Muzoon Almellehan

“Non smettere mai di imparare e di sognare. Non perdere mai la speranza.”

La piccola Muzoon è nata l’8 aprile 1999 da Eman e Rakan Almellehan nella città di Dara’a, Siria, dove il papà lavorava come insegnante. Dara’a è stata teatro delle prime proteste contro il regime e di alcune delle prime repressioni contro la popolazione locale. Infatti, subito dopo lo scoppio della guerra civile siriana, la loro città fu assediata dalle forze governative. Due anni dopo, nel 2014, la città venne presa dalle forze islamiste, questo portò ad un inasprimento della guerra che spinse Muzoon e tutta la sua famiglia a scappare verso la Giordania.

«Anche da bambina, sapevo che l’istruzione era fondamentale per il mio futuro. Quando ho dovuto abbandonare la Siria, gli unici effetti personali che ho portato con me sono stati i miei libri di scuola» racconta.

Ciononostante, Muzoon è stata anche tra le prime – e le più giovani – rifugiate siriane a operare per realizzare un cambiamento.

Il primo campo dove arrivarono fu quello di Za’atari, nei 18 mesi trascorsi lì, la piccola Muzoon cominciò ad occuparsi del diritto all’istruzione per i bambini, ed in primo luogo per le ragazze. Infatti, Muzoon si iscrisse alle scuole all’interno del campo, ma presto si accorse che molte ragazze rifugiate – alcune di 13 e 14 anni – interrompevano le lezioni e si sposavano.

Da rifugiata, ho visto cosa succede quando i bambini sono costretti a un matrimonio precoce o al lavoro manuale. Essi restano esclusi dal percorso formativo e perdono la possibilità di avere un futuro.” Racconta. “Ero fortunata perché mi trovavo in un campo dove c’erano delle scuole e perché i miei genitori credevano nell’istruzione“.

Malgrado la sua età, Muzoon iniziò a girare di tenda in tenda per i campi, per parlare con i genitori del valore dell’istruzione e dei rischi del matrimonio precoce. In ogni occasione, esortava i genitori a rimandare le figlie a scuola.

Le ragazze devono ricevere un’istruzione”, dice Muzoon. “È la migliore protezione per loro. Se una madre non è istruita, come può aiutare i suoi figli? Se i giovani non sono istruiti, chi ricostruirà il nostro Paese?”.

Le organizzazioni umanitarie cominciarono ad interessarsi al lavoro di Muzoon, per questo divenne una Good Will Ambassador di UNICEF. E quando il premio Nobel per la pace e Asia Game Changer, Malala Yousafzai andò a visitare il campo di Za’atari, fece di tutto per trovare Muzoon. Malala aveva sentito parlare del suo lavoro e i compagni di classe di Muzoon le raccontarono di essere stati ispirati e di essere rimasti a scuola grazie a Muzoon.

Nel 2015, Muzoon e la sua famiglia, dopo aver rinunciato a vari reinsediamenti verso Canada e Svezia per motivi logistici, riuscirono finalmente a trovare rifugio nel Regno Unito nell’ambito di un piano annunciato nel mese di settembre da David Cameron con il quale il governo britannico prevedeva di accogliere 20.000 rifugiati siriani. Muzoon e la sua famiglia, riuscirono, quini a trasferirsi a Newcastle, dove tutti i figli della famiglia Almellehan frequentano la scuola di Kenton.

Oggi Muzoon ha 23 anni ha terminato la scuola secondaria, ed ha finalmente realizzato il suo sogno di entrare all’università dove studia Scienze Politiche. Ma soprattutto, continua ad impegnarsi per difendere tutte le ragazze a cui è negata l’istruzione nel mondo, in particolare le sue sorelle siriane.

Abbiamo bisogno di istruzione, perché la Siria ha bisogno di noi“, dice Muzoon. “Senza di noi, chi porterà la pace?”.

Noi di Large Movements condividiamo il pensiero di Muzoon ed abbiamo ritenuto importante condividere con voi la sua storia perché ci rendiamo conto di quanto, molto spesso diamo per scontato quello che abbiamo sotto il nostro naso. L’istruzione è una di quelle cose che molto spesso vengono date per scontato, quando, specialmente in un periodo così particolare, dovremmo tutti ricordarci che l’istruzione per tutti, ma soprattutto per tutte le donne e bambine di questo mondo sia fondamentale non solo per il raggiungimento dell’eguaglianza di genere, ma anche, e soprattutto, come dice Muzoon, per la loro stessa protezione e affinché in questo modo, anche le donne possano essere incluse come voce fondamentale all’interno delle trattative e dei processi di pace.

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03-Spose-Bambina-Yemen-Large-Movements

Le spose bambina e la guerra in Yemen

La guerra la subiscono per primi i più vulnerabili. Questa è la cruda realtà che si trascina da anni nello Yemen e che ha negato l’infanzia di moltissimi bambini. I combattimenti e i bombardamenti hanno reso sempre più tetro il futuro con la distruzione di 1600 scuole e portando le famiglie alla fame e ai debiti. Per poter sopravvivere molte famiglie hanno spinto le proprie bambine, anche sotto i 10 anni, verso matrimoni precoci. Nel governatorato di Amran, nel nord del paese, le famiglie stremate hanno dato in sposa bambine anche piccolissime, in un caso anche di tre anni, per poter comprare cibo e salvare il resto della famiglia. La pratica dei Matrimoni precoci in Yemen Il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA) nel 2016 rilevava un aumento del matrimonio infantile dopo lo scoppio della guerra, avvenuto nel 2015, con un età prevalente di 15 anni. Secondo la ricerca, nel nord dello Yemen il 72% degli intervistati si è sposato tra i 13 e i 15 anni (sia maschi che femmine) e il 17% si è sposato tra gli 8 e i 12 anni. Mentre nel sud il 62% si è sposato prima dei 16 anni. Dopo quasi quattro anni di guerra l’Oxfam denunciava l’aumento esponenziale dei prezzi dei beni alimentari che ebbe la conseguenza di ridurre sull’orlo della carestia dieci milioni di yemeniti e costringendo le famiglie a usare le spose bambina come merce di scambio. Occorre specificare, però, che per lungo tempo la pratica dei matrimoni precoci è stata abituale nello Yemen ma durante il proseguimento della guerra ha raggiunto proporzioni e modalità scioccanti. Solitamente le ragazze yemenite non venivano date in sposa prima degli 11 anni, seppur venivano costrette a svolgere lavori domestici in casa del futuro marito. La guerra ha ridotto la popolazione allo stremo e per far fronte alla carestia le prime a pagare sono le future donne yemenite. I conflitti hanno sfollato molte famiglie, costringendole a fuggire in aree isolate e prive di tutto. Si tratta di posti senza servizi essenziali, scuole o presidi sanitari. La vita di queste famiglie e donne nello Yemen scorre in piccole tende o case di fango che non riparano dal sole, dalla pioggia o dal freddo dell’inverno. Le famiglie, che possono contare fino a 15 persone, comprese persone anziane e bisognose di cure, vivono senza reddito e senza possibilità di lavorare o procurarsi cibo a sufficienza. In queste condizioni gli adulti si privano di cibo per darlo ai figli o si riducono il numero di pasti quotidiano. Spesso per poter comprare acqua, cibo e medicine le famiglie sono costrette a chiedere prestiti. Tutto ciò ha aumentato la povertà e la pressione socio-economica sulle famiglia e ha portato a un aumento della pratica del matrimonio precoce, già in uso nelle comunità rurali. In particolar modo “l’uso” delle spose bambina è stato visto come un meccanismo capace di sostentare la famiglia e affidare le bambine ad un’altra famiglia. Questo è dovuto anche al crollo della sicurezza e delle istituzioni giudiziarie e sociali che hanno aumentato il numero di minacce percepite alla sicurezza e al benessere familiare delle bambine yemenite.  Le testimonianze delle spose bambina dello Yemen Queste bambine portano con sè storie e testimonianze come quella di Hanan, bambina di 9 anni. Hanan da quando è sposata ha dovuto smettere di andare a scuola e veniva picchiata dalla suocera. Ogni volta che questa bambina scappava per poter tornare dai propri genitori, veniva picchiata dagli stessi familiari. La stessa famiglia ha dato in sposa la sorella di tre anni. La famiglia di queste spose bambina sono consce di come sia profondamente sbagliato ma allo stesso tempo hanno sentito di non aver scelta. La dote ricevuta in cambio ha mantenuto in vita il resto della famiglia. Un’altra testimonianza e storia è quella di Zainab. La vita di questa bambina yemenita è diventata un inferno da quando, a 12 anni, ha perso entrambi i genitori. Insieme alla sorella maggiore Ayan è stata affidata ad una zia ed entrambe hanno patito violenze e vessazioni. Alla fine entrambe sono state cedute in sposa e a loro volta si sono aggiunte al destino delle migliaia di spose bambina. La nuova denuncia di Human Rights Watch e i rischi per i diritti delle donne e dell’infanzia Nel febbraio 2020 Human Rights Watch ha invitato il Comitato per l’eliminazione di Discriminazione contro le donne ad esaminare la situazione dello Yemen e a garantire il rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Human Rights Watch ha segnalato che l’instabilità economica e la povertà nello Yemen sono tra i motivi prevalenti che spingono i bambini al matrimonio. Le ragazze dello Yemen che si sposano in giovane età corrono, inoltre, maggiori rischi durante la gravidanza, comprese complicazioni durante il parto che possono portare alla morte. Qui la violazione dei diritti dell’infanzia e dei diritti delle donne si intrecciano in quanto, oltre a vedersi preclusa l’istruzione, le ragazze yemenite possono essere esposte a violenza domestica. La legislazione Yemenita attualmente non ha un’età minima per il matrimonio e già nel 2010 Tawakkul Karman aveva provato a difendere i diritti delle donne dello Yemen. Successivamente in Parlamento si è tentato di innalzare l’età minima per il matrimonio a 18 anni attraverso la Conferenza nazionale di dialogo (2013-2014) che ha progettato una nuova costituzione che includeva il divieto per i matrimoni precoci. Nell’aprile del 2014 era stata presentato un progetto sui diritti dei minori e delle donne che stabiliva a 18 anni l’età minima per il matrimonio nello Yemen. Doveva esserci l’adozione e la revisione in Parlamento ma il suo status è attualmente “scaduto” poiché il mandato di 6 anni è terminato lasciando, inoltre, il potere diviso tra il governo yemenita riconosciuto a livello internazionale e gli Houthi. In generale le cause dei matrimoni tra i bambini sono la povertà, il prezzo della sposa, la dote, le tradizioni culturali, le leggi che permettono i matrimoni tra bambini, le pressioni religiose e sociali, le usanze regionali, l’analfabetismo e la percezione dell’incapacità delle donne di

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Diritti LGBTQ+ in Egitto: niente di buono all’ombra delle piramidi

Le persone LGBTQ+ egiziane vivono una condizione estremamente drammatica: lasciate sole a fronteggiare le istituzioni, immerse in un contesto conservatore che le lascia ai margini della società. Negli ultimi anni, inoltre, quella che era una generale tendenza da parte dello Stato alla discriminazione, laddove possibile (non esistendo, in Egitto, una legge che punisca il “reato di omosessualità” o leggi affini), si è trasformato in un vero e proprio atteggiamento persecutorio attraverso norme emanate appositamente per colpire le minoranze sessuali. Senza il riconoscimento delle unioni per persone dello stesso sesso, senza una disciplina per l’omogenitorialità, senza tutele e politiche in favore delle persone transgender e delle altre minoranze sessuali, l’Egitto è ora più che mai un Paese profondamente avverso alla comunità LGBTQ+. Quadro Legislativo e Impatto nella Società Civile Come è stato già detto, il Codice Penale egiziano non accoglie al suo interno uno specifico divieto per le relazioni omosessuali o il travestitismo. Fino al 2000, le azioni contro le persone queer egiziane sono state portate avanti impugnando la legge n. 10 del 1961, la “legge sulla depravazione”, che prevede “pene fino a 17 anni di carcere per la pratica abituale della depravazione”. È tuttavia col nuovo millennio che lo Stato egiziano inaugura una serie di meccanismi legali basati su giurisprudenza e interpretazioni delle norme attraverso i quali sferrare colpi alla comunità LGBTQ+. Si afferma, infatti, la pratica della raccolta di prove online, ampiamente messa in atto dalle autorità del Paese. In pratica una divisione speciale del Ministero dell’Interno, la Direzione per la Protezione della Morale Pubblica, crea apposite trappole online su app o siti d’incontri per avere in seguito il pretesto per perseguire penalmente chiunque vi cada dentro. È in quegli anni di rinnovata intolleranza verso le minoranze sessuali che si sviluppa il caso dei Cairo 52: 52 uomini arrestati nel maggio del 2001 a bordo del nightclub galleggiante Queen Boat, ancorato sul Nilo al Cairo. Gli uomini, dichiaratisi tutti innocenti, si trovarono loro malgrado al centro dell’attenzione mediatica nazionale –  con giornali e riviste che pubblicarono i loro nomi e gli indirizzi di casa – e internazionale – con diverse ONG, membri del Congresso statunitense e le Nazioni Unite che denunciarono la scorrettezza dei procedimenti messi in atto. Quegli uomini, infatti, furono costretti a subire percosse ed esami fisici atti a “dimostrare la loro omosessualità”, rimanere per ore in piedi in celle anguste senza letti ed altre privazioni dei diritti umani. Il processo, conclusosi nel marzo 2003, portò alla condanna a 3 anni di prigione per 21 di loro, mentre i restanti vennero rilasciati. Questo forte atteggiamento discriminatorio da parte delle Istituzioni ha subito un ulteriore slancio con la presidenza di Al-Sisi, iniziata nel 2014. Secondo quanto riportato dall’Egyptian Initiative for Personal Rights, che è fra le poche realtà in Egitto a riconoscere i diritti LGBTQ+, fra il 2000 e il 2013 gli arresti legati all’omosessualità sarebbero 14. Dal 2013 al 2017 la media annuale sale a 66 arresti, con picchi di 75 nel 2017 e 92 nel 2019. Da marzo 2020, la situazione delle persone LGBTQ+ egiziane è ulteriormente peggiorata. Da questo momento in poi, i casi riguardanti le minoranze sessuali sono stati ricondotti alle violazioni della legge sulla criminalità informatica, con un consequenziale inasprimento delle multe e delle pene. Questa disciplina, infatti, dal 2019 è di competenza dei tribunali economici e si trova all’interno di un ambito in cui le definizioni sono molto vaghe, ambigue, aperte a più interpretazioni, la maggior parte delle quali usate a sfavore della comunità LGBTQ+. Se prima le condanne per depravazione si risolvevano in multe da 300-400 lire egiziane o reclusioni dai 3 ai 6 mesi, le nuove norme prevedono sanzioni fino a 100 mila lire egiziane e pene detentive di due anni minimo, come spiega Afsaneh Rigot, ricercatrice ed esperta in dati digitali e comunità LGBTQ+, che aggiunge: “Il quadro repressivo sempre più sofisticato e creativo che l’Egitto usa per criminalizzare la comunità LGBTQ+ minaccia non soltanto gli egiziani, ma anche tutte le persone LGBTQ+”. Percezione e Status Sociale Un quadro legislativo repressivo come quello appena descritto non può far ben sperare sul trattamento che le persone LGBTQ+ ricevono in Egitto e infatti le minoranze sessuali egiziane sono estremamente marginalizzate all’interno della società. Questa avversione della popolazione egiziana, abbracciata in toto dalle istituzioni statali, affonda le sue radici nel conservatorismo di matrice religiosa islamica e cristiana (le due confessioni principali del paese). Il pretesto principale che viene invocato a giustificazione della persecuzione in atto verso la comunità LGBTQ+ è infatti quasi sempre la preservazione degli usi e della morale del Paese che sono sempre il riflesso dei costumi religiosi imposti dall’Islam e dal Cristianesimo. Non è sempre stato così però. L’Egitto è stato la casa di una delle più grandi e avanzate civiltà del mondo antico che ha lasciato alle sue spalle maestose tracce del suo passaggio a perenne monito dell’ingegno e della creatività umana. Fra queste ritroviamo, purtroppo, poche testimonianze di come venisse vissuta l’omosessualità presso gli antichi egizi ma quello che ci è arrivato ci permette di fare alcune speculazioni: il ritrovamento di un cumulo tombale dedicato a quelli che sembrano in tutto e per tutto due amanti uomini, la presenza di personaggi e comportamenti omosessuali nella mitologia con le divinità Seth e Horus più altre testimonianze storiche più o meno affidabili sulle tendenze sessuali di alcuni faraoni (Pepi II nello specifico) sono tutti fattori che ci portano a dedurre che l’omosessualità di per sé non fosse condannata e fosse anche vissuta senza particolari preoccupazioni. Una condanna, al massimo, era riservata al partner passivo all’interno della relazione sessuale per aver “rinunciato” alle sue prerogative maschili ed essersi così “abbassato” al livello femminile, un atteggiamento che fa capo a una visione delle relazioni interpersonali più maschilista e patriarcale che esplicitamente omofoba. Al di là della sua origine, l’odio omofobico e transfobico è notevolmente presente nella società egiziana, perfettamente integrato fra i meccanismi che ne regolano il funzionamento. Se abbiamo già visto, da un lato, l’atteggiamento delle istituzioni, dall’altro troviamo i media egiziani che, in accordo con la linea seguita dal governo,

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Studentesse avvelenate: sviluppi sulle proteste in Iran

Attualmente l’Iran sta vivendo una situazione instabile per le proteste scoppiate dopo la morte di Mahsa Amini, 22enne curda in visita a Teheran con la famiglia, a causa delle percosse ricevute dalla polizia morale che l’aveva arrestata con l’accusa di uso improprio del velo. Secondo alcune indagini, le rivolte hanno portato a 530 vittime tra i manifestanti, più di 19.700 arresti e 4 condanne a morte eseguite. Molte donne arrestate dalla polizia hanno raccontato gli abusi a cui sono state sottoposte durante la detenzione e alcune hanno rivelato di essere state imbavagliate con i loro hijab. Non è la prima volta che le donne iraniane protestano contro le leggi imposte dal governo per salvaguardare i loro diritti fondamentali; già nel 1979 migliaia scesero in piazza per protestare contro la decisione di rendere l’hijab obbligatorio per tutte le donne sul luogo di lavoro. Nonostante ciò, l’ayatollah Ruhollah Khomeini procedette con le riforme che desiderava attuare e, nel corso del tempo, sia le restrizioni che le punizioni per chi violava le prime divennero più aspre. Un nuovo attacco “Inizialmente abbiamo sentito uno strano odore, poi alcune di noi hanno cominciato a sentirsi male”. Centinaia sono le testimonianze che ribadiscono le stesse parole, così come centinaia, secondo le stime del governo iraniano, sono le studentesse che frequentano le scuole colpite da episodi di avvelenamento che stanno avvenendo in Iran dalla fine di novembre 2022. Mal di testa, tosse, nausea, difficoltà respiratorie, palpitazioni, stati di sonnolenza acuta, questi sono i sintomi che le ragazze, e anche alcune insegnanti, hanno accusato dopo essere state esposte a quella che sembrerebbe una fuoriuscita di gas. Tutto è iniziato nella città sacra di Qom, conosciuta per essere il centro per gli studi religiosi sciiti, adesso le scuole coinvolte sarebbero 52 – a Lorestan, a Borujerd e perfino a Teheran – distribuite in 21 province del paese, come ha affermato il ministro dell’interno Ahmad Vahidi. Per mesi il governo ha minimizzato o, addirittura, negato i fatti accaduti accusando le studentesse di isteria e di fingere dei sintomi che necessiterebbero l’ospedalizzazione, come successo a molte di loro. Dopo molto tempo, il viceministro della salute Younes Panahi è stata la prima autorità a confermare gli avvelenamenti sostenendo che siano stati causati da sostanze chimiche reperibili con facilità e ha aggiunto, senza approfondire la questione, che qualcuno desidera che le ragazze non frequentino le scuole. Chi sono i responsabili? Le ipotesi più diffuse su chi stia intossicando le studentesse sono due. Alcuni sostengono che questi attacchi siano da imputare ad un gruppo estremista che è concorde con la politica che i talebani hanno attuato in Afghanistan riguardo l’istruzione femminile; altri ancora sono convinti che dietro tutto ciò ci sia il governo stesso che vuole scoraggiare donne e ragazze nel partecipare alle varie manifestazioni precedentemente citate. Solo quando questi eventi hanno catalizzato l’attenzione internazionale, il presidente Ebrahim Raisi ha annunciato l’apertura di un’inchiesta che ha portato all’arresto di oltre 100 persone accusate di avere legami con gruppi ostili. Tra gli arrestati, secondo il ministero dell’interno, c’è chi è sospettato di appartenere al gruppo di opposizione in esilio Mujahedin del popolo dell’Iran o Mujahedeen-e-Khalq (MEK), considerato dal governo un’organizzazione terrorista che vuole diffondere il panico tra la popolazione. Le indagini sono ancora in corso e si auspica che vengano condotte in maniera imparziale da parte delle autorità preposte anche se, come ricorda l’organizzazione Human Rights Watch, una lunga serie di precedenti fa pensare che la polizia possa agire in modo tendenzioso. Basti pensare alle donne che vennero sfregiate con l’acido da assalitori ignoti nel 2014 nella città di Isfahan, probabilmente perché indossavano il velo in modo non conforme alle norme vigenti in Iran, infatti le indagini portarono ad un nulla di fatto e le autorità negarono ogni coinvolgimento nelle aggressioni. Noi di Large Movements desideriamo che i veri responsabili di azioni tanto inique vengano consegnati alla giustizia e che il governo iraniano garantisca la sicurezza dei propri cittadini, nonché i loro diritti fondamentali. Auspichiamo che le donne iraniane possano vivere in piena libertà e realizzarsi secondo le proprie aspirazioni. Donna. Vita. Libertà. FONTI E APPROFONDIMENTI: I casi di avvelenamento di studentesse in Iran continuano ad aumentare – Il Post Iran: oltre 100 arresti per l’avvelenamento delle studentesse – Mondo – ANSA Large Movements – Donna, vita, libertà: la lotta delle donne iraniane è la lotta di tutte Large Movements – L’Iran e il ruolo della donna nell’Islam 6 grafici per capire le proteste in Iran | ISPI (ispionline.it) What explains mysterious poisonings of schoolgirls in Iran? | News | Al Jazeera Iranian Media Reports Hundreds of Schoolgirls Poisoned | Human Rights Watch (hrw.org) Acid attacks in Isfahan have nothing to do with the hijab, say Iranian officials | Iran | The Guardian ‘They used our hijabs to gag us’: Iran protesters tell of rapes, beatings and torture by police | Iran | The Guardian Se ti è piaciuto l’articolo, Condividici!

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I diritti delle donne nello Yemen in guerra

Prima dello scoppio della guerra in Yemen, le donne hanno dovuto affrontare gravi discriminazioni nei diritti, nella legge e nella pratica. Il conflitto ha aggravato la situazione aggravando la discriminazione e la violenza contro donne e ragazze yemenite.  Gli effetti della guerra sulla popolazione e i diritti delle donne in Yemen Il conflitto ha ridotto allo stremo e alla fame la popolazione. Le famiglie Yemenite hanno utilizzato le spose bambina come merce di scambio per poter ripianare i debiti e procurarsi cibo. La pratica dei matrimoni precoci rappresenta una grave violazione dei diritti dell’infanzia e delle donne. L’OXFAM riporta una situazione di crescente penuria di cibo che ha lasciato più di un milione di donne incinte che allattano in stato di malnutrizione. Anche con l’assistenza umanitaria, le donne mangiano per ultime, dando priorità ai bambini e ad altri membri della famiglia, o utilizzano il denaro per altre esigenze domestiche. La guerra in Yemen ha causato molti spostamenti di popolazione che hanno avuto l’effetto di creare insicurezza personale, instabilità familiare e mancanza di garanzia dei diritti per le donne. Le donne e le ragazze dello Yemen sono le più vulnerabili e le più esposte ai rischi e alle violenze di genere che avvengono sia all’interno che all’esterno dei campi per gli sfollati. Un’indagine sulla protezione degli sfollati interni e delle comunità ospitanti è stata effettuata nel Novembre del 2018 dalla Wajood Foundation for Human Security. L’indagine ha scoperto che le donne hanno sperimentato i livelli più alti di tutte le forme di violenza: psicologica, fisica e sessuale. A queste si aggiunge l’aumento delle detenzioni arbitrarie. Una volta detenuti, sia donne che uomini, hanno subito violenze sessuali. La situazione si complica poiché le vittime di violenza nello Yemen sono altamente stigmatizzate causando uno scarso numero di denunce. Tutto ciò rende difficile garantire i diritti delle donne dello Yemen. Secondo le Nazioni Unite la violenza contro le donne è aumentata del 63% dall’inizio del conflitto. La violenza da parte delle istituzioni Secondo il “Report of the Group of Eminent International and Regional Experts as submitted to the United Nations High Commissioner for Human Rights” nel 2018 e nel 2019 sono proliferate nuove norme di genere oppressive e le donne yemenite sono ulteriormente emarginate sotto il controllo e la coercizione delle parti in conflitto. Il sostegno limitato contro le violenze di genere sono peggiorate a causa del crollo del sistema di giustizia penale nel 2019. La discriminazione femminile veniva in ogni caso perpetuata dagli attori che dovevano applicare la legge, risultando una minaccia diretta e non una tutela per le donne dello Yemen. Le parti coinvolte nel conflitto, inoltre, hanno spesso accusato le donne yemenite di prostituzione, promiscuità e immoralità. Ciò ha aumentato i rischi di violenza domestica e dissuaso donne e ragazze ad uscire di casa, inibendo la loro partecipazione alla sfera economica e politica. Le violenze da parte delle forze di sicurezza degli Emirati Arabi Uniti e delle milizie Houthi Oltre alle accuse pubbliche, le forze coinvolte nel conflitto si sono macchiate direttamente di violenza sulle donne nello Yemen. I membri delle forze di sicurezza sostenute dagli Emirati Arabi Uniti hanno continuato a commettere violenze sessuali: i membri della 35esima Brigata corazzata hanno violentato e aggredito sessualmente donne e uomini, portando avanti un modello più ampio di violenza sessuale che prendeva di mira le persone vulnerabili provenienti da comunità migranti, rifugiati e muhamasheen (conosciuti anche come “afro-yemeniti”). Dal 2017 al 2019 i membri della Brigata hanno rapito gli individui e li hanno sottoposti a stupro, compreso stupro di gruppo e altre forme di violenza sessuale, anche come mezzo per umiliare e soggiogare i membri di queste comunità. Anche le milizie Houthi nel 2018 e nel 2019 hanno rapito e detenuto donne e ragazze per periodi lunghi, fino agli 8 mesi, per ricattare i parenti. Spesso queste donne vengono accusate di muoversi senza un tutore maschio. Il rapimento pone le donne e le ragazze a rischio di violenza sessuale, attirando lo stigma e ponendole ad ulteriori rischi. Tutto questo compromette i diritti delle donne nel paese e la loro sicurezza. Questi sono solo alcuni dei diritti umani violati dalle parti in conflitto. L’importanza delle donne Yemenite Vivere sotto il conflitto, per anni, è difficile. Per le donne yemenite è ancora più difficile. Le donne sopportano il peso della guerra e stanno guidando gli sforzi per aumentare la resistenza delle proprie comunità. Lo Yemen ha aderito alla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW) per tutelare i diritti delle donne e garantire le libertà politiche ed economiche. Occorre evidenziare che le donne yemenite sono di fondamentale importanza per il Peacebuilding a livello locale. Oltre alla situazione generale della guerra in Yemen, sul territorio si sono sviluppati una serie di conflitti locali per l’acqua e la terra. Spesso le donne si fanno carico della risoluzione di questi conflitti facendo da mediatrici tra le tribù e per trattare il rilascio di eventuali detenuti. Anche se le norme dello Yemen sono altamente conservatrici, rilevando criticità per quanto riguarda i diritti delle donne, queste sono importanti per le comunità rurali e la creazione della pace. La complessità del conflitto, però, non permette la partecipazione delle donne alle sedute formali dei processi di pace. Ciò esclude importanti risorse e voci che potrebbero contribuire a una maggiore pace sostenibile creata da giovani e, soprattutto,  da giovani donne della società civile. Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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Egitto: Crocevia di migrazioni

Paese di origine, transito e di destinazione dei migranti, l’Egitto è al centro dei processi migratori regionali in Nord Africa e in Medio Oriente. L’Egitto è il più popoloso Paese del mondo arabo, con una popolazione di circa 100 milioni di abitanti nel 2019 di cui la metà ha meno di 25 anni. Oltre ad essere paese di emigrazione, sia verso i Paesi arabi produttori di petrolio che verso l’Occidente, l’Egitto è uno stato di transito e un paese di destinazione per centinaia di migliaia di rifugiati e richiedenti asilo, provenienti soprattutto da Sudan e Sud-Sudan. Le continue violazioni dei diritti umani che si verificano nel Paese, però, non lo rendono un luogo sicuro per nessuno. L’emigrazione per motivi di lavoro L’emigrazione egiziana per motivi di lavoro, destinata per lo più ad altri paesi dell’area MENA, si può dividere in due grandi fasi. La prima si può inquadrare nel periodo che va dal XIX secolo alla metà del XX secolo e ha visto come protagonisti un numero limitato di lavoratori altamente qualificati, studiosi e professionisti che hanno contribuito allo sviluppo dei paesi limitrofi rimasti sotto il dominio ottomano o coloniale. Negli anni Cinquanta, infatti, l’ascesa al potere di Gamal Abdel Nasser, figura centrale per l’Egitto e la regione, anticolonialista e sostenitore del panarabismo e del c.d. socialismo arabo, ha dato una sfumatura politica al processo di emigrazione. Fino agli anni Sessanta, l’Egitto guidato da Nasser ha formato e inviato nei paesi arabi migliaia di professionisti egiziani quali parte integrante della strategia di soft power e posizionamento dello Stato. Questa mobilità “dall’alto”, rappresentava però un’eccezione rispetto alla politica migratoria restrittiva portata avanti da Nasser, sia per evitare l’allontanamento dal Paese degli oppositori politici, che per prevenire la “fuga di cervelli” non regolamentata. La seconda fase dell’emigrazione lavorativa egiziana è stata caratterizzata principalmente da flussi di manodopera poco o mediamente qualificata verso gli Stati arabi produttori di petrolio. Questa fase ha avuto inizio nei primi anni Settanta nel contesto della sconfitta dell’Egitto nella guerra arabo-israeliana del 1967 e del deterioramento delle finanze statali nella seconda metà degli anni Sessanta. In risposta alla crisi, Anwar Sadat, successore di Nasser, morto nel 1970, si impegnò in una strategia di liberalizzazione economica, nota come politica “a porte aperte”. Questa includeva l’eliminazione di ogni ostacolo all’emigrazione dei cittadini al fine di alleggerire lo stato di disoccupazione cronica e di sovrappopolazione in cui verteva il Paese. Altro importante incentivo all’emigrazione era rappresentato dalle rimesse economiche, che dagli anni Settanta fino ad inizio anni Novanta vennero considerate come fonte di reddito principale ed ancora oggi costituiscono una quota significativa del suo PIL. Con la caduta delle restrizioni, centinaia di migliaia di egiziani partirono nei paesi arabi limitrofi, approfittando della lingua comune e del bisogno di manodopera straniera dei paesi di destinazione. In termini di paesi di destinazione, la vicina Libia è stata per molti anni la destinazione principale per i migranti egiziani. Dalla metà degli anni Settanta in poi, con il deteriorarsi delle relazioni tra Egitto e Libia, la maggior parte dei lavoratori migranti egiziani si è diretta verso la regione del Golfo, approfittando delle sempre più forti relazioni dell’Egitto con l’Arabia Saudita, il Kuwait e l’Iraq. Tuttavia, il calo dei prezzi del petrolio dopo il 1979 ha contribuito alla costante diminuzione nel reclutamento egiziano nei Paesi produttori di petrolio. Allo stesso tempo, l’emigrazione regionale egiziana verso il Golfo ha subito un rallentamento a partire dagli anni Ottanta, a causa della preferenza accordata ai migranti asiatici. Oltre alle motivazioni di tipo economico, ad influenzare la migrazione di manodopera egiziana sono state anche motivazioni di tipo politico, ad esempio, l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq ha portato all’esodo dell’intera comunità egiziana dal Paese petrolifero nel 1990. Inoltre La Libia ha di fatto cessato di essere un importante Paese di destinazione dopo il rovesciamento del regime di Muammar al-Gheddafi nel 2011 e la conseguente discesa del Paese nella guerra civile. La diaspora egiziana in Occidente Seppur l’Arabia Saudita e la Giordania rimangono i paesi che ospitano il numero maggiore di migranti egiziani, milioni di persone sono emigrate anche nei paesi occidentali, soprattutto dopo la fine dell’era Nasser. In particolare, la rinascita dell’Islam politico in Egitto e nel Medio Oriente a partire dai primi anni Settanta, ha portato all’emigrazione di un gran numero di copti egiziani verso l’Occidente. I copti hanno creato comunità della diaspora, in particolare in Nord America, che hanno cercato di difendere gli interessi dei cristiani in Egitto. Dalla metà degli anni Settanta, a fronte di controlli sempre più severi sull’immigrazione in tutta Europa, gli egiziani hanno tentato di entrare in Europa attraverso il Mediterraneo, creando grandi comunità di migranti poco qualificati in tutta l’Europa meridionale. L’Italia è il terzo paese occidentale, dopo USA e Canada, per numero di egiziani ospitati e colpisce il fatto che l’Egitto è la seconda nazione di provenienza dei minori stranieri non accompagnati in Italia, dopo l’Albania, secondo il Rapporto della Comunità Egiziana in Italia del 2019. Un importante cambiamento si è verificato nel contesto della Rivoluzione egiziana del 2011, quando le organizzazioni della diaspora si sono moltiplicate e hanno tenuto proteste in tutto l’Occidente, cercando di contribuire al tentativo di democratizzazione dell’Egitto: Dopo la fine del regime di Mubarak, i Fratelli Musulmani hanno vinto le elezioni parlamentari e presidenziali del 2011/2012, ma il presidente Mohammed Morsi è stato destituito nel 2013 in seguito ad un golpe militare guidato, tra gli altri da Abel Fattah Al-Sisi, l’attuale presidente del Paese. Il cambio di guardia ha comportato un’altra ondata di emigrazione, questa volta dei membri dei Fratelli Musulmani che hanno cercato di evitare la persecuzione fuggendo in Turchia e Qatar. Violazioni dei diritti umani e ondate migratorie L’intervento militare del 2013 ha prodotto una profonda polarizzazione politica nel Paese, diviso sulla legittimità del regime di Al-Sisi, il quale oltre a modificare la costituzione per prolungare la sua permanenza al potere, si è macchiato negli anni di gravi accuse di violazioni dei diritti umani. Il caso più tristemente noto è quello di Giulio Regeni,

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