Leymah Gbowee per i diritti delle donne liberiane

Nell’Ottobre 2011 Leymah Gbowee, Ellen Johnson Sirleaf e Tawakkul Karman ricevettero il Premio Nobel per la Pace in conseguenza de “la loro lotta non violenta in favore della sicurezza delle donne e del loro diritto a partecipare al processo di pace”. Oggi parliamo di Leymah Gbowee e del suo perpetuo impegno per i diritti delle donne.

La guerra civile in Liberia:

Gbowee inizia il suo lavoro come attivista insieme al gruppo “Liberia Mass Action for Peace (LMAP)” nell’aprile 2003. La Liberia, suo paese natale era in uno stato di guerra civile da ormai 14 anni. Tutto era iniziato, nel 1989 quando Charles Taylor era entrato in Liberia e, aiutato dalle forze ribelli del Fronte Nazionale Patriottico per la Libertà, aveva minacciato la capitale, Mongrovia, e il governo di Samuel Doe. Dopo nove mesi, Doe fu ucciso e Taylor prese il potere. Questo non fermò le ostilità e nonostante Taylor vinse le elezioni presidenziali del 1997 con il 75% dei voti, quello stesso anno scoppiò una nuova guerra civile. Tra il 1989 e il 2003 morirono più di 270.000 persone, la mortalità neonatale era di 157 morti ogni 1000 nati e la mortalità infantile nei bambini minori di 5 anni era di 235 su 1000. Come conseguenza de conflitto e dell’alto tasso di mortalià infantile, l’80% della popolazione rurale fu costretto alla migrazione.

Il conflitto fu purtroppo caratterizzato dall’uso indiscriminato dello stupro da parte di tutte le parti coinvolte, comprese le truppe internazionali intervenute per ristabilire la pace. Gbowee e le altre attiviste del LMAP iniziarono quindi a protestare per le violenze: la loro retorica era basata su motivazioni concernenti il benessere dei bambini e il futuro del paese. Usarono in particolare tre tattiche: organizzarono manifestazioni pubbliche per rimarcare che le vere vittime del conflitto erano le donne e i bambini, minacciarono di spogliarsi in pubblico e costituirono un’agenda politica per la difesa dei diritti delle donne sia a livello nazionale che internazionale.

Taylor si dimise nell’Agosto 2003 e fu costretto all’esilio in Nigeria. Un accordo di pace fu firmato e nel 2005 furono tenute le elezioni presidenziali che videro la vittoria di Ellen Johnson Sirleaf: prima donna ad essere eletta presidente in uno Stato africano

Il ruolo delle donne nei negoziati di pace:

Decisive per la pace furono le azioni di Gobwee e del LMAP. Vediamo insieme perché queste donne furono così influenti. Per prima cosa le donne evidenziarono il fatto che la guerra aveva portato solo morte e distruzione. Non era una guerra per la terra, il denaro o il potere politico: era una guerra che sterminava madri e bambini. Dopodiché Gbowee e le altre attiviste misero l’accento sul loro status di madri e donne e dunque di “custodi della società”. Misero in risalto il loro ruolo di madri e sorelle degli uomini convolti nel conflitto e sottolinearono l’importanza dell’unità nazionale basata sulla famiglia. Questa retorica funzionò in quanto in Libera il ruolo delle donne, come madri, è molto forte e vi è un senso di rispetto verso coloro che sono viste come creatrici e sostenitrici della comunità e della nazione.

Gli uomini decisero dunque di presenziare ai negoziati di pace perché le loro “madri” lo avevano richiesto. Nonostante ciò, le parole da sole non furono abbastanza per portare ad un vero e proprio accordo di pace, e allora le donne passarono all’azione usando un atto ad elevato valore simbolico: si spogliarono deliberatamente in pubblico. Il 21 luglio Gbowee e le altre attiviste entrarono nell’edifico dove si svolgevano i negoziati e si sedettero fuori dalla stanza dove gli uomini stavano discutendo. Quando furono minacciate di arresto, Gbowee dichiarò che non si sarebbe opposta ma che prima si sarebbe spogliata e si sarebbe mostrata all’assemblea nuda. Successivamente spiegò che in Africa è considerata una terribile maledizione il vedere una donna, sposata e anziana, spogliarsi deliberatamente in pubblico: quell’azione avrebbe evidenziato in modo incontestabile la profonda disperazione delle donne Liberiane. Inoltre, spogliandosi, avrebbe privato gli uomini della loro “mascolinità” e della forza che avevano usato impunemente durante tutto il conflitto, stuprando e uccidendo senza ritegno. Così facendo, Gbowee si stava riappropriando della sua vita e del suo corpo, e nel frattempo smetteva di essere una vittima inerme e diventava politicamente potente e influente. Le attiviste dichiararono che avrebbero lasciato l’edifico solo quando Taylor e le altre parti coinvolte avrebbero preso attivamente parte ai negoziati. I negoziati, dunque, ripresero e infine fu trovato un accordo.

L’importanza del lavoro di Leymah Gbowee nel mondo:

Dopo la firma degli accordi di pace e la fine della guerra, Gbowee continuò i suoi sforzi politici anche fuori dai confini Liberiani. Nel 2006 fondò il Women Peace and Security Network Africa (WIPSEN-Africa) che si occupa di promuovere “la partecipazione strategica delle donne e la loro leadership nelle politiche di pace e sicurezza in Africa”.

In tutti i suoi discorsi e le sue azioni Gbowee sottolinea il potere delle donne comuni e il valore simbolico del corpo femminile. Per combattere il patriarcato e promuovere il potere delle donne come agenti di cambiamento politico, è fondamentale unirsi come donne, madri, sorelle ed esigere l’uguaglianza di genere. Noi di Large Movements condividiamo questo pensiero e abbiamo ritenuto importante condividere con voi la storia di Leymah Gbowee che ha dimostrato al mondo l’influenza che possono avere le donne nei processi di pace ed il vero potere del pacifismo.

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La voce queer di Kakuma: la storia di G.

Nei nostri articoli precedenti abbiamo parlato delle condizioni della comunità LGBTQ+ in Kenya e delle violazioni dei diritti umani che avvengono all’interno del campo profughi di Kakuma.  Abbiamo poi raccolto la testimonianza di J, il primo caso del nostro approfondimento sulle violazioni di diritti umani all’interno di Kakuma, e la testimonianza di A, donna lesbica ospite di Kakuma. Proseguendo, dunque, l’inchiesta che Large Movements APS sta portando avanti insieme ad International Support Human Rights, in questo articolo analizzeremo la situazione specifica di G., nome di fantasia di un ragazzo LGBTQ+ di Kakuma con il quale abbiamo avuto modo di parlare.  Come riportato nei casi precedenti, anche G. ha dichiarato di aver lasciato il suo Paese d’origine in seguito alle diverse aggressioni subite a causa della sua sessualità e di aver cercato rifugio nel vicino Kenya. La speranza di poter vivere lontano dalla paura e dalle violenze subite in quella che un tempo chiamava “casa”, è stata la sua bussola che lo ha guidato lungo il suo viaggio, ma la vita a Kakuma si è rivelata molto più terribile di quanto potesse immaginarsi.  La breve permanenza a Kakuma  G. è un cittadino ugandese. È fuggito dal suo Paese quando la vita in patria era diventata insopportabile dopo diverse aggressioni subite a causa della sua sessualità. È arrivato a Kakuma nell’aprile 2020 ed è ripartito un anno dopo, nell’aprile 2021, quando le condizioni di vita all’interno del campo erano diventate molto rischiose, essendosi trovato a vivere numerosi attacchi violenti, insieme a tutta la comunità LGBTQ+ di Kakuma: è stato quasi dato alle fiamme nel maggio del 2020 ed hanno cercato di avvelenarlo due volte. Non sorprende quindi che G. descriva le condizioni all’interno del campo di Kakuma come “orribili”. La negligenza della polizia e dello staff UNHCR  G. ha dichiarato di aver denunciato alla polizia e al personale dell’UNHCR ogni volta che è stato oggetto di un’aggressione. Tuttavia, tutte le e-mail che ha scritto sono state ignorate al punto che nell’aprile 2021 è stato costretto a fuggire per salvarsi la vita dopo essere sopravvissuto all’ennesima aggressione.  Ci ha inoltre riferito che al suo arrivo è stato scelto come portavoce delle persone LGBTQ+ a Kakuma. Ed è proprio per questo suo stretto contatto con le altre persone all’interno del campo che può assicurare che ogni persona queer che conosce ha sperimentato la stessa negligenza da parte delle autorità e del personale dell’UNHCR. Intimidazioni, minacce e detenzioni arbitrarie sono mezzi spesso usati per opprimere la comunità LGBTQ+ a Kakuma e costringerla al silenzio, tanto che G. afferma che molti rapporti dell’UNHCR dal Kenya condividono informazioni e dati che non sono affatto affidabili né vicini alla verità del campo, perché tali informazioni sono il risultato dell’uso della forza sui rifugiati LGBTQ+, confermando che Kakuma non è un luogo sicuro per le persone queer e che queste hanno bisogno e meritano protezione internazionale e di essere trasferite il prima possibile. La discutibilità della gestione dei ricollocamenti Anche la gestione dei ricollocamenti è discutibile. I ricollocamenti sono così importanti per le persone LGBTQ+ di Kakuma perché, innanzitutto, danno loro speranza. La speranza di vivere e amare liberamente, di essere la persona che sono e di diventare membri produttivi della società. Soprattutto, il ricollocamento significa libertà e sicurezza per G. e per coloro che a Kakuma vivono ancora oggi nella paura, incapaci di muoversi liberamente anche quando vengono attaccati. Anche se G. non ne ha mai fatto richiesta, in quanto secondo lui un trasferimento era implicito nella sua domanda di asilo, dato che il Kenya è un Paese ostile per le persone queer, ci ha raccontato come è stata gestita la situazione dei ricollocamenti mentre si trovava nel campo: all’inizio, l’UNHCR ha detto loro che c’erano pochi posti disponibili per il reinsediamento e che non erano in grado di trasferirli tutti. Poi, col pretesto dell’emergenza sanitaria da Covid-19, hanno ritardato i trasferimenti ma dallo scoppio della pandemia i ricollocamenti non sono ancora avvenuti. Inoltre, i ricollocamenti sono stati usati come arma dal governo keniota e talvolta dal personale dell’UNHCR contro i membri più attivi e vocali della comunità LGBTQ+ che hanno cercato di denunciare le violazioni che avvenivano nel campo. Sostanzialmente, coloro che cercavano di denunciare le condotte gravissime a Kakuma, come G., sono stati minacciati di non essere mai trasferiti. Nel giugno 2021, dopo la morte dell’attivista 22enne Chriton Atuhwera nel campo di Kakuma avvenuta due mesi prima, G. e le persone LGBTQ+ all’interno del campo hanno lanciato una petizione all’UNHCR chiedendo protezione e di essere trasferiti. Gli agenti dell’UNHCR hanno risposto con intimidazioni a coloro che volevano aderire alla petizione, dicendo che sarebbero stati rimpatriati se avessero firmato. “Non si tratta solo di stare zitti, ma loro sono stati proattivi nel mettere a tacere la comunità LGBTQ+”, ha affermato in merito G. Se ti è piaciuto l’articolo, condividi!

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La voce queer di Kakuma: la storia di A.

Nei nostri articoli precedenti abbiamo parlato delle condizioni della comunità LGBTQ+ in Kenya e delle violazioni dei diritti umani che avvengono all’interno del campo profughi di Kakuma.  Abbiamo poi raccolto la testimonianza di J, il primo caso del nostro approfondimento sulle violazioni di diritti umani all’interno di Kakuma. Proseguendo, dunque, l’inchiesta che Large Movements APS sta portando avanti insieme ad International Support Human Rights, in questo articolo analizzeremo la situazione specifica di A., nome di fantasia di una donna lesbica ospite di Kakuma con la quale abbiamo avuto modo di parlare.  Come tanti altri che vivono a Kakuma, A. è fuggita dal suo Paese d’origine a causa delle discriminazioni subite da amici e familiari in ragione della sua omosessualità ed ha cercato rifugio nel vicino Kenya. La possibilità di sfuggire ai maltrattamenti e le discriminazioni subite e la speranza di costruirsi una vita migliore sono stati i motori che l’hanno spinta lontano da casa, ma la realtà con cui si è scontrata è stata tanto dura con lei quanto quella da cui è scappata. La testimonianza di A. Attraverso la Word Cloud estrapolata dalle interviste agli ospiti queer di Kakuma è possibile intuire la natura della loro permanenza all’interno del campo. Parole come “violence”, “assault”, “forced” tracciano un’immagine chiara e poco rassicurante sulla situazione dentro Kakuma per le persone LGBTQ+ come A. L’arrivo a Kakuma A. è una cittadina ugandese. È fuggita dal suo Paese quando la sua famiglia ha scoperto della sua omosessualità. A. infatti, è stata fortemente discriminata ed ha subito gravi attacchi omofobi di varia natura, a tal punto che la sua famiglia, prima che lei riuscisse a fuggire per il Kenya, stava per costringerla a sposarsi. È arrivata a Kakuma nel novembre del 2019 e vi risiede tuttora.  Le violenze e le denunce inascoltate Non appena arrivata, A. si è trovata di fronte a delle condizioni di vita molto difficili per la comunità LGBTQ+ residente a Kakuma. La convivenza tra le persone queer e gli altri rifugiati, infatti, ha portato a diversi attacchi ed aggressioni a discapito degli ospiti LGBTQ+ del campo. Per questo motivo, ci riporta A., sia lei che gli altri membri della comunità queer residenti a Kakuma sono profondamente spaventati per la loro vita. Nel luglio del 2020, quella che era stata la casa di A. nel campo è stata data alle fiamme da altri ospiti e lei ha perso nell’incendio quasi tutti i suoi averi, inclusi beni di prima necessità come vestiti e medicinali. Dopo tutto, il resto dei residenti del campo ha più volte riferito che le persone queer come A. non sono benvenute, definendole “una maledizione” o minacciandole di morte con percosse, aggressioni sessuali ed attacchi incendiari.  La situazione è stata ripetutamente denunciata all’UNHCR ed alle autorità, ma entrambi hanno sempre respinto A. e non sono stati in grado di fornire tutela e protezione dalle violenze gravi subite da A. e dagli altri residenti LGBTQ+. Quando nel luglio 2020 la casa di A. è stata colpita da un incendio doloso, pur se ha riportato immediatamente il fatto allo staff di UNHCR presente nel campo, la donna ha ricevuto supporto solo dagli altri ospiti queer del campo, che le hanno fornito i beni di prima necessità di cui aveva bisogno e che erano andati distrutti nell’incendio. I ricollocamenti Uno dei problemi principali che impedisce di fornire servizi puntuali e garantire efficacemente i diritti umani fondamentali è rappresentato dall’estrema difficoltà nell’ottenere informazioni, in particolare sui ricollocamenti. Il personale di UNHCR presente nel campo ed i componenti del RAS, il dipartimento governativo kenyota che gestisce l’intera procedura di ricollocamento e di concessione dello status di rifugiato, infatti, non forniscono informazioni chiare o non le forniscono affatto. A. stessa non ha mai fatto domanda di reinsediamento non solo perché è molto difficile ottenere informazioni sulle procedure necessarie (tutte le volte che ci ha provato non è stata assistita, proprio dalle persone direttamente responsabili dell’informativa in merito) ma anche a causa del suo status. Non si può accedere al programma di reinsediamento, infatti, se non è stato riconosciuto lo status di rifugiato. Status che, secondo la legge kenyota, deve essere concesso o diniegato entro 6 mesi dall’esame della domanda. Nonostante A. si trovi a Kakuma da quasi 3 anni però, non ha ancora notizie circa l’esito della sua richiesta di asilo.  Il fatto che non abbia presentato domanda per il ricollocamento, dunque, non significa che A. non ne riconosca l’importanza. Tanto è vero che A. ci ha detto che ritiene quella del ricollocamento l’unica opzione in grado di ridare speranza alle persone LGTBQ+ ospiti in Kenya dato che nel contesto in cui si trovano attualmente non possono muoversi liberamente, non vengono forniti loro beni di prima necessità, come gli assorbenti, e vivono nella paura di essere nuovamente attaccati.  Per di più, lei e tutte le altre persone LGBTQ+ di Kakuma sono traumatizzate dal trattamento ricevuto nel campo. Soprattutto, si sentono come se la loro vita fosse rimasta bloccata all’interno di Kakuma, dove ogni giorno è uguale al precedente, e sono molto spaventati dall’idea di invecchiare nel campo. A. vuole tornare a scuola e finire gli studi. Vuole trovare un lavoro per potersi mantenere. Vuole un futuro migliore per i bambini del campo, affinché possano tornare a scuola come dovrebbero, perché, come dice giustamente, l’istruzione è un diritto umano. Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

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La voce queer di Kakuma: la storia di J.

Nei nostri due precedenti articoli abbiamo parlato dei diritti LGBTQ+ in Kenya e delle violazioni dei diritti umani che avvengono all’interno del campo profughi di Kakuma.  Proseguendo, dunque, l’inchiesta che Large Movements APS sta portando avanti insieme ad International Support Human Rights, in questa sezione di approfondimento cercheremo di analizzare la situazione specifica di J., nome di fantasia di uno degli ospiti gay di Kakuma con i quali abbiamo avuto modo di parlare.  Come tanti altri che vivono a Kakuma, J. ha lasciato il suo Paese d’origine a causa delle discriminazioni subite da amici e familiari in ragione della sua omosessualità, per cercare rifugio nel vicino Kenya. Speranza e desiderio di libertà lo hanno accompagnato lungo il suo viaggio, ma la realtà delle cose si è rivelata molto più cruda e dura di quanto potesse immaginarsi. La testimonianza di J. Durante l’intervista, J. ha utilizzato frequentemente le parole contenute nella cosiddetta “Word Cloud” (letteralmente “nuvola di parole”) rappresentata di seguito. Le parole più evidenti sono quelle che J. ha utilizzato con maggiore frequenza durante l’intervista. Come possiamo notare facilmente, questi vocaboli ci restituiscono una fotografia particolarmente amara della cruda realtà che J. e gli altri ospiti LGBTQ+ di Kakuma sono costretti a sopportare:  Arrivo a Kakuma. J. è un cittadino ugandese, costretta a scappare dal suo Paese in quanto, a causa della sua omosessualità, ha subito violenze da parte di amici, familiari e dal governo nazionale. È fuggito così in Kenya ed è arrivato a Kakuma il 3 marzo 2020. Una volta lì, l’amministrazione del campo gli ha confiscato il passaporto e la carta d’identità nazionale che, ad oggi, non gli è stata ancora restituita. Successivamente, è rimasto per 20 giorni nell’area di prima accoglienza per poi essere successivamente trasferito all’interno del campo vero e proprio. Già nell’area di accoglienza, J. racconta di aver ricevuto le prime minacce di morte da parte di altri rifugiati che lo hanno spaventato a tal punto da ricordare ancora la grandissima paura provata al momento del trasferimento nel campo di Kakuma con il resto degli ospiti. L’incendio e le prime violenze. Il 13 aprile la casa in cui alloggiava è stata data alle fiamme e, dopo essere svenuto a causa del fumo, J. è stato portato all’ospedale del campo dalla polizia, risvegliandovisi il giorno successivo. Qui ci racconta di essere stato molestato dal personale dell’ospedale, i quali sostenevano che non sarebbe avvenuto alcun rogo se le persone LGBTQ+ non vivessero a Kakuma. Il giorno dopo l’incidente alcuni membri dello staff di UNHCR e del governo kenyota si sono recati sul posto per valutare la situazione, assicurando a J. che avrebbero agito quanto prima contro i responsabili. Ad oggi, J. è ancora in attesa di aggiornamenti circa lo stato delle indagini.  Poche settimane dopo, continua l’intervistato, mentre lui ed alcuni suoi compagni stavano raccogliendo l’acqua, sono stati aggrediti e picchiati da alcuni cittadini etiopi ospiti del campo. Gli aggressori sostenevano che gli ospiti omosessuali di Kakuma non potessero bere la loro stessa acqua, altrimenti li avrebbero contaminati. Anche in questo caso, J. ha denunciato l’aggressione alla polizia del campo, che gli ha assicurato che avrebbe avviato delle indagini e che avrebbe richiamato tutte le vittime dell’aggressione successivamente per raccoglierne le testimonianze. Una volta recatisi nuovamente dalla polizia del campo però, alle vittime è stato chiesto di togliersi le scarpe e sono stati costretti a trascorrere la notte in cella. La mattina dopo sono stati portati alla stazione di polizia di Kakuma, dove gli agenti presenti li hanno chiamati froci di fronte agli altri detenuti. Questo li ha esposti ad ancora ulteriori pericoli dal momento che sono stati costretti a rimanere – immotivatamente – per tre giorni in cella con persone potenzialmente omofobe alle quali la loro omosessualità era stata rivelata.  Dopo essere tornati all’interno del campo, J. ed altre persone hanno continuato a denunciare nuovi casi di aggressione, ricevendo sempre la stessa risposta: non essendoci abbastanza prove a supporto di quanto denunciato dalle vittime, nessuna azione formale può essere intrapresa dalla polizia kenyota né dallo staff di UNHCR di Kakuma. Gli attacchi continuano, ma nessuno lo ascolta. Il 27 aprile 2020 J. ed altre persone LGBTQ+ residenti a Kakuma si sono recate presso la struttura dell’UNHCR chiedendo protezione, ma le loro richieste sono state definite delle “semplici” proteste non autorizzate e come tali neanche esaminate. Dopo poco tempo da questi fatti, J. ed altri membri della comunità LGBTQ+ di Kakuma hanno subito ulteriori aggressioni da parte dei residenti del campo. Durante questi attacchi, J. è stato ferito al basso ventre riportando lesioni talmente gravi da costringerlo ad urinare sangue per molti mesi ed è anche stato gravemente ferito al braccio (aggredito con un machete mentre recuperava il telefono dall’area di ricarica del campo). A seguito di quegli attacchi repressivi, continua J., altre 40 persone sono state portate in ospedale.  Il 15 marzo 2021, J. è stato nuovamente attaccato con una bomba molotov durante la notte. Ha trascorso dieci mesi in ospedale per riprendersi da quell’aggressione, mentre riceveva molestie dal personale e cure mediche scadenti dall’ospedale, con medicazioni mancate delle ferite al punto che le sue “gambe hanno iniziato a marcire”. È stato poi trasferito in una struttura privata a Nairobi, dove la sua sicurezza non era ancora garantita perché sia lui che gli altri ospiti, erano costantemente minacciati di subire nuovi attacchi nel futuro a causa del loro orientamento sessuale.  Naturalmente, tutta questa situazione è stata denunciata da J. all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ed alle autorità del Kenya, senza che venisse intrapresa alcuna azione per fornirgli la protezione di cui ha diritto.  L’attesa. Dopo gli attacchi, J. ha chiesto di essere trasferito in una struttura più sicura. È stato poi intervistato per il riconoscimento dello status di rifugiato nel febbraio 2022. Ora è in attesa della conferma della sua condizione di rifugiato. Procedura questa che, secondo quanto gli è stato detto, avrebbe dovuto richiedere un massimo di sei mesi ma per la quale non ha ancora ricevuto esito.  Le condizioni di vita a Kakuma si sono rivelate a

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Diritti LGBTQ+ in Sudan

Il Sudan, che letteralmente significa “Terra dei Neri”, è uno Stato a maggioranza arabo-musulmana, la quale detta l’orientamento politico e religioso del Paese. Il processo di islamizzazione avviato il secolo scorso ha portato a discriminazioni che hanno fondamento nell’apparato legislativo e che hanno colpito non solo le minoranze etniche e religiose ma anche i membri appartenenti alla comunità LGBTQ+. Quadro Legislativo ed Impatto nella Società Civile Sebbene in Sudan non siano presenti esplicite leggi contro l’omosessualità, la sodomia è descritta come reato nel Codice penale del Sudan ed è punita con sanzioni severissime. Fino ad un passato drammaticamente recente, tra l’altro, era ancora prevista la pena di morte come punizione per un rapporto omosessuale.  Nel Codice penale sudanese la disciplina giuridica dei rapporti omosessuali è contenuta nell’articolo 148 dellasezione Reati di Sodomia, parte del quale recita: “Chiunque commetta l’atto di sodomia, sarà passibile di reclusione fino a cinque anni”. Per di più, in caso di recidiva sono previste pene progressivamente più severe, fino all’ergastolo. Grazie al lavoro degli attivisti ed il costante dissenso di una sempre più crescente parte della popolazione sudanese, nell’agosto 2020 il governo ha ceduto alle forti pressioni della società civile ed ha varato diversi emendamenti al Codice penale, dichiarando di voler “abolire tutte le leggi che violano i diritti umani dei sudanesi”. Tra i vari emendamenti è stata compresa una modifica al suddetto articolo 148, che ha definitivamente eliminato la pena di morte e la fustigazione dalle sanzioni previste per i rapporti omosessuali.  Menzione a parte poi, merita l’articolo 151 del Codice penale del Sudan che disciplina gli Atti Osceni, criminalizzando i rapporti sessuali non assimilabili alla sodomia e prevedendo per coloro colti in fragranza di reato la reclusione fino ad un anno – senza distinzione di pena tra donne e uomini.  Conseguentemente i membri della comunità LGBTQ+ non possono celebrare alcun tipo di unione né sono tra le categorie tutelate dalle leggi antidiscriminazione. Il Codice penale del Sudan non viene significativamente riformato dal 1991, quando i conflitti erano ancora aspri ed il governo cercava sempre più consensi da parte della popolazione musulmana integralista che domandava l’applicazione stringente dei principi della Sharia. Solo con la recente deposizione di Al-Bashir, autocrate al potere per quasi 30 anni, avvenuta nel 2019, si è potuta intravedere una speranza di cambiamento. Attualmente infatti, il Sudan è in continuo subbuglio: la stabilità governativa è precaria e gli scontri tra forze armate e civili sono sempre più frequenti.  Nonostante questo però, la lotta per la parità dei diritti della comunità LGBTQ+ in Sudan è ancora lunga dal concludersi vittoriosamente dal momento che l’omosessualità è ancora considerata un reato.  Percezione e Status Sociale Oltre a violare numerosi articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il Sudan ha sempre votato contro ogni proposta di risoluzione a favore di diritti LGBTQ+ avanzata dalle Nazioni Unite. Oltre alla repressione istituzionalizzata, ciò che rende ancora più difficile la vita degli individui appartenenti alla comunità LGBTQ+ in Sudan è l’intolleranza e l’omofobia radicate nella società. Tra le radici del problema un ruolo fondamentale lo gioca la religione. La maggior parte della popolazione, come abbiamo visto, è di fede musulmana conservatrice e come tale osteggia l’attribuzione dei diritti civili e sociali alle persone LGBTQ+. Per di più, sono grandemente frequenti gli episodi di maltrattamenti, non solo da parte delle autorità, ma soprattutto da parte delle famiglie delle persone che decidono di “uscire allo scoperto”. La tendenza generale è infatti quella di tenere nascosto il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere, al fine di autotutelarsi il più possibile. In una società in cui l’omosessualità è criminalizzata e le discussioni sulla sessualità sono tabù, internet è diventato uno dei modi in cui è possibile soddisfare le esigenze di informazione delle persone LGBTQIA+ e un luogo in cui possono creare connessioni e trovare sostegno e comprensione. Il Sudan però, è un Paese in cui i media tradizionali sono strettamente controllati dal governo ed il libero flusso di informazioni online viene spesso percepito come una minaccia dalle autorità. Per questo motivo, in momenti di instabilità o crisi il governo vara misure come la censura o la completa chiusura dell’accesso ad internet, per impedire a certe informazioni di circolare tra la popolazione. Queste restrizioni della libertà di informazione dei cittadini dunque, influiscono negativamente sull’attività della società civile e limitano la diffusione di informazioni in merito all’educazione sessuale e civile ed al godimento dei pieni diritti di uguaglianza da parte di ciascun cittadino sudanese. Questa attività di censura ha determinato la terminazione delle attività della prima associazione LGBTQ+ del Sudan, Freedom Sudan che fu fondata nel 2006 ma che risulta inattiva da vari anni. Un’altra organizzazione sta portando avanti il testimone: Bedayaa, che si rivolge agli individui LGBTQ+ della Valle del Nilo, regione collocata tra l’Egitto e il Sudan. Questa associazione è stata fondata nel luglio 2010 da volontari che hanno riconosciuto le somiglianze tra le lotte in questi due Paesi, in particolare per quanto riguarda la criminalizzazione e  la percezione religioso-culturale degli omosessuali. In ultimo, dal 2012 è sorta un’altra associazione – la Rainbow Sudan – che si batte per i diritti di tutti, compresi quelli di donne e bambini. Come dichiara il suo fondatore Mohamed infatti, nonostante “in questo momento il Paese non sia pronto ad aprirsi alle tematiche LGBTQ+, non abbiamo perso la speranza di farcela”. È evidente che la lotta per un futuro senza odio e discriminazioni non accenna a fermarsi, noncurante degli ostacoli da sormontare, e la comunità LGBTQ+ del Sudan è pronta a far sentire la propria voce. Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

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Cos'è Boko Haram - Large Movements

Boko Haram: Bambini Kamikaze e diritti violati

In Nigeria le violazioni da parte di Boko Haram contro i bambini sono numerose e tra queste vi sono l’uccisione, la mutilazione, il reclutamento forzato, il rapimento, la violenza sessuale e gli attacchi contro scuole ed ospedali. Le Nazioni Unite hanno riscontrato oltre 3.000 violazioni da parte di Boko Haram contro i bambini nel nord-est del paese tra gennaio 2017 e dicembre 2019, tra cui oltre 1.000 bambini uccisi e l’uso di oltre 200 bambini per attacchi suicidi. L’efferatezza del terrorismo rappresenta un grave rischio per i diritti dei minori in Africa e nel Sahel. “L’Assalto all’educazione occidentale” e la violazione dei diritti dei minori in Nigeria Boko Haram ha gravemente violato la salute e i diritti dei bambini in Nigeria. Tra il 2009 e il 2015 l’organizzazione terroristica ha attaccato e distrutto più di 900 scuole e portato alla chiusura di più di 1.500 istituti per l’istruzione in quello che è stato definito come un vero e proprio “assalto contro l’educazione occidentale”. Solo tra il 20 febbraio e il primo marzo 2012 Boko Haram ha dato alle fiamme 12 scuole elementari, spesso attraverso attacchi coordinati contro più scuole. A seguito di questi attacchi si stima che 5.000 studenti non sono più potuti andare a scuola. In seguito a quegli attacchi un presunto portavoce di Boko Haram, Abul Qaqa, ha affermato che gli attacchi erano una risposta a quelli subiti dalle scuole coraniche ed all’arresto di insegnati islamici da parte delle forze di sicurezza. A tal proposito, si rileva che i funzionari nigeriani hanno a lungo accusato alcuni insegnati islamici del Nord-Est della Nigeria di utilizzare le scuole coraniche come luogo di reclutamento e formazione dei nuovi membri di Boko Haram. Occorre evidenziare che gli attacchi alle scuole ostacolano l’accesso all’istruzione di migliaia di bambini in Nigeria. I bambini da una parte rischiano la vita, dall’altra potrebbero vedere le scuole chiuse e abbandonare del tutto il percorso scolastico. Anche quando le classi riprendono dopo un attacco, la qualità dell’istruzione ne risente poiché gli studenti e gli insegnanti hanno paura e il materiale didattico viene danneggiato. Infine le minacce degli attacchi possono anche costringere le scuole vicine a chiudere o i genitori a tenere i figli a casa. A ciò si aggiunge che, a partire dal 2014, Boko Haram ha iniziato a rapire bambini e bambine da queste scuole per affiliarli all’organizzazione terroristica e costringerli ad affiancare i militanti, spesso per compiere attentanti suicidi. Un ulteriore pericolo per i diritti dei bambini è stato rappresentato dalla Civilian Joint Task Force (CJTF), gruppo locale formatosi nel 2013 per sostenere le forze di sicurezza nigeriane e contrastare le azioni di Boko Haram. Il gruppo è stato accusato di abusi come l’uccisione di uomini accanto ad una fossa comune, la deviazione di cibo destinato a famiglie affamate, il pestaggio di uomini e violenze sessuali sistematiche contro le donne. A ciò si aggiunge che la Civilian Joint Task Force nel 2016 è stata elencata negli allegati del Rapporto annuale del Segretariato generale per i bambini e i conflitti armati per il reclutamento e l’utilizzo dei bambini. Nel 2017 il gruppoha siglato, insieme ad UNICEF, un Piano d’Azione in cui si è impegnato a mettere in atto una serie di misure per porre fine e prevenire il reclutamento e l’utilizzo di bambini attraverso l’identificazione e la liberazione di tutti i bambini all’interno delle file del gruppo e l’istruzione dei suoi membri di non reclutare o ricorrere in alcun modo a bambini in futuro. Recentemente la Civilian Joint Task Force è stata elogiata dal gruppo di lavoro del Consiglio di sicurezza sui bambini ed i conflitti armati in quanto avrebbe facilitato il disimpegno di 2.203 ragazzi dalle sue fila. A ciò si aggiungerebbe il fatto che le Nazioni Unite non hanno riscontrato nuovi casi di reclutamento da parte del gruppo. L’educazione secondo Boko Haram Come già è evidente dal nome per Boko Haram – solitamente tradotto con “l’educazione occidentale è proibita” – il tema dell’educazione è fondamentale: l’organizzazione terroristica disapprova totalmente l’istruzione occidentale e impone lo studio secondo i precetti della Shari’a. L’educazione secondo Boko Haram può essere unicamente religiosa e riservata solo al genere maschile e per questo motivo attacca gli istituti femminili o gli istituti di cui non riesce a controllare il percorso di studio o che usano i libri di testo occidentali. Ciò farebbe parte della strategia di Boko Haram per imporre una forma molto rigorosa di Shari’a in Nigeria così da porre fine alla corruzione del governo ed alla diseguaglianza economica. Entrambe causate, secondo l’organizzazione, dalla cultura occidentale e dall’occidentalizzazione della Nigeria. L’educazione, inoltre, è importante perché i minori nei gruppi terroristici, a differenza dei bambini soldato, vengono sottoposti ad un intenso indottrinamento ideologico. I minori che finiscono nelle mani di Boko Haram infatti, imparano a desiderare di voler essere parte dell’organizzazione terroristica ed imparano ad odiare tutto ciò che viene considerato di origine occidentale, tramite la coercizione e l’esposizione prolungata alla “cultura del martirio”. Ai bambini viene quindi insegnato a resistere, lottare e soffrire per la vittoria finale e che il martirio non è un mezzo o una tattica di guerra, bensì un fine e un’impresa comunitaria. Boko Haram sottopone i bambini ad un intenso addestramento spirituale in cui vengono celebrati i dettagli della Jihad e si ricordano le ricompense che i martiri avranno nell’Al di là insieme alla propria famiglia, quest’ultima al contempo godrà di benefici durante la vita. Infine i bambini vengono addestrati all’uso delle armi e vengono iniziati al massacro, dapprima come testimoni poi come esecutori diretti. Il fenomeno dei bambini Kamikaze nella regione del lago Ciad Nell’ultimo decennio si è tristemente assistito all’allarmante crescita del fenomeno dei bambini kamikaze nella regione del lago Ciad, al confine tra Ciad, Camerun, Niger e Nigeria. Nel 2018 l’UNICEF ha dichiarato che Boko Haram utilizza i prigionieri civili per effettuare gli attentati suicidi e che un crescente numero di questi sono bambini: nel 2017 la percentuale di minori impiegati negli attentati è quadruplicata rispetto l’anno precedente. Altro dato tragico relativo in

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Uganda: Porto Sicuro o Polvere sotto al Tappeto? Ne parliamo con Maëlle Noir

Sentiamo spesso parlare del conflitto nella Repubblica Democratica del Congo, come in Sud Sudan o delle continue violenze e rappresaglie in Repubblica Centraficana. Sappiamo gravemente poco, però, delle persone che scappano da questi conflitti, dei rifugiati, delle loro condizioni, e soprattutto delle condizioni delle donne che si ritrovano a fuggire per salvare le proprie vite e le proprie famiglie. Per questo oggi vorremmo porre l’accento su una parte spesso tralasciata nelle narrative dei conflitti: le persone che sono spinte a fuggire da questi contesti e che nella stragrande maggioranza dei casi, contrariamente a quanto spesso viene falsamente sostenuto, rimangono in Africa cercando asilo in Stati confinanti e non scelgono di affrontare il pericolossissimo viaggio verso l’Europa. Uno dei Paesi africani che accoglie una grande quantità di persone in fuga è l’Uganda. Oggi ne parliamo con Maëlle Noir, dottoranda dell’Irish Research Council presso l’Irish Centre for Human Rights dell’Università di Galway. La sua ricerca affronta la questione della violenza nei confronti delle donne rifugiate attraverso una prospettiva femminista intersezionale e decoloniale, esplorando la rilevanza di un approccio femminista al diritto come alternativa alla prassi legale nel contesto dei rifugiati urbani ugandesi. Maëlle ha una vasta esperienza nel campo dell’advocacy e della ricerca comunitaria, poiché negli ultimi cinque anni ha lavorato con diverse organizzazioni nazionali e locali della società civile in India, Irlanda, Francia e Uganda.  È anche assistente di ricerca part-time nell’ambito del progetto Horizon dell’Unione Europea su democrazia e politica, collaborando con ricercatori in Slovacchia, Austria, Italia e Irlanda. Ciao Maëlle, è un piacere averti qui con noi. Innanzitutto, vorrei chiederti della popolazione rifugiata che raggiunge l’Uganda. Quali sono le principali nazionalità che chiedono asilo in Uganda, qual è la procedura per richiedere asilo nel Paese e dove sono accolti i rifugiati? È importante iniziare dicendo che in Uganda risiedono oltre 1,5 milioni di rifugiati, cifra che ne fa la prima popolazione di rifugiati in Africa e la quarta al mondo. Ciò si spiega con la posizione geografica dell’Uganda, crocevia di diverse zone di conflitto nei Paesi vicini, tra cui la Repubblica Democratica del Congo (RDC), il Sud Sudan, la Somalia, l’Etiopia, il Burundi, l’Eritrea, il Ruanda, ecc. L’Uganda ha anche una lunga storia di “politica di porte aperte”, sostenuta finanziariamente e politicamente dal Nord globale che sostiene lo Stato nell’accogliere i rifugiati in fuga dai conflitti e dalle persecuzioni. Per quanto riguarda la nazionalità, il Sud Sudan, la Repubblica Democratica del Congo e la Somalia sono i Paesi di origine predominanti per i rifugiati in Uganda, in quanto costituiscono rispettivamente il 57,1%, il 32% e il 4,1% della popolazione totale rifugiata. Tuttavia, quando si tratta di rifugiati urbani, solitamente localizzati nella capitale Kampala, nella parte meridionale del Paese, questi sono principalmente Somali, Congolesi, Eritrei, Sud Sudanesi, Burundiani ed Etiopi. Il Refugee Act ugandese del 2006 amplia la definizione di rifugiato fornita dalla Convenzione sui Rifugiati del 1951 e dalla Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana del 1969 che disciplina gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa, includendo il criterio del genere. Pertanto, chiunque si trovi al di fuori del proprio Paese d’origine, a causa di aggressioni esterne, occupazione, dominazione straniera od eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico, ed abbia il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale, opinione politica o genere, può ottenere lo status di rifugiato. La procedura per richiedere asilo in Uganda varia a seconda che il richiedente asilo desideri stabilirsi in un campo (che spesso viene concesso sulla base dello status di rifugiato prima facie o “automatico” ossia, di gruppi di persone che provengono da uno Stato che l’UNHCR ha riconosciuto soddisfare i requisiti oggettivi che giustificano la presupposizione dello status di rifugiato. Per queste persone dunque, dovrebbe essere più semplice e veloce ottenere lo status perché l’onere probatorio della situazione nel Paese di origine è del tutto inesistente. Si sono intenzionalmente lasciate le virgolette sul termine automatico però, perché nella realtà questa presunzione non viene quasi mai applicata) o in città (rifugiato non prima facie, al contrario, individui non appartententi alla modalità “automatica”), ma in entrambi i casi rimane relativamente semplice. Per lo status di rifugiato “automatico”, i richiedenti asilo che raggiungono il confine vengono trasferiti in uno dei numerosi centri di accoglienza del Paese per un breve colloquio con un agente dell’Ufficio del Primo Ministro (OPM) prima della registrazione e dell’ottenimento dello status di rifugiato. Questo processo dura da pochi giorni ad un massimo di un paio di settimane, a meno che non ci sia un afflusso particolarmente importante di rifugiati. È più difficile ottenere lo status di rifugiato “non-automatico”, soprattutto per potersi stabilire in una città. Il richiedente asilo deve registrarsi presso l’OPM e sottoporsi a una serie di colloqui con diversi interlocutori, tra cui un ufficiale di polizia e un funzionario dell’OPM incaricato di esaminare lo status, seguiti da un esame finale del caso da parte del Comitato per l’ammissibilità del rifugiato. Secondo l’UNHCR, nel 2022 circa l’87,5% delle domande di status di rifugiato è stato accolto. A titolo di confronto, nel 2022 in Italia oltre l’80% dei richiedenti asilo si è visto negare lo status di rifugiato. Parlando dei campi profughi ugandesi, quali sono le condizioni di accoglienza nei campi? L’Uganda è spesso elogiata dalla comunità internazionale e dai media per le sue condizioni di accoglienza esemplari che favoriscono un “porto sicuro” o addirittura un “paradiso” per i rifugiati. In effetti, sulla carta e in conformità con il Comprehensive Refugee Response Framework, i richiedenti asilo che hanno ottenuto lo status di rifugiato ricevono automaticamente un appezzamento di terreno da coltivare, l’accesso all’istruzione ed all’assistenza sanitaria gratuita, nonché il diritto al lavoro ed alla libertà di movimento. Tuttavia, sappiamo che la teoria di solito differisce drasticamente dalla pratica ed è il caso anche del contesto dei rifugiati in Uganda. La politica di non confinamento (non-encampment policy), apparentemente progressista, promossa dal Comprehensive Refugee Response Framework, non è molto ben attuata in quanto la libertà di movimento rimane condizionata all’ottenimento di un permesso rilasciato dall’OPM

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