Zainab Salbi per i diritti delle donne sopravvissute ai conflitti armati

La piccola Zainab è nata in Iraq, e sin dalla sua nascita la sua vista è stata colpita dall’esperienza della guerra. La famiglia di Zainab era una delle più protette del paese, infatti suo padre era uno dei migliori piloti dello stato, impiegato della compagnia Boeing, mentre sua madre era un’insegnante. In compenso, nonostante l’agio in cui la sua famiglia si trovava, con la salita al potere di Saddam Hussein iniziarono a subire pesanti abusi psicologici da parte di quest’ultimo. Infatti, se la maggior parte della popolazione irachena subì violenze sia fisiche che psicologiche, alla sua famiglia furono “risparmiate” solamente quelle fisiche. D’altronde, al fine di consolidare il proprio potere, il dittatore doveva attorniarsi dell’élite di Baghdad. L’accordo fu che il padre divenne il pilota personale di Hussein in cambio della non-deportazione della moglie – di lontane origini iraniane.

La famiglia di Zainab decise, quindi, di “salvare la propria figlia” tramite un matrimonio combinato con un americano iracheno molto più anziano rispetto a lei, che all’epoca aveva solo 19 anni, e che la portò a vivere negli Stati Uniti.

Il matrimonio si rilevò subito violento, e solamente dopo tre mesi Zainab riuscì a scappare dalla casa del marito. Nel frattempo, anche se Zainab ha sempre voluto tornare in Iraq, a causa della Guerra del Golfo che scoppiò qualche mese dopo il suo arrivo in America nel 1990, non riuscì mai a ritornarci.

L’esperienza di Zainab con la guerra l’ha sensibilizzata alla difficile situazione delle donne in guerra. Infatti, quando seppe della guerra in Bosnia, pochi anni dopo il suo arrivo negli Stati Uniti, decise – a soli 23 anni – di agire fondando Women for Women International con il suo secondo marito Amjad Atallah, dedicando, dunque, la sua vita al servizio delle donne sopravvissute alle guerre. Il gruppo iniziò assistendo 33 donne croate e bosniache nel 1993.

La missione stessa dell’organizzazione è quella di offrire supporto alle donne sopravvissute alla guerra ed ai suoi postumi. Il fine ultimo è quello di includere le sopravvissute nella ricostruzione della comunità e di tutta la società stessa. Infatti, secondo Zainab, alla fine di un conflitto è proprio dalle donne che bisogna ripartire in quanto esse sono coloro che provvedono al sostentamento della famiglia e della comunità, ricostruendo in questa maniera, lo strappato tessuto sociale.

Sotto la sua leadership, dal 1993 al 2004, l’organizzazione umanitaria Women for Women International è riuscita ad aiutare più di 478.000 donne in 8 conflitti avvenuti intorno al mondo, distribuendo oltre 120 milioni di dollari in aiuti diretti e microcrediti, che hanno avuto un impatto su più di 1.7 milioni di famiglie. Zainab è sempre stata risoluta nel sostenere l’idea che l’accesso all’istruzione ed alle risorse porta ad un cambiamento duraturo nella vita delle donne.

Zainab, inoltre, ha scritto e parlato estensivamente sull’uso dello stupro e di altre forme di violenza contro le donne durante la guerra. Il suo lavoro è infatti stato presentato nei principali media. Inoltre, il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, ha onorato Zainab alla Casa Bianca per il suo lavoro umanitario in Bosnia. Zainab è stata anche identificata come una delle 100 donne più influenti al mondo in vari testate giornalistiche come il Times e il The Guardian.

Dopo 20 anni di lavoro con donne sopravvissute alla guerra – dalla Repubblica Democratica del Cogno fin all’Afghanistan – Zainab è arrivata a realizzare che la ricetta segreta per il cambiamento nella vita delle donne è l’ispirazione. Infatti, nel 2011 ha annunciato le sue dimissioni dal ruolo ricoperto in Women for Women International per esplorare il “mondo dell’ispirazione” nei media.

Zainab inoltre siede nel Consiglio di Amministrazione di Synergos e dell’International Refugee Assistance Project (IRAP).

Nel 2015, Zainab ha inoltre lanciato un talk show rivoluzionario con TLC Arabia chiamato “The Nidaa Show”, che è andato in onda in oltre 22 paesi del mondo arabo. La novità di tale show, infatti, è stata che quest’ultimo è stato dedicato al riconoscimento delle donne arabe e mussulmane, alle loro storie, le loro sfide e i loro traguardi raggiunti ed è iniziato per la prima volta con una storica intervista ad Oprah Winfrey. Il talk show ha raggiunto picchi così importanti che Zainab è stata insignita di tantissimi premi ad esso connessi, incluso la nomina come prima Donna Araba più Influente dall’ Arabian Business. Zainab si è inoltre laureata alla George Mason University con una Laurea Triennale in Studi Individualizzati in Sociologia ed in studi di genere, ed un master alla London School of Economics con un master in Studi sullo Sviluppo.

Zainab, infine, è l’autrice di vari libri, fra cui il bestseller “Una donna tra due mondi: la mia vita all’ombra di Saddam Hussein”.

Noi di Large Movements condividiamo il pensiero di Zainab e riteniamo importante condividere con voi la sua storia perché ci battiamo ogni giorno affinché il ruolo delle donne nel dibattito migratorio venga valorizzato, specialmente durante i conflitti. È infatti fondamentale non idealizzare le donne sopravvissute ai conflitti, vittimizzandole, privandole così della possibilità di partecipare attivamente al dibattito. Al contrario, è necessario ripartire proprio dalle donne, garantendogli una voce nonché un posto ai tavoli decisionali al fine di garantire la loro emancipazione e di renderle artefici della ricostruzione del tessuto sociale di appartenenza.

We have to wake up and we have to roar and we have to stand up. That’s not an activist’ job. That’s every woman’s job.”

Dobbiamo svegliarci, dobbiamo ruggire, dobbiamo rialzarci. Questo non è un lavoro da attivista. Questo è il lavoro di ogni donna.” – Zainab Salbi

Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

Avatar photo

Conoscere è resistere!

Condividi questo articolo e aiutaci a diffondere i nostri contenuti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Puoi continuare ad approfondire attraverso i nostri articoli:

Il progetto GAP. L’acqua, strumento di sviluppo o di forza?

L’acqua è indispensabile per la sopravvivenza e per lo sviluppo dell’essere umano. Sebbene la maggior parte della superficie del pianeta sia ricoperta da acque, solo l’1% di queste è fruibile all’uomo. Questa piccola percentuale basterebbe a soddisfare il fabbisogno mondiale se non fosse per la sua diseguale distribuzione. La cattiva gestione della risorsa, unita ad un insieme di altre variabili, sta portando ad una serie di problemi ambientali (carestie, siccità, desertificazioni, innalzamento delle temperature) e non, con ripercussioni sulle migrazioni e sul sottosviluppo.  Molte delle fonti d’acqua disponibili al mondo sono condivise tra vari paesi e questo conduce molto spesso all’esacerbarsi di tensioni ed a scontri diplomatico-politici. A tutto ciò si aggiunge anche il vertiginoso aumento del consumo di acqua dovuto alla crescita della popolazione mondiale ed al conseguente maggiore utilizzo in settori come quello domestico, agricolo, industriale ed energetico.  Secondo il report FAO The State of Food and Agriculture 2020, la quantità annuale di risorse di acqua dolce disponibili pro-capite è diminuita di oltre il 20% negli ultimi due decenni, fino ad arrivare anche al 30% in alcune aree. Le risorse idriche sono sempre più sotto pressione in tutto il mondo e la necessità di una gestione sostenibile che ne assicuri la disponibilità alle generazioni future non è mai stata così impellente. L’acqua sembrerebbe perciò destinata a divenire secondo molti un motivo di conflitto più importante del petrolio. Le guerre e le ripercussioni legate all’oro nero non sono nuove – il mondo è stato più volte scosso da motivazioni connesse allo sfruttamento di detta risorsa energetica – ma i conflitti legati alla gestione di risorse d’acqua, per quanto potrebbero essere percepiti come ancora lontani, sono più attuali che mai. L’acqua, oltre ad essere fondamentale per la sopravvivenza ed il benessere dell’essere umano, è anche funzionale allo sviluppo socioeconomico degli Stati ed è per questo che l’accesso alle risorse idriche è divenuto fondamentale. Ed è soprattutto in un’area come quella del Medio Oriente – dove la disponibilità e l’accesso a fonti di acqua è limitata – che il controllo delle risorse idriche sta divenendo un’arma geopolitica molto importante sullo scacchiere delle potenze, come il caso del Tigri e dell’Eufrate ci dimostra. Il Tigri, l’Eufrate e il progetto GAP La Mesopotamia ha favorito per millenni lo sviluppo di civiltà grazie alla fertilità donata dall’inondazione dei fiumi Tigri ed Eufrate e dalle opere di irrigazione create dall’uomo. Entrambi i fiumi si originano nei territori dell’attuale Turchia, proseguono in Siria per poi congiungersi in Iraq e sfociare nel Golfo Persico. Essi costituiscono un’importante risorsa d’acqua per tutti i paesi rivieraschi che attraversano: di fatto, molti grandi interventi sono stati realizzati per il loro utilizzo strategico, soprattutto negli ultimi anni.  In questo quadro si inserisce l’enorme progetto turco nel sud-est dell’Anatolia, il GAP (Güneydoğu Anadolu Projesi). Questo progetto prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche per la riqualificazione di un territorio caratterizzato da: rigide condizioni territoriali e climatiche, risorse idriche mal distribuite, terre aride, insufficienti servizi sociali, bassi livelli di reddito pro capite e modelli di migrazione “inusuali”.  La Turchia negli ultimi decenni è stata interessata da un forte sviluppo economico e sociale che ha generato un incremento del benessere della sua popolazione e, conseguentemente, del fabbisogno di energia.  È sorto così il progetto del GAP che, da un lato, doveva rispondere alla rapida crescita economica e demografica dell’intero paese e, dall’altro, doveva migliorare gli standard socioeconomici della regione interessata dalla sua presenza, attraverso la riduzione delle disparità e delle disuguaglianze con le altre regioni della Turchia.  Il GAP, quindi, potrebbe portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e del benessere dell’area e ad una maggiore efficienza in termini di produzione energetica prodotta a basso costo ed a basse emissioni. A tutti questi benefici per il territorio e per la popolazione turca, tuttavia, si aggiunge una serie di risvolti sociali, politici, ambientali e culturali negativi. Il GAP come motivo di tensione tra Stati Lo sfruttamento dei due fiumi ha portato negli anni ad una serie di problematiche politiche e diplomatiche tra la Turchia e gli altri due paesi rivieraschi, Siria ed Iraq.  Fino agli anni ’60, le relazioni tra i paesi non erano influenzate da tensioni legate all’utilizzo delle acque, poiché le dimensioni dei progetti sviluppati sui due fiumi erano contenute e non prevedevano un utilizzo intensivo della risorsa idrica. Le tensioni si inasprirono quando iniziarono i primi passi concreti verso la realizzazione di vari progetti idroelettrici in tutti e tre i paesi, come la costruzione della diga di Keban in Turchia, la diga di Tabqa in Siria – che con il riempimento del bacino del lago di Assad ha scatenato la collera dell’Iraq – ed il lancio ufficiale del GAP negli anni ’70, che vide l’inaugurazione della prima diga, Karakaya, alla fine degli anni ’80. Venne, dunque, creato un Comitato Tecnico Congiunto (JTC) per cercare di raggiungere un accordo per uno sfruttamento bilanciato di entrambi i fiumi tra i tre paesi. Inizialmente, al Comitato parteciparono solo Turchia e Iraq. La Siria si aggiunse solo in seguito, ma il lavoro del JTC non portò mai ad un risultato concreto.  Il primo accordo si ottenne solo a livello bilaterale nel 1987 tra Turchia e Siria, stabilendo un rilascio medio annuo di 16 miliardi di metri cubi di acqua alla Siria con una portata minima annua media di 500 m3/s. A questo seguirono una serie di altri accordi, tra i quali quello del 1990 tra Siria e Iraq nel quale i due paesi concordarono di ricevere rispettivamente il 42% e il 58% del flusso dell’Eufrate al confine turco-siriano. Il completamento della diga di Atatürk nel 1990, fiore all’occhiello dell’intero progetto GAP nonché una delle dighe più grandi al mondo, fece riemergere diverse tensioni tra i paesi. La Turchia, infatti, per riempire il bacino della diga deviò l’Eufrate per circa un mese, causando una notevole riduzione della quantità ed il peggioramento della qualità dell’acqua diretta verso la Siria e l’Iraq. A seguito dell’episodio, vennero inviate invano note minacciose alla Turchia per richiedere lo stop alla costruzione di altre dighe previste sul corso dei due fiumi, come quelle

Leggi Tutto »

Diritti politici in Egitto durante la presidenza di Al-Sisi

La presidenza di Al-Sisi, comincia dopo il golpe del 2013 ai danni del presidente Morsi, unico presidente eletto democraticamente nella storia del paese; fin da subito il governo di Al-Sisi si caratterizzò per un profondo e violento depauperamento dei diritti politici e sociali in Egitto. Fu immediatamente chiara la strategia con la quale Al-Sisi intendeva mantenere il potere in Egitto: soprusi, violenze ed omicidi sarebbero divenuti fatti all’ordine del giorno. Ciò che emerge con chiarezza infatti, è l’uso diffuso di varie forme di intimidazione volte a scoraggiare sia gli esponenti politici che i semplici giornalisti dal porre interrogativi sull’operato del governo e dei suoi rappresentanti. La polizia e l’esercito sovente impongono la volontà governativa attraverso varie forme di violenze, dalle intimidazioni e minacce a pestaggi, arresti arbitrari e purtroppo omicidi. Ogni persona, anche solo sospetta di volersi opporre al regime, è in pericolo. Lo scopo è palese: creare un clima politico e sociale di terrore, per impedire la formazione e la potenziale diffusione di qualsiasi forma di opposizione al regime. Il governo egiziano, quindi ritiene necessario utilizzare le forze armate come principale mezzo per il mantenimento del potere. Al centro della strategia politica di Al-Sisi vi è il rafforzamento delle strutture militari e della polizia così da creare un sistema clientelare e violento che ha definitivamente contribuito a consolidare il potere presidenziale. La polizia all’interno dell’apparato di potere egiziano ha un ruolo predominante, essendo lo strumento privilegiato – e perciò tutelato – con il quale il presidente impone le sue politiche alla popolazione e sopprime qualsiasi opposizione alla sua azione di governo.  La polizia gode di una quasi totale liberà nell’esercitare le sue funzioni, un’immunità di fondo che gli garantisce ampissimi margini di manovra per le operazioni che esegue, per sopprimere e disincentivare qualsiasi forma di contestazione al regime. (https://www.internazionale.it/notizie/blandine-lavignon/2020/04/22/egitto-ascesa-polizia). Lo strapotere che la polizia detiene all’interno della società si evince dalle numerose nomine dei suoi generali ai vertici dell’alta amministrazione egiziana, rendendo evidente come le violenze e le atrocità commesse da questa siano riconducibili direttamente ed inequivocabilmente alla volontà presidenziale. Anche l’esercito gode di ampi poteri discrezionali nella scelta del proprio modus operandi che gli garantisce un’importante e diffusa pressione sulla popolazione civile. Negli anni della sua presidenza, Al-Sisi ha posto al vertice dei ministeri, o in altre ruoli chiave, esponenti delle forze armate le quali hanno la funzione di fungere da contrappeso, agli occhi del presidente, allo strapotere della polizia. Di fatto questi due centri di potere devono essere bilanciati essendo potenzialmente in competizione fra loro. Proprio per rispettare questo bilanciamento di poteri dunque, il presidente elargisce favori e garanzie di immunità ad entrambi a discapito dei diritti politici della popolazione d’Egitto, che non può far altro che subirne le gravi e continue violenze. Nello specifico si pensi che il diritto di riunione e di libertà di espressione è profondamente limitato e la polizia fa rispettare queste limitazioni perpetrando arresti arbitrari e sottoponendo i prigionieri a tortura. Le autorità accusano gli oppositori politici di terrorismo, sottoponendoli a processi iniqui e arbitrari che si concludono spesso con la condanna alla detenzione in carceri mal tenuti e in cui vigono regole medievali. Il clima è ancor più esasperato da continui interventi presidenziali volti a modificare le discipline che regolano la magistratura ed i partiti politici. Dall’agosto del 2018 infatti, il governo può sciogliere arbitrariamente partiti indipendenti, impendendo così la costruzione di qualsiasi forma di opposizione legale al regime. Inoltre, di altrettanta gravità, è l’allargamento della giurisdizione dei tribunali militari divenuti – insieme ai neo-tribunali straordinari – il vero fulcro del potere giudiziario in Egitto. Detti tribunali sono caratterizzati da procedimenti sommari e gli esiti dei processi sono fortemente influenzati da pressioni governative che consentono di ammettere come valide le testimonianze rese sotto tortura e/o altra forma di pressione psicologica. Il quadro è ancor più drammatico con riferimento all’individuazione di potenziali oppositori politici: in questo caso, polizia ed esercito non sono sottoposte ad alcun tipo di limite o controllo in fase di identificazione di questi soggetti. Al contrario, il potere giudiziario asseconda questa assenza di disciplina chiara quando si tratta di individuare gli oppositori.  Ciò che stupisce dell’attuale situazione è che vi è stato un notevole indebolimento delle garanzie afferenti i diritti politici in Egitto. Seppur vero che nemmeno la presidenza di Mubarak si distinguesse particolarmente per la tutela e la salvaguardia dei diritti civili e politici in Egitto impossibile non notare come la degenerazione sia sempre più rapida. Si pensi in effetti che i principali agitatori della Rivoluzione egiziana del 2011, quella che portò alle dimissioni di Mubarak, furono i lavoratori, i quali,  stanchi delle pressioni dei capi sindacali, quasi tutti filo-governativi,  occuparono le piazze delle principali città egiziane (https://www.internazionale.it/notizie/blandine-lavignon/2020/04/22/egitto-ascesa-polizia ); ciò oggi sarebbe impensabile sia per un fondamentale disinteresse della classe politica rispetto alle istanze della popolazione e sia perché la polizia e i vari apparati governativi rendono impossibile qualsiasi forma di manifestazione del dissenso. L’attuale governo teme ogni tipo di rivendicazione di quelle forze che hanno permesso la fine del trentennale potere di Mubarak, ogni egiziano in questo senso è un potenziale oppositore.  A ben vedere non vi sono luoghi della democrazia che non siano stati compressi o del tutto eliminati da parte del governo tramite l’azione repressiva della polizia. Sono considerati “nemici della democrazia” tutti coloro che pongono domande o direttamente contestano l’operato del governo, come le ONG (https://espresso.repubblica.it/internazionale/2017/01/16/news/human-rights-watch-in-egitto-con-al-sisi-la-societa-civile-e-a-rischio-estinzione-1.293464 ) e i giornali indipendenti che, ad oggi, non esistono più; in tal senso è emblematica la vicenda dei giornalisti della redazione del giornale Mada Masr, (https://www.internazionale.it/bloc-notes/catherine-cornet/2019/11/26/egitto-raid-mada-masr ) che era l’unico giornale egiziano con cui si potevano reperire informazioni contro il governo, i quali sono stati in gran parte picchiati e arrestati. La questione sulla libertà di stampa appare ancor più preoccupante anche se si considera che ad oggi non vi sono giornali egiziani degni di questo nome dal momento che quelli rimasti intenti solo a fungere da megafono del governo. In Egitto infatti risulta difficilissimo svolgere la professione del giornalista, a meno che non si voglia

Leggi Tutto »

Muzoon Almellehan

“Non smettere mai di imparare e di sognare. Non perdere mai la speranza.” La piccola Muzoon è nata l’8 aprile 1999 da Eman e Rakan Almellehan nella città di Dara’a, Siria, dove il papà lavorava come insegnante. Dara’a è stata teatro delle prime proteste contro il regime e di alcune delle prime repressioni contro la popolazione locale. Infatti, subito dopo lo scoppio della guerra civile siriana, la loro città fu assediata dalle forze governative. Due anni dopo, nel 2014, la città venne presa dalle forze islamiste, questo portò ad un inasprimento della guerra che spinse Muzoon e tutta la sua famiglia a scappare verso la Giordania. «Anche da bambina, sapevo che l’istruzione era fondamentale per il mio futuro. Quando ho dovuto abbandonare la Siria, gli unici effetti personali che ho portato con me sono stati i miei libri di scuola» racconta. Ciononostante, Muzoon è stata anche tra le prime – e le più giovani – rifugiate siriane a operare per realizzare un cambiamento. Il primo campo dove arrivarono fu quello di Za’atari, nei 18 mesi trascorsi lì, la piccola Muzoon cominciò ad occuparsi del diritto all’istruzione per i bambini, ed in primo luogo per le ragazze. Infatti, Muzoon si iscrisse alle scuole all’interno del campo, ma presto si accorse che molte ragazze rifugiate – alcune di 13 e 14 anni – interrompevano le lezioni e si sposavano. “Da rifugiata, ho visto cosa succede quando i bambini sono costretti a un matrimonio precoce o al lavoro manuale. Essi restano esclusi dal percorso formativo e perdono la possibilità di avere un futuro.” Racconta. “Ero fortunata perché mi trovavo in un campo dove c’erano delle scuole e perché i miei genitori credevano nell’istruzione“. Malgrado la sua età, Muzoon iniziò a girare di tenda in tenda per i campi, per parlare con i genitori del valore dell’istruzione e dei rischi del matrimonio precoce. In ogni occasione, esortava i genitori a rimandare le figlie a scuola. “Le ragazze devono ricevere un’istruzione”, dice Muzoon. “È la migliore protezione per loro. Se una madre non è istruita, come può aiutare i suoi figli? Se i giovani non sono istruiti, chi ricostruirà il nostro Paese?”. Le organizzazioni umanitarie cominciarono ad interessarsi al lavoro di Muzoon, per questo divenne una Good Will Ambassador di UNICEF. E quando il premio Nobel per la pace e Asia Game Changer, Malala Yousafzai andò a visitare il campo di Za’atari, fece di tutto per trovare Muzoon. Malala aveva sentito parlare del suo lavoro e i compagni di classe di Muzoon le raccontarono di essere stati ispirati e di essere rimasti a scuola grazie a Muzoon. Nel 2015, Muzoon e la sua famiglia, dopo aver rinunciato a vari reinsediamenti verso Canada e Svezia per motivi logistici, riuscirono finalmente a trovare rifugio nel Regno Unito nell’ambito di un piano annunciato nel mese di settembre da David Cameron con il quale il governo britannico prevedeva di accogliere 20.000 rifugiati siriani. Muzoon e la sua famiglia, riuscirono, quini a trasferirsi a Newcastle, dove tutti i figli della famiglia Almellehan frequentano la scuola di Kenton. Oggi Muzoon ha 23 anni ha terminato la scuola secondaria, ed ha finalmente realizzato il suo sogno di entrare all’università dove studia Scienze Politiche. Ma soprattutto, continua ad impegnarsi per difendere tutte le ragazze a cui è negata l’istruzione nel mondo, in particolare le sue sorelle siriane. “Abbiamo bisogno di istruzione, perché la Siria ha bisogno di noi“, dice Muzoon. “Senza di noi, chi porterà la pace?”. Noi di Large Movements condividiamo il pensiero di Muzoon ed abbiamo ritenuto importante condividere con voi la sua storia perché ci rendiamo conto di quanto, molto spesso diamo per scontato quello che abbiamo sotto il nostro naso. L’istruzione è una di quelle cose che molto spesso vengono date per scontato, quando, specialmente in un periodo così particolare, dovremmo tutti ricordarci che l’istruzione per tutti, ma soprattutto per tutte le donne e bambine di questo mondo sia fondamentale non solo per il raggiungimento dell’eguaglianza di genere, ma anche, e soprattutto, come dice Muzoon, per la loro stessa protezione e affinché in questo modo, anche le donne possano essere incluse come voce fondamentale all’interno delle trattative e dei processi di pace. Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

Leggi Tutto »
04-Diritti-Donne-Yemen-Large-Movements

I diritti delle donne nello Yemen in guerra

Prima dello scoppio della guerra in Yemen, le donne hanno dovuto affrontare gravi discriminazioni nei diritti, nella legge e nella pratica. Il conflitto ha aggravato la situazione aggravando la discriminazione e la violenza contro donne e ragazze yemenite.  Gli effetti della guerra sulla popolazione e i diritti delle donne in Yemen Il conflitto ha ridotto allo stremo e alla fame la popolazione. Le famiglie Yemenite hanno utilizzato le spose bambina come merce di scambio per poter ripianare i debiti e procurarsi cibo. La pratica dei matrimoni precoci rappresenta una grave violazione dei diritti dell’infanzia e delle donne. L’OXFAM riporta una situazione di crescente penuria di cibo che ha lasciato più di un milione di donne incinte che allattano in stato di malnutrizione. Anche con l’assistenza umanitaria, le donne mangiano per ultime, dando priorità ai bambini e ad altri membri della famiglia, o utilizzano il denaro per altre esigenze domestiche. La guerra in Yemen ha causato molti spostamenti di popolazione che hanno avuto l’effetto di creare insicurezza personale, instabilità familiare e mancanza di garanzia dei diritti per le donne. Le donne e le ragazze dello Yemen sono le più vulnerabili e le più esposte ai rischi e alle violenze di genere che avvengono sia all’interno che all’esterno dei campi per gli sfollati. Un’indagine sulla protezione degli sfollati interni e delle comunità ospitanti è stata effettuata nel Novembre del 2018 dalla Wajood Foundation for Human Security. L’indagine ha scoperto che le donne hanno sperimentato i livelli più alti di tutte le forme di violenza: psicologica, fisica e sessuale. A queste si aggiunge l’aumento delle detenzioni arbitrarie. Una volta detenuti, sia donne che uomini, hanno subito violenze sessuali. La situazione si complica poiché le vittime di violenza nello Yemen sono altamente stigmatizzate causando uno scarso numero di denunce. Tutto ciò rende difficile garantire i diritti delle donne dello Yemen. Secondo le Nazioni Unite la violenza contro le donne è aumentata del 63% dall’inizio del conflitto. La violenza da parte delle istituzioni Secondo il “Report of the Group of Eminent International and Regional Experts as submitted to the United Nations High Commissioner for Human Rights” nel 2018 e nel 2019 sono proliferate nuove norme di genere oppressive e le donne yemenite sono ulteriormente emarginate sotto il controllo e la coercizione delle parti in conflitto. Il sostegno limitato contro le violenze di genere sono peggiorate a causa del crollo del sistema di giustizia penale nel 2019. La discriminazione femminile veniva in ogni caso perpetuata dagli attori che dovevano applicare la legge, risultando una minaccia diretta e non una tutela per le donne dello Yemen. Le parti coinvolte nel conflitto, inoltre, hanno spesso accusato le donne yemenite di prostituzione, promiscuità e immoralità. Ciò ha aumentato i rischi di violenza domestica e dissuaso donne e ragazze ad uscire di casa, inibendo la loro partecipazione alla sfera economica e politica. Le violenze da parte delle forze di sicurezza degli Emirati Arabi Uniti e delle milizie Houthi Oltre alle accuse pubbliche, le forze coinvolte nel conflitto si sono macchiate direttamente di violenza sulle donne nello Yemen. I membri delle forze di sicurezza sostenute dagli Emirati Arabi Uniti hanno continuato a commettere violenze sessuali: i membri della 35esima Brigata corazzata hanno violentato e aggredito sessualmente donne e uomini, portando avanti un modello più ampio di violenza sessuale che prendeva di mira le persone vulnerabili provenienti da comunità migranti, rifugiati e muhamasheen (conosciuti anche come “afro-yemeniti”). Dal 2017 al 2019 i membri della Brigata hanno rapito gli individui e li hanno sottoposti a stupro, compreso stupro di gruppo e altre forme di violenza sessuale, anche come mezzo per umiliare e soggiogare i membri di queste comunità. Anche le milizie Houthi nel 2018 e nel 2019 hanno rapito e detenuto donne e ragazze per periodi lunghi, fino agli 8 mesi, per ricattare i parenti. Spesso queste donne vengono accusate di muoversi senza un tutore maschio. Il rapimento pone le donne e le ragazze a rischio di violenza sessuale, attirando lo stigma e ponendole ad ulteriori rischi. Tutto questo compromette i diritti delle donne nel paese e la loro sicurezza. Questi sono solo alcuni dei diritti umani violati dalle parti in conflitto. L’importanza delle donne Yemenite Vivere sotto il conflitto, per anni, è difficile. Per le donne yemenite è ancora più difficile. Le donne sopportano il peso della guerra e stanno guidando gli sforzi per aumentare la resistenza delle proprie comunità. Lo Yemen ha aderito alla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW) per tutelare i diritti delle donne e garantire le libertà politiche ed economiche. Occorre evidenziare che le donne yemenite sono di fondamentale importanza per il Peacebuilding a livello locale. Oltre alla situazione generale della guerra in Yemen, sul territorio si sono sviluppati una serie di conflitti locali per l’acqua e la terra. Spesso le donne si fanno carico della risoluzione di questi conflitti facendo da mediatrici tra le tribù e per trattare il rilascio di eventuali detenuti. Anche se le norme dello Yemen sono altamente conservatrici, rilevando criticità per quanto riguarda i diritti delle donne, queste sono importanti per le comunità rurali e la creazione della pace. La complessità del conflitto, però, non permette la partecipazione delle donne alle sedute formali dei processi di pace. Ciò esclude importanti risorse e voci che potrebbero contribuire a una maggiore pace sostenibile creata da giovani e, soprattutto,  da giovani donne della società civile. Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

Leggi Tutto »
Yemen

La ragazza dello Yemen

Le mura rosse intorno alla città terminano in una maestosa porta rosso e nera con le sue colonne in rilievo. Li tantissimo tempo fa vi erano instancabili sentinelle che regolavano l’entrata e l’uscita dalla città. Oggi, invece, la gente entra ed esce  in un interminabile via vai. Li, poco dopo la porta, ci sono i mercatini di Sana’a che si estendono tra le strade e i vicoli sovrastati della case architettoniche di mattone e decorate con magnifici ghirigori bianchi. Camminando ti puoi perdere e il tuo sguardo non sa dove dirigersi. La piazza è affollata, tutti parlano, scherzano e di sottofondo si sente la musica che si leva  verso il cielo. È così da secoli in quel museo a cielo aperto in cui commercio, architettura e società si fondono e vivono. Li si vende qualsiasi cosa: il vero argento yemenita che da vita ad enormi piatti, gli specchi, il rame, l’erba medica, l’hennè o il legno. Si vende di tutto, basta che sia a buon prezzo. Girando per il mercato puoi vedere chi si ripara dal sole sotto le tende blu o gialle, chi si prova la giacca nel mercato dei vestiti, chi osserva il muro di pugnali tradizionali ornati di argento e pietre preziose o chi cerca da mangiare nel mercato alimentare con i suoi altissimi sacchi di cereali. La via centrale è una strada lunga che porta alle principali città del sud, è la porta dello Yemen.  Ma a chi è semplice non importa di questa imponenza, sta lungo la via a prendersi un caffè stretto ai suoi amici. In quel tutto è possibile trovare anche un ristorante italiano frequentato anche da italiani. È un posto unico al mondo, è “una venezia selvaggia sulla polvere”, è introvabile nel mondo un posto simile e per qualcuno quel posto è casa. Sono tre anni che Nada è lontana da casa e ci racconta di questo posto seduta intorno a un tavolino di metallo vicino alla metro di valle aurelia a Roma. Questa ragazza ci dice che è importante dire qualcosa di bello del suo paese, in molti non sanno dove è lo Yemen e chi lo conosce, se lo conosce, lo conosce solo come una delle pagine terribili della storia del nostro pianeta. Le notizie che abbiamo sono filtrare tanto da sapere solo che c’è una guerra, che c’è una terribile crisi umanitaria o che molti paesi occidentali vendono le armi all’Arabia Saudita per proseguire la guerra. Armi usate per colpire mercati, scuole o ospedali. Ma nessuno si preoccupa di dire cosa è lo Yemen al di la di questo, chi sono gli yemeniti e come era prima. Urliamo, tante volte, di non pensare ai numeri ma alle persone, però non sappiamo la storia di queste persone o dei luoghi da cui provengono. Nada dice che spesso la gente la guarda stupefatta e dice “c’è una ragazza dallo Yemen che sa l’inglese!”, “c’è una ragazza dallo Yemen che può vestire così!” o “c’è una ragazza dallo Yemen che è andata all’università!”. Sono stupefatti perché ciascuno pensa che tutte le donne in Yemen stanno in cucina, puliscono o non hanno una vita. Pensano che non ci sia istruzione: forse è vero che il 70% della popolazione non va all’università ma c’è un 30% molto forte che vuole cambiare tanto contro tutto quello che sta accadendo. Prima della partenza ricorda che in un mese la città è stata 15 giorni senza luce, la mattina si poteva fare tutto mentre di sera si doveva stare con le candele. Nonostante questo pensa che le persone in Yemen si abituano. Lo Yemenita è una persona semplice: se può avere un buon cibo tutti i giorni è contento e se mangiano un cibo normale dopo un po di giorni, sono sempre contenti. Si adattano. Basta pensare al fatto che gran parte della popolazione yemenita ha risposto costruendosi pannelli solari dall’immondizia come reazione alla mancanza di corrente. Ogni volta che chiama a casa dice ai suoi amici che le dispiace, se vogliono qualcosa, ma la risposta è “ma stiamo bene!”. Ci dice che sono contenti perché sono a casa, non importa se la vita è più costosa adesso. La vita, ovviamente, non è come prima. Occorre pensare tanto a come spendere lo stipendio con cui ora puoi fare molto di meno. Occorre pensare alla famiglia. Spesso le bombe si sentono vicine, c’è questa paura costante. Però la famiglia è li, gli amici sono li e la paura, con le persone care vicine, è diversa. I primi giorni del conflitto la paura era tremenda. Tutti le notti lei e sua madre non dormivano, c’erano giorni in cui non pensava di vedere la mattina. Apriva la finestra e vedeva la bomba li vicino. Sentiva tutto. Cominciava a pregare l’arrivo del giorno dopo. Al mattino però era un altro giorno, usciva di casa e parlava con gli amici. Come se nulla fosse. Gli yemeniti sono persone forti e semplici, si adattano. Ma alle volte la paura è più forte, il rischio è grande e la volontà di proteggere la famiglia ti costringe a scappare. È cosi che Nada e dovuta andare via con la madre. Pensa a quando lavorava li, al fatto che aveva una casa, dei soldi e una propria macchina. Spesso si è domandata “perché me ne sono andata?”, “perché chi non aveva un lavoro invece è rimasto?”. Certo, molte cose sono cambiate in meglio ma Nada dice che qui si sente come in guerra: “Quando arrivi in un altro paese, con posti nuovi e una nuova lingua, vivi una situazione di emergenza da sola”. Li aveva i suoi amici, qui deve iniziare tutto da zero. Non è la lingua ma sono gli affetti. Per farsi degli amici, per farsi una famiglia, per avere qualcuno che pensi a te o che si preoccupi di te, ci vuole tempo. Non si fa tutto in un anno o due, ci vuole tempo per fidarsi di qualcuno. Senza una stabilità è difficile riprendere gli studi o riprendere una patente o

Leggi Tutto »

La condizione dei rifugiati siriani in Libano

Nell’ultimo rapporto pubblicato dall’UNHCR, si stima che circa il 73% dei rifugiati nel mondo sia ospitato da un Paese confinante o vicino. Infatti, circa il 78% dei 6,6 milioni di rifugiati siriani ha trovato ospitalità nei soli Stati confinati di Turchia, Libano e Giordania. Se la Turchia detiene il primato del Paese con il maggior numero di rifugiati al mondo, il Libano è il Paese con la più alta densità di rifugiati siriani, uno ogni quattro abitanti. La politica del “no-camp” per i rifugiati siriani in Libano Il Governo libanese stima che, su una popolazione di meno di 6 milioni, circa 1 milione e mezzo sia di origine siriana. Oltre a chi, dal 2011, è fuggito dal conflitto civile in Siria, il Libano ospita almeno 180 mila residenti palestinesi dei 470 mila, comunque, ufficialmente registrati con l’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near Est). Nel tempo, però, la presenza di rifugiati è stata percepita più come un problema sociale ed economico piuttosto che come una possibile risorsa, dando luogo, in alcuni casi, ad insofferenze e tensioni con la popolazione residente. Il Libano, tra l’altro, non è firmatario della Convenzione di Ginevra del 1951 né del Protocollo di New York del 1967 e questo ha comportato conseguenze dirette sul peggioramento delle condizioni di vita stesse dei rifugiati. Il mancato riconoscimento dello status di rifugiato – in Libano i cittadini siriani sono considerati “sfollati” o indicati con il termine generico di profughi – ha comportato un’incertezza sull’applicazione delle consuete tutele previste dal diritto internazionale. Ad esempio, secondo quella che è stata definita la politica del “no-camp”, non sono mai stati allestiti campi profughi governativi o ufficiali. Negli ultimi tre anni, purtroppo, è aumentato proprio il numero di quelle famiglie che vive al di sotto di standard accettabili d’accoglienza e sicurezza, risiedendo in insediamenti informali al limite della sopravvivenza ed alloggi di fortuna, quali, ad esempio, garage, magazzini o fienili. Inoltre, per decisione del governo libanese, dal 2015 l’UNHCR ha sospeso le registrazioni dei rifugiati e aggiornato solo l’eventuale numero in diminuzione. Secondo i dati a disposizione dell’Agenzia delle Nazioni Unite, il numero di cittadini siriani non supera di molto gli 865 mila, ma non restituisce la situazione reale. Lo smantellamento dei campi profughi in Libano La sottostima, purtroppo, ha limitato le potenzialità della protezione internazionale dei rifugiati attraverso un’adeguata fornitura dell’assistenza di base ed un reale accesso ai servizi essenziali. Proprio quei servizi essenziali, che insieme alle infrastrutture del Paese, sono stati messi a dura prova dalla forte pressione demografica, sovraccaricando un sistema che presentava già molte criticità. A luglio del 2019, ha avuto una certa risonanza internazionale la decisione di applicare la normativa vigente sull’abusivismo edilizio (Construction Law Act n. 646/2004), creando gravissime difficoltà a 4 mila famiglie siriane di Arsal e a circa 15 mila minori. Nella città della valle della Bekaa, una delle zone economicamente più arretrate del Paese e con la maggiore concentrazione di rifugiati, è stata imposta la demolizione di tutte le residenze che avessero muri oltre il metro. In una sempre più frequente strategia di pressioni dirette e indirette, mirate a incoraggiare il rimpatrio “volontario”, è stato consentito solo l’utilizzo di legno e teli di plastica per la costruzione di un rifugio, ma non l’utilizzo di materiali che conferissero all’abitazione una struttura permanente. Quella che, invece, rimane permanente è la situazione critica dei rifugiati siriani, una situazione che da emergenziale si è rivelata, poi, per essere una crisi prolungata e complessa. Il VASyR (Vulnerability Assessment of Syrian Refugees in Lebanon) conferma come sostanzialmente invariata, anche nel 2020, la percentuale del 69% di famiglie siriane senza alcuno status legale di residenza. Nel 2014 – prima che l’Agenzia per i rifugiati fosse costretta a sospendere le registrazioni – le famiglie siriane presenti legalmente in Libano erano, invece, il 58%. Il non essere legalmente residenti comporta, di fatto, una costante barriera all’accesso all’istruzione, ai servizi sanitari ed al mercato del lavoro formale. Inoltre, più della metà dei rifugiati siriani ha meno di diciotto anni e da marzo 2020, con la sospensione delle lezioni in presenza, ben più di due terzi non ha ricevuto nessun tipo di formazione scolastica. Un “coprifuoco selettivo” per i rifugiati siriani in Libano Durante la pandemia di Covid-19 è stato registrato un incremento del lavoro minorile, con un aumento del rischio di abbandono scolastico. Il lavoro minorile, tra l’altro, è molto spesso informale, dato che da stime ufficiali risulta che percentuali molto elevate della popolazione straniera rientrano in questo segmento, con picchi di oltre l’80% nei settori a basso reddito come l’edilizia, le collaborazioni domestiche e l’agricoltura. L’irregolarità nei rapporti di lavoro comporta, inoltre, anche l’assenza di qualunque forma di previdenza sociale e di copertura assicurativa che tuteli la salute dei lavoratori siriani. Un’eventualità che si aggiunge al già difficile accesso alle cure mediche per l’elevato costo dei trattamenti ospedalieri e specialistici, in un sistema sanitario fortemente privatizzato come quello libanese. Le disuguaglianze sociali si sono maggiormente evidenziate proprio durante l’attuale crisi sanitaria e le decisioni di alcune autorità locali hanno portato a misure perfino discriminatorie nei confronti dei rifugiati. Human Rights Watch (HRW) riporta che in diciotto comuni della valle della Bekaa, durante il lockdown, sia stato imposto un coprifuoco più restrittivo alla comunità siriana. La decisione è stata presa in maniera del tutto autonoma e senza alcun consenso del Governo centrale. Inoltre, l’applicazione del tutto arbitraria della legge ha previsto anche la nomina di un rappresentante che, coordinandosi con le varie municipalità, provvedesse al soddisfacimento di tutte le necessità primarie dell’intero campo profughi. Già in passato le autorità locali avevano utilizzato lo strumento del coprifuoco, in questo caso, come misura antiterrorismo. Dal 2013, infatti, contemporaneamente all’afflusso dei rifugiati siriani, si è verificata un’infiltrazione di miliziani jihadisti del cosiddetto Stato islamico (IS) e di Jabhat al-Nusra, principalmente nella regione frontaliera di Arsal. La presenza di ribelli siriani jihadisti in Libano mirava, fondamentalmente, a colpire e indebolire la formazione politica e militare sciita di Hezbollah (Partito di Dio)

Leggi Tutto »