e Iraq. La Siria si aggiunse solo in seguito, ma il lavoro del JTC non portò mai ad un risultato concreto.  Il primo accordo si ottenne solo a livello bilaterale nel 1987 tra Turchia e Siria, stabilendo un rilascio medio annuo di 16 miliardi di metri cubi di acqua alla Siria con una portata minima annua media di 500 m3/s. A questo seguirono una serie di altri accordi, tra i quali quello del 1990 tra Siria e Iraq nel quale i due paesi concordarono di ricevere rispettivamente il 42% e il 58% del flusso dell’Eufrate al confine turco-siriano. Il completamento della diga di Atatürk nel 1990, fiore all’occhiello dell’intero progetto GAP nonché una delle dighe più grandi al mondo, fece riemergere diverse tensioni tra i paesi. La Turchia, infatti, per riempire il bacino della diga deviò l’Eufrate per circa un mese, causando una notevole riduzione della quantità ed il peggioramento della qualità dell’acqua diretta verso la Siria e l’Iraq. A seguito dell’episodio, vennero inviate invano note minacciose alla Turchia per richiedere lo stop alla costruzione di altre dighe previste sul corso dei due fiumi, come quelle

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04-Diritti-Donne-Yemen-Large-Movements

I diritti delle donne nello Yemen in guerra

Prima dello scoppio della guerra in Yemen, le donne hanno dovuto affrontare gravi discriminazioni nei diritti, nella legge e nella pratica. Il conflitto ha aggravato la situazione aggravando la discriminazione e la violenza contro donne e ragazze yemenite.  Gli effetti della guerra sulla popolazione e i diritti delle donne in Yemen Il conflitto ha ridotto allo stremo e alla fame la popolazione. Le famiglie Yemenite hanno utilizzato le spose bambina come merce di scambio per poter ripianare i debiti e procurarsi cibo. La pratica dei matrimoni precoci rappresenta una grave violazione dei diritti dell’infanzia e delle donne. L’OXFAM riporta una situazione di crescente penuria di cibo che ha lasciato più di un milione di donne incinte che allattano in stato di malnutrizione. Anche con l’assistenza umanitaria, le donne mangiano per ultime, dando priorità ai bambini e ad altri membri della famiglia, o utilizzano il denaro per altre esigenze domestiche. La guerra in Yemen ha causato molti spostamenti di popolazione che hanno avuto l’effetto di creare insicurezza personale, instabilità familiare e mancanza di garanzia dei diritti per le donne. Le donne e le ragazze dello Yemen sono le più vulnerabili e le più esposte ai rischi e alle violenze di genere che avvengono sia all’interno che all’esterno dei campi per gli sfollati. Un’indagine sulla protezione degli sfollati interni e delle comunità ospitanti è stata effettuata nel Novembre del 2018 dalla Wajood Foundation for Human Security. L’indagine ha scoperto che le donne hanno sperimentato i livelli più alti di tutte le forme di violenza: psicologica, fisica e sessuale. A queste si aggiunge l’aumento delle detenzioni arbitrarie. Una volta detenuti, sia donne che uomini, hanno subito violenze sessuali. La situazione si complica poiché le vittime di violenza nello Yemen sono altamente stigmatizzate causando uno scarso numero di denunce. Tutto ciò rende difficile garantire i diritti delle donne dello Yemen. Secondo le Nazioni Unite la violenza contro le donne è aumentata del 63% dall’inizio del conflitto. La violenza da parte delle istituzioni Secondo il “Report of the Group of Eminent International and Regional Experts as submitted to the United Nations High Commissioner for Human Rights” nel 2018 e nel 2019 sono proliferate nuove norme di genere oppressive e le donne yemenite sono ulteriormente emarginate sotto il controllo e la coercizione delle parti in conflitto. Il sostegno limitato contro le violenze di genere sono peggiorate a causa del crollo del sistema di giustizia penale nel 2019. La discriminazione femminile veniva in ogni caso perpetuata dagli attori che dovevano applicare la legge, risultando una minaccia diretta e non una tutela per le donne dello Yemen. Le parti coinvolte nel conflitto, inoltre, hanno spesso accusato le donne yemenite di prostituzione, promiscuità e immoralità. Ciò ha aumentato i rischi di violenza domestica e dissuaso donne e ragazze ad uscire di casa, inibendo la loro partecipazione alla sfera economica e politica. Le violenze da parte delle forze di sicurezza degli Emirati Arabi Uniti e delle milizie Houthi Oltre alle accuse pubbliche, le forze coinvolte nel conflitto si sono macchiate direttamente di violenza sulle donne nello Yemen. I membri delle forze di sicurezza sostenute dagli Emirati Arabi Uniti hanno continuato a commettere violenze sessuali: i membri della 35esima Brigata corazzata hanno violentato e aggredito sessualmente donne e uomini, portando avanti un modello più ampio di violenza sessuale che prendeva di mira le persone vulnerabili provenienti da comunità migranti, rifugiati e muhamasheen (conosciuti anche come “afro-yemeniti”). Dal 2017 al 2019 i membri della Brigata hanno rapito gli individui e li hanno sottoposti a stupro, compreso stupro di gruppo e altre forme di violenza sessuale, anche come mezzo per umiliare e soggiogare i membri di queste comunità. Anche le milizie Houthi nel 2018 e nel 2019 hanno rapito e detenuto donne e ragazze per periodi lunghi, fino agli 8 mesi, per ricattare i parenti. Spesso queste donne vengono accusate di muoversi senza un tutore maschio. Il rapimento pone le donne e le ragazze a rischio di violenza sessuale, attirando lo stigma e ponendole ad ulteriori rischi. Tutto questo compromette i diritti delle donne nel paese e la loro sicurezza. Questi sono solo alcuni dei diritti umani violati dalle parti in conflitto. L’importanza delle donne Yemenite Vivere sotto il conflitto, per anni, è difficile. Per le donne yemenite è ancora più difficile. Le donne sopportano il peso della guerra e stanno guidando gli sforzi per aumentare la resistenza delle proprie comunità. Lo Yemen ha aderito alla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW) per tutelare i diritti delle donne e garantire le libertà politiche ed economiche. Occorre evidenziare che le donne yemenite sono di fondamentale importanza per il Peacebuilding a livello locale. Oltre alla situazione generale della guerra in Yemen, sul territorio si sono sviluppati una serie di conflitti locali per l’acqua e la terra. Spesso le donne si fanno carico della risoluzione di questi conflitti facendo da mediatrici tra le tribù e per trattare il rilascio di eventuali detenuti. Anche se le norme dello Yemen sono altamente conservatrici, rilevando criticità per quanto riguarda i diritti delle donne, queste sono importanti per le comunità rurali e la creazione della pace. La complessità del conflitto, però, non permette la partecipazione delle donne alle sedute formali dei processi di pace. Ciò esclude importanti risorse e voci che potrebbero contribuire a una maggiore pace sostenibile creata da giovani e, soprattutto,  da giovani donne della società civile. Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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Siria-accoglienza

Storia di un giovane siriano con un “cuore di pietra”

Le coste calabre continuano ad essere tra i maggiori punti di arrivo di immigrazione, motivo per cui negli ultimi anni il territorio accoglie nuove strutture per i richiedenti asilo. Tra questi, la cooperativa Jungi Mundu di Camini, dal 2000, è diventato uno SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Lo scorso agosto mi trovavo a Camini, comune di poco più di 600abitanti in provincia di Reggio Calabria, a pochi km dall’ormai nota Riace. Qui, Amnesty International già da qualche anno, organizza dei laboratori di formazione estivi per approfondire le tematiche di immigrazione e diritti di accoglienza. Appena scesa dal regionale, dopo 7 ore di viaggio e qualche grado in più intorno a me, ho subito capito che Camini non poteva che essere il luogo migliore dove parlare di immigrazione ed accoglienza. Una terra apparentemente abbandonata a sé stessa, dove l’edilizia moderna e la frenesia quotidiana sembrano appartenere ad un’altra dimensione. Una piazza. Un bar con qualche tavolino in legno, dei divanetti ed uno schermo con le partite di calcio del giorno. Cittadini dalla pelle bianca, cittadini dalla pelle nera. Anziani, giovani e bambini. Questo è lo scenario che mi trovavo davanti. Uno scenario che sembrava apparentemente normale. Eppure, nell’aria c’era qualcosa di speciale. La prima sera già mi era tutto più chiaro. Quella piazza, quel bar e quei cittadini facevano parte di un’enorme famiglia, in una piazza che riuniva più storie di vita, una diversa dall’altra. Una famiglia in cui i richiedenti asilo, per lo più provenienti dalla Siria, ed i caminesi erano entrati in perfetta armonia. Un’armonia fatta di impegno quotidiano, sacrifici e voglia di ricominciare dopo un vero e proprio viaggio della speranza, con alle spalle una vita di guerra ed ingiustizia. A “campo di accoglienza” spesso si associa l’immagine di un grande campo sperduto nel nulla con qualche baracca e sistemazione fatiscente. Di situazioni così purtroppo ne esistono ancora troppe ma questa volta vi voglio parlare di un’Italia che accoglie ed è sinonimo di rinascita e speranza per coloro che vi arrivano. Camini infatti è una vera eccezione e l’Italia è colma di borghi che hanno fatto dell’accoglienza la loro forza, dando ai rifugiati una “nuova” vita e dove loro stessi hanno ridato vita a delle realtà in cui l’unica cosa a regnare era diventata la desolazione. Erano circa le 9 di mattina quando M. decise di accompagnare me e le altre ragazze del gruppo a riempire le nostre borracce alla piccola sorgente di Camini. M. in mezzo a noi, seppure più piccolo di quasi 10 anni, sembrava già un uomo, pronto a farci scoprire la sua realtà, raccontandoci con cura la storia del paesaggio che ci circondava. Ritornando verso la piazza, ci ritrovammo lui ed io da soli. La voglia di condividere la sua storia e la sua “non infanzia” come lui stesso l’ha chiamata, trapelava da ogni poro della sua pelle. “Non smettere mai di inseguire i tuoi sogni”, mi dice M. Sono state queste parole, accompagnate da uno sguardo che non potrò mai più scordare, che mi hanno spinto a dare voce ad una storia fatta di guerra, dolore, odio ma che M. è riuscito a trasformare in una storia di vita, speranza e determinazione. M. viene dalla Siria, terra da sempre contesa fra i paesi limitrofi, e non solo. Terra la cui ricchezza delle materie prime è diventata responsabile di migliaia di vite che, in cerca di un futuro dignitoso, si imbattono in viaggi la cui destinazione e la certezza di arrivarvi sono in mano ad un destino…ancora troppo clandestino. M. arriva a Camini a giugno di 4 anni fa, quando aveva appena 9 anni, con la sua famiglia: cinque fratelli ed una sorellina che però non ce l’ha fatta di fronte ai raggi x di un’ecografia. Ora frequenta la II media, a Riace Marina, e descrive la scuola come un luogo in cui molti studenti prendono in giro i ragazzi stranieri. “Io ho tantissima forza ma non voglio usarla” inizia M. Era abituato in Siria dove tutti giravano armati e che anche per un minimo scherzo ci si poteva “rimettere la pelle”. A Camini ha trovato nuovi amici ma la sua esperienza lo ha fatto crescere con una rapidità tale che non si trova a suo agio con i bambini della sua età. Pur di non pensare e rivivere i fantasmi che sono in lui, esce comunque con i suoi coetanei per svagarsi un po’. M. poco prima dell’estate ha conosciuto un ragazzo più grande, di 25 anni e con lui riesce a parlare di “cose da adulti”. “Lui mi ha insegnato che non devo avere paura”. “Com’era vivere in Siria? Ci pensi spesso?” “Come potrei non ripensarci, ho visto tante di quelle cose che nessun bambino si può immaginare e non auguro a nessuno di vivere ciò che ho vissuto io”. Si ricorda tutto M. Mi racconta ad esempio quella volta che era uscito con il papà, aveva forse 4 anni ma aveva già una forza innaturale. C’era la guerra fuori e M. si ricorda la grotta in cui si erano nascosti. L’unica arma che possedevano erano il coraggio e la forza di sopravvivere. Il papà aveva studiato le tattiche ed i tempi di reazione delle varie armi da fuoco e quindi anche quella voltai due si erano riusciti a salvare, nonostante la loro testa fosse al centro di un mirino. La guerra persisteva, giorno e notte, anche nei momenti più inaspettati. M. si è visto più volte i proiettili sfiorargli il corpo. Un giorno ad esempio stava aggiustando l’antenna con il papà, la cui maglietta si ruppe proprio per un proiettile che gli era caduto a fianco, o quando il fratello stava pranzando fuori dal balcone di casa e si è visto cadere una bomba di fronte. M. si definisce forte, anche solo rispetto ad i suoi fratelli. Uno ha sofferto di crisi per tanto tempo, perché “certe immagini oltre a bombardarti dal vivo ti bombardano anche la testa”. Ammette che ha ancora bisogno della famiglia ma

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Donna, vita, libertà: la lotta delle donne iraniane è la lotta di tutte

Risale allo scorso 16 settembre l’omicidio di Mahsa Amini, 22 anni, a causa delle percosse subite dopo un fermo da parte della Polizia Morale iraniana (in inglese Islamic Guidance Patrol). La ragazza curda, a Teheran come turista con la famiglia, era stata fermata il 13 settembre perché, a detta degli agenti, non indossava correttamente il velo. È morta tre giorni dopo. Da allora, l’Iran è scosso da proteste guidate dalla società civile, e centinaia sono state le manifestazioni attraverso il globo e le dimostrazioni di sostegno della comunità internazionale alla popolazione e alle donne iraniane. Large Movements è stata a quella di Roma, il 1° ottobre, e le foto qui riportate dimostrano la rabbia e forza che hanno guidato la marcia attraverso la capitale. A quasi due mesi dalla morte di Mahsa, la popolazione iraniana è ancora in tumulto e la repressione delle proteste non accenna ad arrestarsi. È complesso ritracciare l’ordine degli eventi accaduti nelle scorse settimane. Varie notizie sconcertanti si susseguite, tra cui la temporanea scomparsa dell’atleta Elnaz Rekabi, apparsa a Seoul senza hijab durante una gara di arrampicata – a quanto pare, per errore – e rivista a Teheran qualche giorno dopo aver interrotto ogni contatto con famiglia e amici. Questo articolo offre un riassunto della vicenda per ribadirne la rilevanza, che oltrepassa il momentum e i confini geografici, ed esprime il pieno sostenimento di Large Movements alle donne iraniane nella loro (e nostra) lotta per l’auto-determinazione. Breve storia del velo in Iran In linea con i principi della sharia già presenti in altri paesi, il governo iraniano ha reso l’hijab obbligatorio dopo la Rivoluzione Islamica del 1979. Dopo una prima fase di dichiarazioni dell’Ayatollah Khomeini ma nessuna misura a formalizzare l’imposizione, il Parlamento iraniano istituzionalizzò le raccomandazioni con un decreto emesso nel 1983. Così come altre Repubbliche Islamiche, l’Iran basa la propria posizione sul velo sui testi sacri musulmani, tra cui il Corano e gli Hadith, nonostante sia oggetto di dibattito se queste scritture prescrivano realmente, e se sì quale, un codice di abbigliamento per le donne. Questo tipo di editto, insieme a tutti gli altri che prescrivono un comportamento “appropriato” secondo la legge islamica, viene fatto applicare dalla cosiddetta “polizia morale” Gasht-e Ershad. Il corpo di polizia è nato nel 2005 formalizzando le strutture paramilitari religiose concepite in principio per combattere nella guerra in Iran. Ad oggi, gli agenti della polizia morale pattugliano le strade e solitamente rilasciano ammonizioni verbali in presenza di irregolarità – di fronte a un velo che non copre tutti i capelli, trucco troppo vistoso o gonne troppo corte. Proprio il 15 agosto scorso, il presidente iraniano Ebrahim Raisi aveva imposto nuove sanzioni più stringenti e dure punizioni per le donne che non rispettano il codice di condotta islamico, di fatto allargando ulteriormente i poteri della polizia morale. Tuttavia, spesso le donne fermate vengono prese in custodia e detenute, per poi in seguito essere inviate in “centri di ri-educazione”, dove seguono ore di lezioni sulla morale islamica. Il rilascio avviene poi in presenza di un parente stretto di sesso maschile, dopo aver firmato una dichiarazione secondo la quale, in futuro, l’offesa non sarà ripetuta. Mahsa Amini: l’ultima goccia per la società civile iraniana Apparentemente, questo è quello che sarebbe dovuto succedere anche a Mahsa: un centro di “correzione”, e poi il rilascio. Eppure non sono rare le denunce di abuso da parte degli agenti in seguito al fermo, di cui Mahsa è stata un vittima. Il 13 settembre, Mahsa Amini viene sequestrata per “uso improprio del velo”. È costretta ad entrare in un furgone della polizia morale dove viene percossa dagli agenti stessi, secondo alcuni testimoni oculari. Qualche ora dopo, alla sua famiglia viene comunicato che Mahsa è stata trasportata in ospedale in seguito ad un attacco cardiaco. Dopo tre giorni in coma, la ragazza di 22 anni è deceduta. La famiglia si è opposta da subito alla versione ufficiale della vicenda, spiegando che Mahsa non aveva alcun problema di salute che potesse spiegare un attacco di cuore improvviso. Il suo decesso ha fatto da scintilla accanto a una miccia, portando la società civile già stremata da un regime oppressivo in cui spesso attiviste subiscono ripercussioni per il proprio ruolo critico nei confronti di esso, a irrompervi contro, scatenando proteste che si sono sparse per tutto il Paese. A questo si è aggiunta l’arresto della giornalista Niloofar Hamedi dopo aver postato una foto dei genitori di Mahsa abbracciati in ospedale, dopo aver appreso del decesso della figlia. Le proteste hanno invaso le strade di Teheran e del resto del Paese qualche giorno dopo, specialmente nel Kurdistan iraniano, regione da cui proveniva Mahsa. Tantissime donne hanno manifestato il proprio dissenso togliendosi il velo o bruciandolo. Uno dei gesti più profondi e simbolici di queste proteste è stato il pubblico taglio di capelli da parte delle partecipanti, in ricordo di Mahsa e contro la Guida Suprema del Paese, Ali Khamenei. La risposta del governo iraniano è stata di reprimere violentemente i manifestanti: l’ONG Iran Human Rights, che ha seguito l’andamento degli scontri tra civili e forze dell’ordine, riporta che almeno 326 persone, di cui 43 minori, sono state uccise durante le insurrezioni. Due entità che hanno partecipato alle proteste sono particolarmente rilevanti: i corpi studenteschi, sia universitari che liceali, e il movimento delle donne del Kurdistan (KJK), mostrando l’intersezione indissolubile tra movimenti femministi, educazione e nuove generazioni come parti fondamentali e imprescindibili del cambiamento sociale contemporaneo. Al grido di Jin Jiyan Azadi, “Donna, Vita, Libertà” in kurmanci, un dialetto curdo, studenti, studentesse e donne curde hanno marciato per le strade del Paese abnegando assieme la violenta oppressione dei corpi e della libertà da parte del regime islamista iraniano. Nelle università, sono state compiute azioni indipendenti per eliminare il divario di genere tra gli studenti, ed è tutt’ora chiesta a gran voce la liberazione delle ragazze e dei ragazzi arrestati durante le contestazioni. Tra le loro file, si contano perdite drammatiche: ricordiamo tra queste Nika Shakarami, 17 anni, scomparsa dopo delle manifestazioni e

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