MELUSI SIMELANE: IL CIELO DI ESWATINI SI RIEMPE DI ARCOBALENI

Melusi Simelane è un’attivista per i diritti LGBTQIA+ di Eswatini, Paese dell’Africa meridionale conosciuto fino al 2018 come Swaziland e governato dall’unica monarchia assoluta del continente. Nel 2018 Melusi ha organizzato il primo Pride del Paese e successivamente ha fondato la Eswatini Sexual and Gender Minorities (ESGM), organizzazione che ha l’obiettivo di promuovere i diritti delle persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+.

LA LOTTA PER L’ACCETTAZIONE

L’Eswatini è una delle 32 nazioni africane che considerano ancora l’omosessualità un crimine, a causa della persistenza nell’ordinamento giuridico del Paese di una legge omofoba introdotta durante la colonizzazione britannica.

Nonostante non ci siano prove che dette norme siano mai state applicate, il testo rimane in vigore perché la Costituzione di Eswatini prevede che qualsiasi disposizione legislativa adottata prima dell’indipendenza del 1968 deve continuare ad essere applicata.

Proprio perché l’omofobia è ben radicata nella società sin dall’inizio della colonizzazione del Paese, il contrasto alla sua diffusione e la battaglia per una società più inclusiva sono molto complessi. Come se non bastasse poi, anche la Chiesa e le più alte cariche dello Stato hanno fatto propri i sentimenti di odio nei confronti della comunità LGBTQIA+. Il Re Mswati III infatti, ha pubblicamente dichiarato che le relazioni tra persone dello stesso sesso hanno origini sataniche e l’ex Primo Ministro Barnabas Dlamini ha definito l’omosessualità un’anormalità ed una malattia.

Conseguenze dirette dell’ostilità e del pregiudizio nei confronti dei membri della comunità LGBTQIA+ di Eswatini sono aggressioni, violenze e perfino omicidi, che spesso non vengono effettivamente perseguiti dalle autorità. Per offrire una rete di sicurezza informale alle persone LGBTQIA+ del suo Paese, dunque, Melusi Simelane ha deciso di fondare la sua organizzazione.

Nel 2022 la ESGM ha ricevuto da parte dell’Alta Corte di Eswatini il diniego di registrarsi presso il Registro delle Imprese perché, secondo il giudice Mumcy Dlamini, il vero scopo dell’organizzazione sarebbe quello di diffondere informazioni sulle pratiche sessuali tra le persone dello stesso sesso. Sebbene la Corte Suprema di Eswatini abbia annullato la decisione dell’Alta Corte, avvalendosi dell’articolo 33 della Costituzione, che garantisce il diritto ad essere trattati secondo i requisiti fondamentali di giustizia ed equità davanti a qualsiasi autorità amministrativa, il Ministro del Commercio, dell’Industria e del Mercato ha comunque rifiutato la registrazione dell’ESGM.

LA FIGURA DI MELUSI

Come abbiamo visto, il contesto socio-culturale di Eswatini è fortemente caratterizzato dall’omofobia, che è ampiamente diffusa sia tra la popolazione che tra le istituzioni del Paese. Questo rende ancora oggi impossibile per tante persone queer vivere apertamente la propria identità e/o il proprio orientamento sessuale.

Lo stesso Melusi Simelane nel corso della propria vita ha subito discriminazioni a causa della sua omosessualità. Come racconta lui stesso in varie interviste, infatti, è stato vittima di bullismo a scuola, ha subito violenza sessuale, aggressioni da parte di sconosciuti, tentativi dei vicini di screditarlo agli occhi del padrone di casa, stalking e perquisizioni arbitrarie della polizia. Nonostante tutto questo però, ha deciso di rimanere in Eswatini per portare avanti la battaglia per dar vita ad una società più inclusiva.

Grazie alla sua costanza ed al suo coraggio Melusi Simelane è riuscito ad organizzare il primo Pride di Eswatini che è riuscito ad ottenere risonanza internazionale e nazionale, nonostante i tentativi del governo di minimizzare l’impatto dell’evento sia sulla popolazione che sull’assetto sociale del Paese.

Con riferimento alla pronuncia del Ministro del Commercio, dell’Industria e del Mercato, in aperto contrasto con la decisione della Corte Suprema, Melusi Simelane dichiara che questo non riuscirà ad impedire il lavoro di advocacy che ESGM sta portando avanti, anzi ha rafforzato ancora di più la voglia di combattere per realizzare un vero cambiamento.

In occasione del Pride Month, noi di Large Movements APS abbiamo scelto di dar voce a storie come quella di Melusi Simelane affinché, in un momento di festa per la comunità LGBTQIA+ occidentale, non ci si dimentichi che in tante parti del mondo quelle conquiste sono ancora lunghe dall’essere acquisite. E volevamo farlo tributando il lavoro di coloro che ogni giorno si battono per veder riconosciuti i diritti della comunità LGBTQIA+.

Ci auguriamo che, grazie al lavoro di Melusi e di ESGM, il governo di Eswatini decida finalmente di eliminare dal proprio ordinamento giuridico una legge espressione del sentimento e della cultura di un popolo completamente diverso da quello che attualmente abita il Paese, mettendo in atto un processo rapido e concreto che porti alla decriminalizzazione dell’omosessualità.

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Ilaria-Alpi-Miran-Hrovatin-Somalia

L’omicidio di Ilaria Alpi e l’inchiesta sul traffico di rifiuti tossici in Somalia

Il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia, è stata assassinata, insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin, Ilaria Alpi. La giornalista dal 1992 effettuò diverse missioni per conto del TG3 per raccontare la missione di pace delle Nazioni Unite “Restore Hope” e il contesto somalo della guerra civile scoppiata a seguito della caduta del regime di Siad Barre nel 1991. Le indagini del Caso Alpi-Hrovatin si sono concentrate sull’ultimo reportage della giornalista che sarebbe dovuto andare in onda la sera del 20 marzo. Di quel reportage rimangono solo frammenti e filmati incompleti in quanto la versione integrale non arrivò mai in Italia. Di quell’omicidio ancora non è chiaro né il movente, né il mandante, né gli esecutori. Tra i principali protagonisti del Caso Alpi-Hrovatin si ricorda Giancarlo Marocchino, traportatore piemontese che per anni è stato un influente imprenditore di Mogadiscio. Per il SISMI, secondo una delle note declassificate, era “un imprenditore abile e furbo” in grado di lavorare per tutti e di districarsi nella Somalia sconvolta dalla guerra civile. Secondo il SISMI si occupava di logistica ed era sospettato di trafficare in armi e rifiuti tossici e radioattivi, sospetti che al momento non trovano un riscontro giudiziario. Sullo sfondo dell’indagine occorre inoltre tenere a mente il contesto somalo e in particolar modo il coinvolgimento Italiano in Somalia. La relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, approvata nel febbraio del 2006, ha analizzato diverse causali dell’omicidio tenendo in conto anche il fondamentalismo e la criminalità nel paese. Grazie ad un’analisi dei taccuini di Ilaria Alpi si è cercato di ricostruire i temi dell’ultimo reportage in modo da proseguire su tre linee di indagine: il traffico di armi, il traffico di rifiuti tossici e gli effetti della cooperazione italiana in Somalia. La cooperazione Italiana in Somalia Prima dell’inizio della guerra civile in Somalia l’Italia fu una stretta alleata del governo di Siad Barre, presidente-dittatore somalo fino al 1991, a cui vendeva armi che sono state accumulate in diversi magazzini del paese e che sono stati oggetto di interesse delle milizie e dei signori della guerra a seguito della caduta del regime. In generale si riconosce che l’Italia ha sostenuto economicamente e politicamente Siad Barre anche nel momento in cui il regime appariva completamente screditato agli occhi dell’opinione pubblica internazionale e alla maggioranza del popolo somalo. Tra le linee di indagine della Alpi rientrava la cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo e in particolar modo con la Somalia. La giornalista era interessata al fenomeno degli aiuti in generale ed alla modalità di distribuzione degli stessi, oltre al fatto che essi potessero essere stati utilizzati per arricchimenti illeciti anziché per lo scopo per cui erano stati erogati. In particolar modo la Alpi era interessata alla strada Garoe-Bosaso e al progetto di pesca della Shifco. La cooperazione allo sviluppo in favore della Somalia fu voluta dal parlamento italiano nel 1979 con l’elargizione di ingenti finanziamenti. In particolar modo durante il periodo 1986-1989 il volume degli investimenti italiani in Somalia e nel corno d’Africa è aumentato in modo esponenziale per poi interrompersi con l’esplosione della guerra civile nel 1992. La relazione conclusiva della commissione parlamentare sostiene che nel decennio 1981-1990 l’80% dei fondi è stato destinato alla realizzazione di progetti definiti “fisici”. Di questi il 49% è stato destinato alla costruzione di grandi infrastrutture, il 21% alla realizzazione di investimenti produttivi e il 15% a investimenti definiti “socio-comunitari” (progetti che possono essere considerati a beneficio della popolazione). Tale assetto della cooperazione italiana è stato segnato da difetti di programmazione e mancanza di coordinamento con le iniziative multilaterali e internazionali. L’effettiva riuscita di queste iniziative di cooperazione, inoltre, è stata pesantemente minata dalla prerogativa alla tutela di interessi particolari che aziende, lobbies e gruppi di pressione italiane avevano in Somali e che non tenevano in conto i bisogni reali del paese. L’analisi di queste politiche di cooperazione internazionale è stata condotta durante la stagione di Tangentopoli. In questo quadro alcune inchieste fecero emergere una realtà nella quale gli stanziamenti per la Cooperazione con i Paesi in via di sviluppo erano una parte non trascurabile di tutto il sistema tangentizio italiano. Le indagini permisero di scoprire progetti costosi e inutili, stanziamenti multimiliardari, tangenti e traffici di ogni genere tra cui quello di armi verso la Somalia. A tal proposito la Commissione parlamentare di inchiesta sulla cooperazione con i Paesi in via di sviluppo del 1994 si recò in missione a Gibuti, in Somalia e in Kenya dal 29 gennaio al 31 gennaio del 1996. Il resoconto dei lavori sottolineò che ci furono molti errori di gestione e che molti soldi erano andati nelle mani sbagliate. Tra le opere più controverse finanziate dal governo italiano pertanto rientrano la strada Garoe-Bosaso e il porto di Bosaso, nonché il progetto di pesca oceanica e la relativa società di pesca “Shifco”. Per quanto riguarda la strada, il costo medio per chilometro è stato pari a 605 milioni, sproporzionato rispetto alle medie di spesa sul territorio italiano ma anche rispetto alle altre strade realizzate con i fondi della cooperazione allo sviluppo nel corno d’africa. Dall’altra parte all’inizio del 1979 si provò ad intraprendere un progetto di pesca oceanica che fu segnato da disastri e insuccessi. Venne così creata la società “Shifco” che dispose il trasferimento dei pescherecci dopo la guerra anti-Barre del ’90 nelle acque del golfo di Aden. Vi è un sospetto che tale iniziativa, caratterizzata da errori di progettazione gravi, sia servita soprattutto ad arricchire, non necessariamente per vie illecite, gruppi privati italiani e somali. La pista del Traffico di Armi in Somalia Ilaria Alpi prima di intraprendere il suo ultimo viaggio aveva individuato la zona di Bosaso, città portuale nel nord della Somalia, come una zona “giornalisticamente interessante” ed aveva intenzione di approfondire i temi legati al traffico di armi e l’intreccio con la “mala cooperazione” e il traffico di rifiuti tossici. Perseguendo questo obiettivo, la Alpi condusse indagini sulle navi della Shifco alla ricerca di riscontri. In particolar

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Sversamenti di petrolio nel Delta del Niger: disastri ambientali e sanitari in Nigeria

Il Delta del Niger è uno dei 5 ecosistemi più inquinati del mondo a causa degli sversamenti di petrolio che colpiscono ancora oggi sia l’ambiente che le popolazioni locali, come nel caso degli Ikebiri e degli Ogoni. L’industria del petrolio, storica in un paese come la Nigeria, rappresenta la causa principale di conflitti violenti, disastri ambientali e disastri sanitari che sono ormai strutturali. Tale tematica, inoltre, interessa anche l’Italia dal momento che nel 2018 ha avuto inizio presso il Tribunale di Milano il processo civile che vede coinvolte l’ENI, con la sua controllata nigeriana, e il popolo degli Ikebiri. La situazione ambientale del Delta del Niger e i danni alla salute subiti dalla popolazione nigeriana Il Delta del Niger è una regione ricca di petrolio nel sud-est della Nigeria, qui le attività delle multinazionali del petrolio (come Shell, Exxon Mobil, Chevron Texaco, Total Fina Elf, Eni/Agip) hanno procurato gravi danni ambientali, sociali ed economici. Nello specifico l’inquinamento viene causato dalle perdite di greggio che fuoriescono dalle tubature vecchie degli oleodotti che si estendono per centinaia di chilometri all’interno del territorio. Oltre agli sversamenti di petrolio che si riversano nell’acqua del fiume e lungo le sue sponde, un altro grande problema che affligge questo territorio è il fenomeno del Gas flaring, la combustione del gas in eccesso estratto insieme al petrolio. Questo gas potrebbe essere reimmesso nel sottosuolo oppure utilizzato per i fabbisogni energetici della Nigeria. Invece viene bruciato dalle multinazionali perché ciò rende l’estrazione del petrolio molto più veloce, abbassando così i costi di gestione e di produzione. Di conseguenza le persone che abitano in queste zone respirano aria inquinata, mangiano pesce contaminato (quel poco che è rimasto nell’area) e bevono acqua mista a petrolio. Secondo il programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, i livelli di tossicità sono 900 volte superiori a quelli consentiti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Conseguentemente è aumentata anche la diffusione di malattie: problemi respiratori, malattie della pelle e degli occhi, disturbi gastrointestinali, leucemie e cancro. Infine occorre notare che l’attività di estrazione, inquinando il bacino idrico ed i terreni, ha distrutto le coltivazioni di sussistenza. A ciò si aggiunge l’espropriazione dei terreni della popolazione nigeriana ad opera del governo, in virtù di trattati siglati con le multinazionali negli anni ‘60 del secolo scorso e da allora rimasti invariati. L’industria del petrolio in Nigeria Il petrolio da solo costituisce il 95% delle esportazioni e il 65% del bilancio nazionale della Nigeria, per questo motivo il tema dei violenti conflitti per la gestione di questa risorsa è ricorrente nella storia coloniale e post coloniale del paese.  L’industria del petrolio nel Delta del Niger vede coinvolti sia il governo della Nigeria che le società controllate da grandi compagnie multinazionali, come Shell, Exxon Mobil, Chevron Texaco, Total Fina Elf ed Eni/Agip, oltre ad alcune società nigeriane. A tal proposito l’esplorazione e la produzione del petrolio sono realizzate dalle “joint venture” (associazioni temporanee di imprese) di cui fanno parte la Nigerian National Petroleum Corporation (NNPC), controllata dal governo, e una o più compagnie petrolifere estere che hanno siglato contratti di associazione e partecipazione con la NNPC. In questo modo la NNPC detiene la quota di maggioranza, lasciando alle multinazionali il ruolo operativo sul campo. Di fatto le compagnie gestiscono vastissime porzioni di territorio, si pensi al fatto che la sola Shell Petroleum Development Company of Nigeria (SPDC) gestisce un’area di oltre 31.000 chilometri quadrati, costruendo buona parte delle infrastrutture petrolifere vicino alle abitazioni, alle coltivazioni e alle fonti d’acqua delle comunità. Le comunità che vivono sul Delta del Niger però non traggono benefici dalla ricchezza del petrolio e, nonostante la presenza di 606 pozzi petroliferi, la Nigeria resta uno tra i paesi africani più poveri. Gli unici ad arricchirsi con il petrolio sono quindi le multinazionali e le élite locali, situazione che ha però suscitato da una parte proteste e mobilitazioni, dall’altra repressioni violente da parte dello Stato e dagli agenti della sicurezza privata assunti dalle compagnie. Occorre inoltre notare che il 60% della popolazione del Delta del Niger sopravvive grazie ad attività direttamente collegate all’ecosistema. In altre parole quando le coltivazioni e le zone di pesca vengono danneggiate, gli abitanti non hanno la possibilità di trovare fonti di reddito alternative rispetto a quelle perdute sprofondando ancor più nella povertà. In questo ecosistema quindi non si può vivere secondo il motto della Nigeria “Unità e fede, pace e progresso” poiché davanti alle persone sempre più spesso si presentano due alternative: la lotta o la migrazione. Il Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni e Il movimento per l’emancipazione del Delta del Niger Le comunità locali, appoggiate principalmente dal Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger e dal Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni, si oppongono alle politiche di sfruttamento portate avanti dalle multinazionali e chiedono la bonifica dei corsi d’acqua e dei terreni oltre che una più equa distribuzione dei proventi del petrolio come risarcimento del debito ecologico. Il Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni, popolazione principale della regione del Delta del Niger, conduce dal 1990 una campagna non violenta contro il degrado ambientale. Gli Ogoni sono un popolo indigeno colpito dallo sfruttamento intenso delle risorse petrolifere concesso dalla giunta militare alla multinazionale Shell negli anni ‘80. Secondo l’accordo stipulato tra le parti, pur se formalmente le terre sono rimaste nelle mani della popolazione, la Shell poteva sfruttare le risorse presenti ed era obbligata a destinare solo l’1,5% delle royalties derivanti dai guadagni alla popolazione locale. Dopo numerose battaglie condotte dal Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni, si è raggiunto un accordo in virtù del quale la Shell deve destinare alla popolazione più del 15% delle royalties. Oltre a questo, un importante risultato conseguito dal leader del Movimento Ken Sawro-Wiwa è stato quello di essere riuscito ad attirare l’attenzione internazionale ricorrendo a concetti forti e di impatto per descrivere il problema. Uno degli esempi più lampanti è il concetto di “Guerra ecologica”. Nel 1995 però Ken Sawro-Wiwa, e otto attivisti furono arrestati e condannati a morte

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KASHA JACQUELINE NABAGESERA: PIONIERA DEI DIRITTI LGBTQIA+ IN AFRICA

Kasha Jacqueline Nabagesera è una pioniera nell’attivismo per i diritti LGBTQIA+ e fondatrice di Freedom and Roam Uganda (FARUG), organizzazione per i diritti delle donne e delle persone lesbiche, bisessuali e queer. LA QUESTIONE UGANDESE L’Uganda è tristemente nota per essere uno dei tre Paesi africani, insieme alla Nigeria e alla Mauritania, in cui è prevista la pena di morte per gli omosessuali. Il 21 marzo 2023 è stata approvata dalla Corte costituzionale l’Anti-Homosexuality Act (AHA) che inasprisce le pene già esistenti nel Codice Penale del 1950, che prevedeva l’ergastolo per “chiunque avesse conoscenza carnale contro l’ordine della natura”. L’attuale legge sancisce, come citato, la pena di morte per il reato di omosessualità aggravata. Ciò significa che il reato si configura quando le persone queer vengono identificate come delinquenti seriali e/o quando si trasmette una malattia sessualmente trasmissibile durante l’atto. La citata normativa introduce inoltre, l’obbligo di denunciare alle autorità chiunque sia sospettato di praticare atti omosessuali e la pena qualora detta denuncia non venga sporta è la reclusione fino a 5 anni. Nonostante sia stata presentata una petizione da un gruppo di attivisti LGBTQIA+ per annullare l’AHA perché incostituzionale in quanto nega la fruizione di diritti umani fondamentali, la Corte costituzionale ha respinto l’annullamento della legge con voto unanime. Purtroppo il Paese non è nuovo a questo tipo di legge. Già nel 2014 infatti, era stato varato una prima versione dell’Anti-Homosexuality Act che prevedeva la pena di morte, poi commutata in ergastolo, per chi avesse intrattenuto relazioni sessuali con persone dello stesso sesso. La legge fu poi successivamente annullata perché non era stato raggiunto il quorum sufficiente per la sua approvazione. Nel 2021 venne poi approvato un disegno di legge, che condannava a 10 anni di carcere chi avesse compiuto atti omosessuali. Questa legge fu poi ritirata dal Presidente Yoweri Mudeveni poiché le condanne previste erano già presenti all’interno del Codice Penale. DESIDERIO DI CAMBIAMENTO In questo clima ostile Kasha Jacqueline Nabagesera inizia fin da giovanissima la promozione dei diritti LGBTQIA+ parlandone in televisione e radio, diventando non solo la prima persona a parlare apertamente della sua omosessualità, ma anche una pioniera dell’attivismo queer nel suo Paese. Questo la porta a diventare un bersaglio di odio e violenza da parte di istituzioni e cittadini sin dalla sua vita universitaria. In questo periodo è stata costretta a sottoporsi tutti i giorni ad un esame del suo abbigliamento davanti ai dirigenti dell’università prima delle lezioni dal momento che l’ateneo sosteneva che una “vera” donna non potesse indossare capi maschili. Gli stessi dirigenti poi, le hanno rifiutato di alloggiare nel campus per impedire che Kasha Jacqueline Nabagesera potesse “corrompere le altre studentesse”. Queste vessazioni però, non hanno prodotto altro risultato se non quello di rafforzare in lei la determinazione a portare il cambiamento in una nazione fortemente omofoba e così nel 2003 fonda, insieme ad alcuni amici, l’organizzazione Freedom and Roam Ruanda (Farug) per denunciare le discriminazioni di cui le persone queer sono vittime. I membri di Farug diventano bersaglio di violazioni dei diritti umani di varia natura fino ad arrivare al 2 ottobre del 2010, quando la rivista Rolling Stones Uganda pubblica la lista – corredata di nomi e foto – dal titolo “Hang Them” dei 100 omosessuali più in vista. Tra i nominativi pubblicati compaiono anche quelli di Kasha Jacqueline Nabagesera e del suo amico attivista David Kato, che morirà mesi dopo a causa di una violenta aggressione a sfondo omofobo. Kasha invece, continua la sua battaglia in prima linea e nel 2014 fonda Bombastic, la prima rivista LGBTQIA+ che viene distribuita gratuitamente e segretamente nella capitale ugandese al fine di sensibilizzare la popolazione sulle condizioni di vita della comunità queer nel Paese. Per il suo lavoro e il suo coraggio è conosciuta a livello mondiale e riceve diversi premi importanti come il Martin Ennals Award for Human Rights Defenders, il corrispettivo del Premio Nobel per i diritti umani, nel 2011; il Nuremberg International Human Rights Award nel 2013 e il Right Livelihood Awards nel 2015. Nonostante le innumerevoli difficoltà e le perdite in termini di vite umane, Kasha Jacqueline Nabagesera non ha mai ceduto o deciso di fuggire dall’Uganda poiché la sua voglia di giustizia – rappresentativa di quella di tutta la comunità LGBTQ+ ugandese – primeggia sul terrore. In occasione del Pride Month, noi di Large Movements APS abbiamo scelto di dar voce a storie come quella di Kasha Jacqueline Nabagesera affinché, in un momento di festa per la comunità LGBTQIA+ occidentale, non ci si dimentichi che in tante parti del mondo quelle conquiste sono ancora lunghe dall’essere acquisite. E volevamo farlo tributando il lavoro di coloro che ogni giorno si battono per veder riconosciuti i diritti della comunità LGBTQIA+. Ci auguriamo che, grazie al lavoro di Kasha e del suo magazine, il governo dell’Uganda decida di eliminare dal proprio ordinamento giuridico una legge altamente lesiva dei diritti umani, mettendo in atto un processo rapido e concreto che porti alla decriminalizzazione dell’omosessualità.

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