Atena Daemi per i Diritti Umani in Iran

Atena Daemi sognava la fine della pena di morte nel suo paese, L’Iran, e auspicava a un rispetto maggiore dei diritti umani. Per questa ragione è stata incarcerata, picchiata e detenuta in isolamento. Oggi racconteremo la storia di questa donna coraggiosa e vedremo insieme la situazione dei diritti umani in Iran.

I Diritti Umani in Iran

Atena Daemi è stata incarcerata per la sua lotta a favore dei diritti umani che in Iran, suo paese natale, spesso non vengono rispettati. Secondo il più recente rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani, il paese soffre di gravi discriminazioni di genere, una percentuale troppo elevata di detenzioni arbitrarie e problematiche relative all’applicazione della pena di morte. Vediamo nello specifico quali sono i problemi.

Per quanto riguarda la pena di morte e le detenzioni arbitrarie, nel paese sono state registrati numeri elevati di esecuzioni anche per crimini che non rientrano nelle categorie più gravi. Per categorie gravi la Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite intende solo quelli riguardanti omicidi intenzionali. Le esecuzioni sono state spesso il seguito di processi tenutisi in modo iniquo e con l’uso della tortura al fine di estrarre una confessione fittizia: in particolare per circostanze con connessioni alle proteste antigovernative che hanno avuto luogo nel paese negli ultimi anni. Il caso più emblematico è quello di Navid Afkari che è stato segretamente giustiziato dopo aver partecipato nell’agosto 2008 a delle proteste nella città di Shiraz. Il relatore speciale delle Nazioni Unite inviato in Iran, si è detto preoccupato dal fatto che queste esecuzioni sembrano celare una volontà, da parte del governo, di reprimere il dissenso nel paese.

Il rapporto dell’ONU sottolinea l’elevato numero di esecuzioni ai danni di minorenni: tra il 1° gennaio e il 1° dicembre 2020 sono stati giustiziati 3 minorenni e più di 85 si trovano nel braccio della morte. In Iran il Codice penale prevede la pena di morte per le ragazze con più di 9 anni di età e per i ragazzi con più di 15 anni di età in caso di crimini quali l’omicidio e l’adulterio.

I diritti delle donne sono fortemente ostacolati non solo dalla legge ma anche dalle abitudini e dalle convenzioni sociali. Nonostante i diritti delle donne siano codificati negli articoli 20 e 21 della costituzione, vi è discriminazione sui diritti di matrimonio, divorzio e custodia parentale. Una donna iraniana non può sposarsi senza il permesso del padre o del nonno paterno se il matrimonio in questione è il primo. È illegale il matrimonio tra una donna musulmana e un uomo non musulmano e il matrimonio con un uomo di nazionalità non-iraniana deve ricevere il consenso del governo.

Le ragazze possono sposarsi legalmente fin dai 13 anni ma ci sono stati casi di bambine sposate anche in età più giovane con il consenso paterno e del giudice. Le donne sposate rimangono sotto l’autorità del marito che può proibire loro di lavorare, di avere un passaporto o di recarsi all’estero. Per quanto riguarda il divorzio, il marito ha diritto assoluto a richiedere il divorzio mentre la moglie può richiederlo sono in specifici casi.

Infine, la libertà di pensiero e di manifestazione è limitata nel paese. I difensori dei diritti umani e i loro avvocati vengono quotidianamente vessati. Tra i casi più famosi quello di Golrokh Iraee Ebrahimi e della stessa Atena Daemi. Arrestate entrambe per aver condannato le esecuzioni arbitrarie dei prigionieri politici e per aver cantato una canzone commemorativa, Iraee fu rilasciata nell’aprile 2019 mentre Daemi resta in carcere. Oltre agli arresti vi è anche un dilagante fenomeno di intimidazione dei famigliari degli arrestati.

L’uso eccessivo della forza e le interruzioni delle telecomunicazioni durante le manifestazioni è prassi comune. Il relatore speciale ONU riporta uno shutdown di internet senza precedenti, richiesto dal governo durante le manifestazioni del novembre 2019. In generale il governo continua a censurare i siti internet e le piattaforme di social media. Telegram, Twitter, Facebook e YouTube sono state bloccate in modo permanente e risultano attualmente inaccessibili.

La storia di Atena Daemi

Atena Daemi si è battuta con coraggio contro le sopramenzionate infrazioni dei diritti umani, e soprattutto contro la pena di morte, le detenzioni arbitrari e per i diritti delle donne e dei bambini. Fu arrestata il 21 ottobre 2014 e dopo 86 giorni di interrogatori fu condannata a 14 anni di reclusione per i reati di: “propaganda contro il sistema”, “adunata sediziosa e collusione contro la sicurezza nazionale”, “blasfemia e offesa al Capo Supremo” e “occultamento di prove”. Durante il processo furono usate come prove i suoi post su Facebook in cui si batteva contro la pena di morte. Il 28 settembre 2016, dopo essere stata rilasciata su cauzione, vede la sua pena ridotta a 7 anni. Viene nuovamente arrestata il 28 novembre 2016 e dopo aver presentato una denuncia contro il “Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica” (IRGC) per uso eccessivo della forza, viene processata il 19 dicembre 2016 con le accuse di: “insulto contro il leader supremo e gli ufficiali di stato”,” “propaganda contro il sistema” e “resistenza all’arresto”. Viene condannata e le vengono aggiunti 3 mesi e un giorno alla sua pena di 7 anni. Alla medesima pena vengono condannate anche le sue sorelle, Ensieh e Hanieh, che vengono però assolte 54 giorni dopo. Il 21 dicembre 2019 Daemi e altri carcerati organizzano un sit-in come protesta contro le repressioni e la risposta dello stato contro le manifestazioni del novembre 2019. In seguito a questo evento fu trasferita in isolamento il 28 dicembre 2019 e vi rimase fino al 8 gennaio 2020. Inoltre, fu condannata a 2 ulteriori anni di prigione e 74 frustrate. Oltre alla solita accusa di “propaganda contro il sistema” fu accusata di “interruzione dell’ordine carcerario” per aver ballato e festeggiato durante la festa di Ashoora. Daemi si è rifiutata di andare al processo dichiarando che tali accuse sono infondate e basate su bugie.

Le condizioni di salute di Atena Daemi durante la sua permanenza in carcere sono peggiorate notevolmente. Dopo lo sciopero della fame di 55 giorni che ha fatto nel 2017 per protestare contro le condanne ricevuta da lei e dalle sue sorelle, ha cominciato a tossire sangue e ad avere problemi di perdita di peso, nausea, vomito e dolore ai reni.  Amnesty International in quell’occasione chiese che venisse trasferita in ospedale e i medici stessi dichiararono che era necessario un ricovero immediato. Nonostante ciò, il trasferimento in ospedale le fu negato dalle autorità della prigione. La salute di Daemi si è aggravata ulteriormente dopo il secondo sciopero della fame, portato avanti per 22 giorni nel 2018 per protestare contro il suo trasferimento nella prigione di Shahr-e Rey. La situazione si è aggravata talmente tanto che è intervenuto anche il presidente della sottocommissione per i diritti umani del Parlamento Europeo, Pier Antonio Panzieri, il quale si è detto allarmato dalla crudeltà con cui veniva trattata Daemi e ha chiesto alle autorità iraniane di prendere provvedimenti in merito. Ad oggi si sa che Atena Daemi potrebbe soffrire della patologia della sclerosi multipla ma nonostante sia stato dichiarato da un medico della prigione di Gharchak che la donna ha un immediato bisogno di una risonanza magnetica e della visita di uno specialista, tali provvedimenti non sono stati ancora presi. È noto purtroppo che una delle tecniche di intimidazione contro i prigionieri usata in Iran è proprio la negazione delle cure mediche.

Noi di Large Movements teniamo sotto osservazione la situazione di Atena Daemi e crediamo sia importante che si abbia conoscenza della sua storia e della sua attuale condizione. I Diritti Umani sono essenziali per la vita di ogni essere umano e il loro rispetto dovrebbe essere fondamento di ogni azione di governo. Atena Daemi ha lottato per garantire a sé stessa e a tutto il popolo iraniano tali diritti e per questo, noi crediamo, che la sua storia vada raccontata.

Liberazione

Atena Daemi è tornata in libertà nella serata del 24 gennaio 2022. Lo riporta Amnesty International. Noi di Large Movements siamo molto felici di questi sviluppi positivi e auguriamo ad Atena Daemi tutto il meglio.

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Diritti politici in Egitto durante la presidenza di Al-Sisi

La presidenza di Al-Sisi, comincia dopo il golpe del 2013 ai danni del presidente Morsi, unico presidente eletto democraticamente nella storia del paese; fin da subito il governo di Al-Sisi si caratterizzò per un profondo e violento depauperamento dei diritti politici e sociali in Egitto. Fu immediatamente chiara la strategia con la quale Al-Sisi intendeva mantenere il potere in Egitto: soprusi, violenze ed omicidi sarebbero divenuti fatti all’ordine del giorno. Ciò che emerge con chiarezza infatti, è l’uso diffuso di varie forme di intimidazione volte a scoraggiare sia gli esponenti politici che i semplici giornalisti dal porre interrogativi sull’operato del governo e dei suoi rappresentanti. La polizia e l’esercito sovente impongono la volontà governativa attraverso varie forme di violenze, dalle intimidazioni e minacce a pestaggi, arresti arbitrari e purtroppo omicidi. Ogni persona, anche solo sospetta di volersi opporre al regime, è in pericolo. Lo scopo è palese: creare un clima politico e sociale di terrore, per impedire la formazione e la potenziale diffusione di qualsiasi forma di opposizione al regime. Il governo egiziano, quindi ritiene necessario utilizzare le forze armate come principale mezzo per il mantenimento del potere. Al centro della strategia politica di Al-Sisi vi è il rafforzamento delle strutture militari e della polizia così da creare un sistema clientelare e violento che ha definitivamente contribuito a consolidare il potere presidenziale. La polizia all’interno dell’apparato di potere egiziano ha un ruolo predominante, essendo lo strumento privilegiato – e perciò tutelato – con il quale il presidente impone le sue politiche alla popolazione e sopprime qualsiasi opposizione alla sua azione di governo.  La polizia gode di una quasi totale liberà nell’esercitare le sue funzioni, un’immunità di fondo che gli garantisce ampissimi margini di manovra per le operazioni che esegue, per sopprimere e disincentivare qualsiasi forma di contestazione al regime. (https://www.internazionale.it/notizie/blandine-lavignon/2020/04/22/egitto-ascesa-polizia). Lo strapotere che la polizia detiene all’interno della società si evince dalle numerose nomine dei suoi generali ai vertici dell’alta amministrazione egiziana, rendendo evidente come le violenze e le atrocità commesse da questa siano riconducibili direttamente ed inequivocabilmente alla volontà presidenziale. Anche l’esercito gode di ampi poteri discrezionali nella scelta del proprio modus operandi che gli garantisce un’importante e diffusa pressione sulla popolazione civile. Negli anni della sua presidenza, Al-Sisi ha posto al vertice dei ministeri, o in altre ruoli chiave, esponenti delle forze armate le quali hanno la funzione di fungere da contrappeso, agli occhi del presidente, allo strapotere della polizia. Di fatto questi due centri di potere devono essere bilanciati essendo potenzialmente in competizione fra loro. Proprio per rispettare questo bilanciamento di poteri dunque, il presidente elargisce favori e garanzie di immunità ad entrambi a discapito dei diritti politici della popolazione d’Egitto, che non può far altro che subirne le gravi e continue violenze. Nello specifico si pensi che il diritto di riunione e di libertà di espressione è profondamente limitato e la polizia fa rispettare queste limitazioni perpetrando arresti arbitrari e sottoponendo i prigionieri a tortura. Le autorità accusano gli oppositori politici di terrorismo, sottoponendoli a processi iniqui e arbitrari che si concludono spesso con la condanna alla detenzione in carceri mal tenuti e in cui vigono regole medievali. Il clima è ancor più esasperato da continui interventi presidenziali volti a modificare le discipline che regolano la magistratura ed i partiti politici. Dall’agosto del 2018 infatti, il governo può sciogliere arbitrariamente partiti indipendenti, impendendo così la costruzione di qualsiasi forma di opposizione legale al regime. Inoltre, di altrettanta gravità, è l’allargamento della giurisdizione dei tribunali militari divenuti – insieme ai neo-tribunali straordinari – il vero fulcro del potere giudiziario in Egitto. Detti tribunali sono caratterizzati da procedimenti sommari e gli esiti dei processi sono fortemente influenzati da pressioni governative che consentono di ammettere come valide le testimonianze rese sotto tortura e/o altra forma di pressione psicologica. Il quadro è ancor più drammatico con riferimento all’individuazione di potenziali oppositori politici: in questo caso, polizia ed esercito non sono sottoposte ad alcun tipo di limite o controllo in fase di identificazione di questi soggetti. Al contrario, il potere giudiziario asseconda questa assenza di disciplina chiara quando si tratta di individuare gli oppositori.  Ciò che stupisce dell’attuale situazione è che vi è stato un notevole indebolimento delle garanzie afferenti i diritti politici in Egitto. Seppur vero che nemmeno la presidenza di Mubarak si distinguesse particolarmente per la tutela e la salvaguardia dei diritti civili e politici in Egitto impossibile non notare come la degenerazione sia sempre più rapida. Si pensi in effetti che i principali agitatori della Rivoluzione egiziana del 2011, quella che portò alle dimissioni di Mubarak, furono i lavoratori, i quali,  stanchi delle pressioni dei capi sindacali, quasi tutti filo-governativi,  occuparono le piazze delle principali città egiziane (https://www.internazionale.it/notizie/blandine-lavignon/2020/04/22/egitto-ascesa-polizia ); ciò oggi sarebbe impensabile sia per un fondamentale disinteresse della classe politica rispetto alle istanze della popolazione e sia perché la polizia e i vari apparati governativi rendono impossibile qualsiasi forma di manifestazione del dissenso. L’attuale governo teme ogni tipo di rivendicazione di quelle forze che hanno permesso la fine del trentennale potere di Mubarak, ogni egiziano in questo senso è un potenziale oppositore.  A ben vedere non vi sono luoghi della democrazia che non siano stati compressi o del tutto eliminati da parte del governo tramite l’azione repressiva della polizia. Sono considerati “nemici della democrazia” tutti coloro che pongono domande o direttamente contestano l’operato del governo, come le ONG (https://espresso.repubblica.it/internazionale/2017/01/16/news/human-rights-watch-in-egitto-con-al-sisi-la-societa-civile-e-a-rischio-estinzione-1.293464 ) e i giornali indipendenti che, ad oggi, non esistono più; in tal senso è emblematica la vicenda dei giornalisti della redazione del giornale Mada Masr, (https://www.internazionale.it/bloc-notes/catherine-cornet/2019/11/26/egitto-raid-mada-masr ) che era l’unico giornale egiziano con cui si potevano reperire informazioni contro il governo, i quali sono stati in gran parte picchiati e arrestati. La questione sulla libertà di stampa appare ancor più preoccupante anche se si considera che ad oggi non vi sono giornali egiziani degni di questo nome dal momento che quelli rimasti intenti solo a fungere da megafono del governo. In Egitto infatti risulta difficilissimo svolgere la professione del giornalista, a meno che non si voglia

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Zainab Salbi per i diritti delle donne sopravvissute ai conflitti armati

La piccola Zainab è nata in Iraq, e sin dalla sua nascita la sua vista è stata colpita dall’esperienza della guerra. La famiglia di Zainab era una delle più protette del paese, infatti suo padre era uno dei migliori piloti dello stato, impiegato della compagnia Boeing, mentre sua madre era un’insegnante. In compenso, nonostante l’agio in cui la sua famiglia si trovava, con la salita al potere di Saddam Hussein iniziarono a subire pesanti abusi psicologici da parte di quest’ultimo. Infatti, se la maggior parte della popolazione irachena subì violenze sia fisiche che psicologiche, alla sua famiglia furono “risparmiate” solamente quelle fisiche. D’altronde, al fine di consolidare il proprio potere, il dittatore doveva attorniarsi dell’élite di Baghdad. L’accordo fu che il padre divenne il pilota personale di Hussein in cambio della non-deportazione della moglie – di lontane origini iraniane. La famiglia di Zainab decise, quindi, di “salvare la propria figlia” tramite un matrimonio combinato con un americano iracheno molto più anziano rispetto a lei, che all’epoca aveva solo 19 anni, e che la portò a vivere negli Stati Uniti. Il matrimonio si rilevò subito violento, e solamente dopo tre mesi Zainab riuscì a scappare dalla casa del marito. Nel frattempo, anche se Zainab ha sempre voluto tornare in Iraq, a causa della Guerra del Golfo che scoppiò qualche mese dopo il suo arrivo in America nel 1990, non riuscì mai a ritornarci. L’esperienza di Zainab con la guerra l’ha sensibilizzata alla difficile situazione delle donne in guerra. Infatti, quando seppe della guerra in Bosnia, pochi anni dopo il suo arrivo negli Stati Uniti, decise – a soli 23 anni – di agire fondando Women for Women International con il suo secondo marito Amjad Atallah, dedicando, dunque, la sua vita al servizio delle donne sopravvissute alle guerre. Il gruppo iniziò assistendo 33 donne croate e bosniache nel 1993. La missione stessa dell’organizzazione è quella di offrire supporto alle donne sopravvissute alla guerra ed ai suoi postumi. Il fine ultimo è quello di includere le sopravvissute nella ricostruzione della comunità e di tutta la società stessa. Infatti, secondo Zainab, alla fine di un conflitto è proprio dalle donne che bisogna ripartire in quanto esse sono coloro che provvedono al sostentamento della famiglia e della comunità, ricostruendo in questa maniera, lo strappato tessuto sociale. Sotto la sua leadership, dal 1993 al 2004, l’organizzazione umanitaria Women for Women International è riuscita ad aiutare più di 478.000 donne in 8 conflitti avvenuti intorno al mondo, distribuendo oltre 120 milioni di dollari in aiuti diretti e microcrediti, che hanno avuto un impatto su più di 1.7 milioni di famiglie. Zainab è sempre stata risoluta nel sostenere l’idea che l’accesso all’istruzione ed alle risorse porta ad un cambiamento duraturo nella vita delle donne. Zainab, inoltre, ha scritto e parlato estensivamente sull’uso dello stupro e di altre forme di violenza contro le donne durante la guerra. Il suo lavoro è infatti stato presentato nei principali media. Inoltre, il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, ha onorato Zainab alla Casa Bianca per il suo lavoro umanitario in Bosnia. Zainab è stata anche identificata come una delle 100 donne più influenti al mondo in vari testate giornalistiche come il Times e il The Guardian. Dopo 20 anni di lavoro con donne sopravvissute alla guerra – dalla Repubblica Democratica del Cogno fin all’Afghanistan – Zainab è arrivata a realizzare che la ricetta segreta per il cambiamento nella vita delle donne è l’ispirazione. Infatti, nel 2011 ha annunciato le sue dimissioni dal ruolo ricoperto in Women for Women International per esplorare il “mondo dell’ispirazione” nei media. Zainab inoltre siede nel Consiglio di Amministrazione di Synergos e dell’International Refugee Assistance Project (IRAP). Nel 2015, Zainab ha inoltre lanciato un talk show rivoluzionario con TLC Arabia chiamato “The Nidaa Show”, che è andato in onda in oltre 22 paesi del mondo arabo. La novità di tale show, infatti, è stata che quest’ultimo è stato dedicato al riconoscimento delle donne arabe e mussulmane, alle loro storie, le loro sfide e i loro traguardi raggiunti ed è iniziato per la prima volta con una storica intervista ad Oprah Winfrey. Il talk show ha raggiunto picchi così importanti che Zainab è stata insignita di tantissimi premi ad esso connessi, incluso la nomina come prima Donna Araba più Influente dall’ Arabian Business. Zainab si è inoltre laureata alla George Mason University con una Laurea Triennale in Studi Individualizzati in Sociologia ed in studi di genere, ed un master alla London School of Economics con un master in Studi sullo Sviluppo. Zainab, infine, è l’autrice di vari libri, fra cui il bestseller “Una donna tra due mondi: la mia vita all’ombra di Saddam Hussein”. Noi di Large Movements condividiamo il pensiero di Zainab e riteniamo importante condividere con voi la sua storia perché ci battiamo ogni giorno affinché il ruolo delle donne nel dibattito migratorio venga valorizzato, specialmente durante i conflitti. È infatti fondamentale non idealizzare le donne sopravvissute ai conflitti, vittimizzandole, privandole così della possibilità di partecipare attivamente al dibattito. Al contrario, è necessario ripartire proprio dalle donne, garantendogli una voce nonché un posto ai tavoli decisionali al fine di garantire la loro emancipazione e di renderle artefici della ricostruzione del tessuto sociale di appartenenza. “We have to wake up and we have to roar and we have to stand up. That’s not an activist’ job. That’s every woman’s job.” “Dobbiamo svegliarci, dobbiamo ruggire, dobbiamo rialzarci. Questo non è un lavoro da attivista. Questo è il lavoro di ogni donna.” – Zainab Salbi Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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Siria-accoglienza

Storia di un giovane siriano con un “cuore di pietra”

Le coste calabre continuano ad essere tra i maggiori punti di arrivo di immigrazione, motivo per cui negli ultimi anni il territorio accoglie nuove strutture per i richiedenti asilo. Tra questi, la cooperativa Jungi Mundu di Camini, dal 2000, è diventato uno SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Lo scorso agosto mi trovavo a Camini, comune di poco più di 600abitanti in provincia di Reggio Calabria, a pochi km dall’ormai nota Riace. Qui, Amnesty International già da qualche anno, organizza dei laboratori di formazione estivi per approfondire le tematiche di immigrazione e diritti di accoglienza. Appena scesa dal regionale, dopo 7 ore di viaggio e qualche grado in più intorno a me, ho subito capito che Camini non poteva che essere il luogo migliore dove parlare di immigrazione ed accoglienza. Una terra apparentemente abbandonata a sé stessa, dove l’edilizia moderna e la frenesia quotidiana sembrano appartenere ad un’altra dimensione. Una piazza. Un bar con qualche tavolino in legno, dei divanetti ed uno schermo con le partite di calcio del giorno. Cittadini dalla pelle bianca, cittadini dalla pelle nera. Anziani, giovani e bambini. Questo è lo scenario che mi trovavo davanti. Uno scenario che sembrava apparentemente normale. Eppure, nell’aria c’era qualcosa di speciale. La prima sera già mi era tutto più chiaro. Quella piazza, quel bar e quei cittadini facevano parte di un’enorme famiglia, in una piazza che riuniva più storie di vita, una diversa dall’altra. Una famiglia in cui i richiedenti asilo, per lo più provenienti dalla Siria, ed i caminesi erano entrati in perfetta armonia. Un’armonia fatta di impegno quotidiano, sacrifici e voglia di ricominciare dopo un vero e proprio viaggio della speranza, con alle spalle una vita di guerra ed ingiustizia. A “campo di accoglienza” spesso si associa l’immagine di un grande campo sperduto nel nulla con qualche baracca e sistemazione fatiscente. Di situazioni così purtroppo ne esistono ancora troppe ma questa volta vi voglio parlare di un’Italia che accoglie ed è sinonimo di rinascita e speranza per coloro che vi arrivano. Camini infatti è una vera eccezione e l’Italia è colma di borghi che hanno fatto dell’accoglienza la loro forza, dando ai rifugiati una “nuova” vita e dove loro stessi hanno ridato vita a delle realtà in cui l’unica cosa a regnare era diventata la desolazione. Erano circa le 9 di mattina quando M. decise di accompagnare me e le altre ragazze del gruppo a riempire le nostre borracce alla piccola sorgente di Camini. M. in mezzo a noi, seppure più piccolo di quasi 10 anni, sembrava già un uomo, pronto a farci scoprire la sua realtà, raccontandoci con cura la storia del paesaggio che ci circondava. Ritornando verso la piazza, ci ritrovammo lui ed io da soli. La voglia di condividere la sua storia e la sua “non infanzia” come lui stesso l’ha chiamata, trapelava da ogni poro della sua pelle. “Non smettere mai di inseguire i tuoi sogni”, mi dice M. Sono state queste parole, accompagnate da uno sguardo che non potrò mai più scordare, che mi hanno spinto a dare voce ad una storia fatta di guerra, dolore, odio ma che M. è riuscito a trasformare in una storia di vita, speranza e determinazione. M. viene dalla Siria, terra da sempre contesa fra i paesi limitrofi, e non solo. Terra la cui ricchezza delle materie prime è diventata responsabile di migliaia di vite che, in cerca di un futuro dignitoso, si imbattono in viaggi la cui destinazione e la certezza di arrivarvi sono in mano ad un destino…ancora troppo clandestino. M. arriva a Camini a giugno di 4 anni fa, quando aveva appena 9 anni, con la sua famiglia: cinque fratelli ed una sorellina che però non ce l’ha fatta di fronte ai raggi x di un’ecografia. Ora frequenta la II media, a Riace Marina, e descrive la scuola come un luogo in cui molti studenti prendono in giro i ragazzi stranieri. “Io ho tantissima forza ma non voglio usarla” inizia M. Era abituato in Siria dove tutti giravano armati e che anche per un minimo scherzo ci si poteva “rimettere la pelle”. A Camini ha trovato nuovi amici ma la sua esperienza lo ha fatto crescere con una rapidità tale che non si trova a suo agio con i bambini della sua età. Pur di non pensare e rivivere i fantasmi che sono in lui, esce comunque con i suoi coetanei per svagarsi un po’. M. poco prima dell’estate ha conosciuto un ragazzo più grande, di 25 anni e con lui riesce a parlare di “cose da adulti”. “Lui mi ha insegnato che non devo avere paura”. “Com’era vivere in Siria? Ci pensi spesso?” “Come potrei non ripensarci, ho visto tante di quelle cose che nessun bambino si può immaginare e non auguro a nessuno di vivere ciò che ho vissuto io”. Si ricorda tutto M. Mi racconta ad esempio quella volta che era uscito con il papà, aveva forse 4 anni ma aveva già una forza innaturale. C’era la guerra fuori e M. si ricorda la grotta in cui si erano nascosti. L’unica arma che possedevano erano il coraggio e la forza di sopravvivere. Il papà aveva studiato le tattiche ed i tempi di reazione delle varie armi da fuoco e quindi anche quella voltai due si erano riusciti a salvare, nonostante la loro testa fosse al centro di un mirino. La guerra persisteva, giorno e notte, anche nei momenti più inaspettati. M. si è visto più volte i proiettili sfiorargli il corpo. Un giorno ad esempio stava aggiustando l’antenna con il papà, la cui maglietta si ruppe proprio per un proiettile che gli era caduto a fianco, o quando il fratello stava pranzando fuori dal balcone di casa e si è visto cadere una bomba di fronte. M. si definisce forte, anche solo rispetto ad i suoi fratelli. Uno ha sofferto di crisi per tanto tempo, perché “certe immagini oltre a bombardarti dal vivo ti bombardano anche la testa”. Ammette che ha ancora bisogno della famiglia ma

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Il progetto GAP. L’acqua, strumento di sviluppo o di forza?

L’acqua è indispensabile per la sopravvivenza e per lo sviluppo dell’essere umano. Sebbene la maggior parte della superficie del pianeta sia ricoperta da acque, solo l’1% di queste è fruibile all’uomo. Questa piccola percentuale basterebbe a soddisfare il fabbisogno mondiale se non fosse per la sua diseguale distribuzione. La cattiva gestione della risorsa, unita ad un insieme di altre variabili, sta portando ad una serie di problemi ambientali (carestie, siccità, desertificazioni, innalzamento delle temperature) e non, con ripercussioni sulle migrazioni e sul sottosviluppo.  Molte delle fonti d’acqua disponibili al mondo sono condivise tra vari paesi e questo conduce molto spesso all’esacerbarsi di tensioni ed a scontri diplomatico-politici. A tutto ciò si aggiunge anche il vertiginoso aumento del consumo di acqua dovuto alla crescita della popolazione mondiale ed al conseguente maggiore utilizzo in settori come quello domestico, agricolo, industriale ed energetico.  Secondo il report FAO The State of Food and Agriculture 2020, la quantità annuale di risorse di acqua dolce disponibili pro-capite è diminuita di oltre il 20% negli ultimi due decenni, fino ad arrivare anche al 30% in alcune aree. Le risorse idriche sono sempre più sotto pressione in tutto il mondo e la necessità di una gestione sostenibile che ne assicuri la disponibilità alle generazioni future non è mai stata così impellente. L’acqua sembrerebbe perciò destinata a divenire secondo molti un motivo di conflitto più importante del petrolio. Le guerre e le ripercussioni legate all’oro nero non sono nuove – il mondo è stato più volte scosso da motivazioni connesse allo sfruttamento di detta risorsa energetica – ma i conflitti legati alla gestione di risorse d’acqua, per quanto potrebbero essere percepiti come ancora lontani, sono più attuali che mai. L’acqua, oltre ad essere fondamentale per la sopravvivenza ed il benessere dell’essere umano, è anche funzionale allo sviluppo socioeconomico degli Stati ed è per questo che l’accesso alle risorse idriche è divenuto fondamentale. Ed è soprattutto in un’area come quella del Medio Oriente – dove la disponibilità e l’accesso a fonti di acqua è limitata – che il controllo delle risorse idriche sta divenendo un’arma geopolitica molto importante sullo scacchiere delle potenze, come il caso del Tigri e dell’Eufrate ci dimostra. Il Tigri, l’Eufrate e il progetto GAP La Mesopotamia ha favorito per millenni lo sviluppo di civiltà grazie alla fertilità donata dall’inondazione dei fiumi Tigri ed Eufrate e dalle opere di irrigazione create dall’uomo. Entrambi i fiumi si originano nei territori dell’attuale Turchia, proseguono in Siria per poi congiungersi in Iraq e sfociare nel Golfo Persico. Essi costituiscono un’importante risorsa d’acqua per tutti i paesi rivieraschi che attraversano: di fatto, molti grandi interventi sono stati realizzati per il loro utilizzo strategico, soprattutto negli ultimi anni.  In questo quadro si inserisce l’enorme progetto turco nel sud-est dell’Anatolia, il GAP (Güneydoğu Anadolu Projesi). Questo progetto prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche per la riqualificazione di un territorio caratterizzato da: rigide condizioni territoriali e climatiche, risorse idriche mal distribuite, terre aride, insufficienti servizi sociali, bassi livelli di reddito pro capite e modelli di migrazione “inusuali”.  La Turchia negli ultimi decenni è stata interessata da un forte sviluppo economico e sociale che ha generato un incremento del benessere della sua popolazione e, conseguentemente, del fabbisogno di energia.  È sorto così il progetto del GAP che, da un lato, doveva rispondere alla rapida crescita economica e demografica dell’intero paese e, dall’altro, doveva migliorare gli standard socioeconomici della regione interessata dalla sua presenza, attraverso la riduzione delle disparità e delle disuguaglianze con le altre regioni della Turchia.  Il GAP, quindi, potrebbe portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e del benessere dell’area e ad una maggiore efficienza in termini di produzione energetica prodotta a basso costo ed a basse emissioni. A tutti questi benefici per il territorio e per la popolazione turca, tuttavia, si aggiunge una serie di risvolti sociali, politici, ambientali e culturali negativi. Il GAP come motivo di tensione tra Stati Lo sfruttamento dei due fiumi ha portato negli anni ad una serie di problematiche politiche e diplomatiche tra la Turchia e gli altri due paesi rivieraschi, Siria ed Iraq.  Fino agli anni ’60, le relazioni tra i paesi non erano influenzate da tensioni legate all’utilizzo delle acque, poiché le dimensioni dei progetti sviluppati sui due fiumi erano contenute e non prevedevano un utilizzo intensivo della risorsa idrica. Le tensioni si inasprirono quando iniziarono i primi passi concreti verso la realizzazione di vari progetti idroelettrici in tutti e tre i paesi, come la costruzione della diga di Keban in Turchia, la diga di Tabqa in Siria – che con il riempimento del bacino del lago di Assad ha scatenato la collera dell’Iraq – ed il lancio ufficiale del GAP negli anni ’70, che vide l’inaugurazione della prima diga, Karakaya, alla fine degli anni ’80. Venne, dunque, creato un Comitato Tecnico Congiunto (JTC) per cercare di raggiungere un accordo per uno sfruttamento bilanciato di entrambi i fiumi tra i tre paesi. Inizialmente, al Comitato parteciparono solo Turchia e Iraq. La Siria si aggiunse solo in seguito, ma il lavoro del JTC non portò mai ad un risultato concreto.  Il primo accordo si ottenne solo a livello bilaterale nel 1987 tra Turchia e Siria, stabilendo un rilascio medio annuo di 16 miliardi di metri cubi di acqua alla Siria con una portata minima annua media di 500 m3/s. A questo seguirono una serie di altri accordi, tra i quali quello del 1990 tra Siria e Iraq nel quale i due paesi concordarono di ricevere rispettivamente il 42% e il 58% del flusso dell’Eufrate al confine turco-siriano. Il completamento della diga di Atatürk nel 1990, fiore all’occhiello dell’intero progetto GAP nonché una delle dighe più grandi al mondo, fece riemergere diverse tensioni tra i paesi. La Turchia, infatti, per riempire il bacino della diga deviò l’Eufrate per circa un mese, causando una notevole riduzione della quantità ed il peggioramento della qualità dell’acqua diretta verso la Siria e l’Iraq. A seguito dell’episodio, vennero inviate invano note minacciose alla Turchia per richiedere lo stop alla costruzione di altre dighe previste sul corso dei due fiumi, come quelle

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Tawakkul Karman : una Yemenita per i diritti delle donne

Tawakkul Karman è una attivista yemenita che ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 2011, insieme alle attiviste liberiane Ellen Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee, per aver condotto campagne non violente a favore dei diritti delle donne e delle libertà democratiche. È stata la prima yemenita, la prima donna araba e la seconda donna musulmana a vincere il Nobel, e, a 32 anni, la più giovane vincitrice del Premio della pace dell’epoca. In questo articolo ripercorriamo i punti salienti della biografia di Tawakkul Karman. Tawakkul Karman e la primavera araba in Yemen Nel 2011 era in prima linea e, nell’ambito degli incontri a cui viene invitata in giro per il mondo, ha sempre dichiarato che “a fare la rivoluzione in Yemen sono stati i giovani e le donne”. In quel periodo i dati restituivano una realtà in cui ad essere imprigionati erano per lo più le donne Yemenite. La stessa Karman era stata arrestata nel gennaio 2011 per poi essere liberata in seguito alle pressioni dei suoi sostenitori. In questo modo è diventata una delle leader più carismatiche della protesta femminile contro la discriminazione e in favore dei diritti umani. Di conseguenza ha sfidato gli standard di comportamento femminile accettabile in un paese musulmano e conservatore, chiedendo la fine di un regime che credeva avesse privato i giovani della sua nazione e del suo futuro. Essendo madre di due figlie e di un figlio, voleva assicurarsi che le voci femminili giocassero un ruolo fondamentale nella rivoluzione di cui il suo Paese aveva tanto bisogno. Tawakkul, in veste di protagonista degli eventi, racconta che la primavera araba non è stata un capriccio o una cospirazione. La primavera araba è stata l’espressione di attivisti per i diritti umani ed è stato il desiderio di giustizia in risposta a repressione, fame e povertà. È stata una risposta nel segno della democrazia e dello stato di diritto. Lo scopo della primavera araba era quello di porre fine al dispotismo senza fine e porre un nuovo inizio nel nome dei diritti umani. Era la speranza per una patria e per una casa in cui ognuno potesse avere il suo posto e portare avanti i propri sogni. Era la lotta dei giovani contro la corruzione. Ma cosa è successo? I vecchi regimi hanno portato avanti una controrivoluzione con alleanze regionale e internazionali che, Tawakkul sottolinea, hanno trasformato i paesi della primavera araba in “laghi di sangue e carceri”. L’attività politica prima delle proteste del 2011 Karman è nata in una famiglia politicamente attiva a Ta’izz. Quando era giovane, la sua famiglia si è trasferita a Sanaa, dove suo padre, ʿAbd al-Salām Karmān, avvocato, ha servito come ministro degli affari legali prima di dimettersi nel 1994 per la guerra del governo contro i secessionisti nel sud dello Yemen. La stessa Tawakkul nello Yemen era una esponente del partito islamico Al Islah (aspetto della biografia che ha sollevato dubbi sulla figura di Tawakkul Karman da parte degli Stati Uniti al momento della nomina al Nobel), che rappresentava il primo gruppo di opposizione e protagonista delle primavere arabe nel paese. Sebbene Karmān fosse un membro anziano del partito, si è scontrata occasionalmente con i conservatori religiosi. Nel 2010, per esempio, ha criticato i membri del suo stesso partito per essersi opposti alla legislazione che innalzava l’età legale del matrimonio per le donne a 17 anni. Tale legislazione cercava di porre un limite alla questione delle spose bambina nello Yemen. Parallelamente portava avanti la carriera nel giornalismo scrivendo articoli, producendo film documentari e diffondendo avvisi e notizie via SMS. L’associazione Women Journalists Without Chains D’altra parte l’attività di Tawakkul iniziò nel 2005 quando fondò Women Journalists Without Chains , per difendere i diritti delle donne, i diritti civili e la libertà di espressione. L’associazione fu fondata non appena incontrò restrizioni e minacce da parte del governo Yemenita. Women Journalist Without Chains ha promosso anche l’utilizzo di diversi mezzi di comunicazione per promuovere l’istruzione, la cultura, il pensiero e lo sviluppo della comunità. In primo luogo l’associazione si è occupata dei diritti delle donne e della discriminazione femminile, dei dritti dei bambini, ha promosso i principi di buon governo e la lotta alla corruzione. Dal 2007 al 2010 Karman ha organizzato dei sit-in settimanali in piazza della Libertà nella capitale yemenita di Sana’a per chiedere una serie di riforme democratiche. La sua leadership in questi sit-in che durarono diversi mesi le valsero il soprannome di “Madre della Rivoluzione”. Ciò fu dovuto anche alla sua insistenza sul dialogo pacifico di fronte alle raffiche di gas lacrimogeni, alle incursioni della polizia e a un brutale massacro. Pertanto, anche a causa della popolarità che stava assumendo nel proprio paese, Karman ha ricevuto per telefono e per posta delle minacce. In aggiunta ha subito anche tentativi di corruzione da parte delle autorità yemenite per aver denunciato il divieto, da parte del ministero dell’Informazione, di creare un nuovo giornale e una radio. Dalla biografia di Tawakkul Karman abbiamo visto la lotta per i diritti delle donne nello Yemen ma occorre precisare che è stata costretta a lasciare il paese anche a seguito dell’aggravarsi del conflitto. Da allora partecipa a numerose iniziative internazionali, anche nell’ambito delle nazioni unite, per la promozione dei diritti delle donne nel mondo. Tawakkul Karman è una di quelle donne che hanno osato portare in primo piano la parità di genere e altre questioni in un mondo ancora troppo conservatore. Tawakkul è una donna che lotta per il superamento dell’oppressione, contro la violazione delle regole in nome della rivisitazione del mondo e di una ribellione per tutti. Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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