Loujain al-Hathloul

Loujain al-Hathloul è un’attivista saudita per i diritti delle donne.

La sua forza di volontà e la sua resistenza l’hanno portata a fare una differenza significativa nel suo paese, ma tutto si può affermare tranne che questo sia stato per lei e per le sue compagne un viaggio semplice.

Loujain è stata una delle leader del movimento Women2drive, nato negli anni ‘90 con l’obiettivo di ottenere il diritto di guidare le auto da parte delle donne.

Negli ultimi 7 anni la vita di Loujain è stata scandita da periodi più o meno lunghi di prigionia.

In possesso di una patente ottenuta negli Emirati Arabi Uniti, nel 2013 si era filmata mentre tornava a casa guidando, accompagnata dal marito, ma fu il video dell’anno dopo a fare scalpore e che divenne virale su You Tube, perché quella volta guidò da Abu Dhabi fino al confine con l’Arabia Saudita.

Nel 2014 il suo caso finì dinanzi ad un tribunale militare in quanto accusata di aver compiuto un gesto di sfida nei confronti del divieto di guida per le donne in Arabia Saudita, unico Paese al mondo che ancora manteneva viva questa legge.

Loujain venne arrestata il 1 Dicembre 2014, e insieme a lei anche la giornalista Maysaa al-Amoudi, che decise di guidare anche lei verso il confine per sostenere la sua compagna.

Loujain restò reclusa per un totale di circa 70 giorni.

Nel 2015, quando la monarchia saudita concesse per la prima volta il diritto di voto alle donne, Loujain decise di candidarsi alle elezioni locali. Anche se il suo nome non venne mai incluso nelle liste, la forte personalità e determinazione di Loujain venne riconosciuta, e venne inserita al terzo posto della classifica delle 100 donne arabe più potenti al mondo sul fronte culturale e sociale.

Il 4 giugno 2017 Loujain venne arrestata per la seconda volta in Arabia Saudita. La ragione non fu nota, e le fu impedito di mettersi in contatto con i suoi cari.

La lotta di Loujain e le sue compagne, nonostante tutte le difficoltà affrontate, ha portato il principe ereditario Mohammed bin Salman a consentire alle donne di guidare, e dal giugno del 2018 le donne poterono finalmente ottenere la patente di guida.

Appena prima di questo successo politico e umanitario, nel maggio del 2018 Loujain venne nuovamente arrestata con l’accusa di terrorismo e di aver cospirato contro l’Arabia Saudita insieme a Paesi “nemici”. Il suo processe venne spostato infatti in un tribunale speciale che si occupa di casi di terrorismo, quando Loujain altro non era che un’attivista pacifica.

Soltanto tre mesi dopo l’arresto venne trasferita in un carcere nella sua città natale, e fu in grado di incontrare la sua famiglia. Raccontò a loro ciò che era accaduto durante quelle settimane di carcere: fu costretta a vivere una reclusione disumanizzante, con sedute di elettroshock, frustate e abusi sessuali.

Per opporsi e denunciare le violenze subite, nell’ottobre del 2020 cominciò uno sciopero della fame, ma dopo due settimane le guardie carcerarie iniziarono a privarla del sonno svegliandola ogni due ore, e dopo diverse settimane estenuanti Loujain fu costretta a interrompere a riprendere a mangiare. Il 28 dicembre venne condannata a 5 anni e 8 mesi di carcere.

Il 31 luglio 2020, Loujain ha amaramente festeggiato il suo 31esimo compleanno in carcere, ed è stata rilasciata solamente a febbraio 2021, con il divieto di lasciare l’Arabia Saudita per cinque anni.

Il Global Gender Gap Report del 2020 del World Economic Forum, posiziona l’Arabia Saudita al 146esimo posto su 153 Paesi: quindi lo classifica come uno degli Stati peggiori in cui una donna possa vivere ad oggi, costretta ad avere un uomo come tutore che approvi la grande maggioranza delle sue azioni quotidiane.

Conoscere è resistere!

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Diritti LGBTQ+ in Egitto: niente di buono all’ombra delle piramidi

Le persone LGBTQ+ egiziane vivono una condizione estremamente drammatica: lasciate sole a fronteggiare le istituzioni, immerse in un contesto conservatore che le lascia ai margini della società. Negli ultimi anni, inoltre, quella che era una generale tendenza da parte dello Stato alla discriminazione, laddove possibile (non esistendo, in Egitto, una legge che punisca il “reato di omosessualità” o leggi affini), si è trasformato in un vero e proprio atteggiamento persecutorio attraverso norme emanate appositamente per colpire le minoranze sessuali. Senza il riconoscimento delle unioni per persone dello stesso sesso, senza una disciplina per l’omogenitorialità, senza tutele e politiche in favore delle persone transgender e delle altre minoranze sessuali, l’Egitto è ora più che mai un Paese profondamente avverso alla comunità LGBTQ+. Quadro Legislativo e Impatto nella Società Civile Come è stato già detto, il Codice Penale egiziano non accoglie al suo interno uno specifico divieto per le relazioni omosessuali o il travestitismo. Fino al 2000, le azioni contro le persone queer egiziane sono state portate avanti impugnando la legge n. 10 del 1961, la “legge sulla depravazione”, che prevede “pene fino a 17 anni di carcere per la pratica abituale della depravazione”. È tuttavia col nuovo millennio che lo Stato egiziano inaugura una serie di meccanismi legali basati su giurisprudenza e interpretazioni delle norme attraverso i quali sferrare colpi alla comunità LGBTQ+. Si afferma, infatti, la pratica della raccolta di prove online, ampiamente messa in atto dalle autorità del Paese. In pratica una divisione speciale del Ministero dell’Interno, la Direzione per la Protezione della Morale Pubblica, crea apposite trappole online su app o siti d’incontri per avere in seguito il pretesto per perseguire penalmente chiunque vi cada dentro. È in quegli anni di rinnovata intolleranza verso le minoranze sessuali che si sviluppa il caso dei Cairo 52: 52 uomini arrestati nel maggio del 2001 a bordo del nightclub galleggiante Queen Boat, ancorato sul Nilo al Cairo. Gli uomini, dichiaratisi tutti innocenti, si trovarono loro malgrado al centro dell’attenzione mediatica nazionale –  con giornali e riviste che pubblicarono i loro nomi e gli indirizzi di casa – e internazionale – con diverse ONG, membri del Congresso statunitense e le Nazioni Unite che denunciarono la scorrettezza dei procedimenti messi in atto. Quegli uomini, infatti, furono costretti a subire percosse ed esami fisici atti a “dimostrare la loro omosessualità”, rimanere per ore in piedi in celle anguste senza letti ed altre privazioni dei diritti umani. Il processo, conclusosi nel marzo 2003, portò alla condanna a 3 anni di prigione per 21 di loro, mentre i restanti vennero rilasciati. Questo forte atteggiamento discriminatorio da parte delle Istituzioni ha subito un ulteriore slancio con la presidenza di Al-Sisi, iniziata nel 2014. Secondo quanto riportato dall’Egyptian Initiative for Personal Rights, che è fra le poche realtà in Egitto a riconoscere i diritti LGBTQ+, fra il 2000 e il 2013 gli arresti legati all’omosessualità sarebbero 14. Dal 2013 al 2017 la media annuale sale a 66 arresti, con picchi di 75 nel 2017 e 92 nel 2019. Da marzo 2020, la situazione delle persone LGBTQ+ egiziane è ulteriormente peggiorata. Da questo momento in poi, i casi riguardanti le minoranze sessuali sono stati ricondotti alle violazioni della legge sulla criminalità informatica, con un consequenziale inasprimento delle multe e delle pene. Questa disciplina, infatti, dal 2019 è di competenza dei tribunali economici e si trova all’interno di un ambito in cui le definizioni sono molto vaghe, ambigue, aperte a più interpretazioni, la maggior parte delle quali usate a sfavore della comunità LGBTQ+. Se prima le condanne per depravazione si risolvevano in multe da 300-400 lire egiziane o reclusioni dai 3 ai 6 mesi, le nuove norme prevedono sanzioni fino a 100 mila lire egiziane e pene detentive di due anni minimo, come spiega Afsaneh Rigot, ricercatrice ed esperta in dati digitali e comunità LGBTQ+, che aggiunge: “Il quadro repressivo sempre più sofisticato e creativo che l’Egitto usa per criminalizzare la comunità LGBTQ+ minaccia non soltanto gli egiziani, ma anche tutte le persone LGBTQ+”. Percezione e Status Sociale Un quadro legislativo repressivo come quello appena descritto non può far ben sperare sul trattamento che le persone LGBTQ+ ricevono in Egitto e infatti le minoranze sessuali egiziane sono estremamente marginalizzate all’interno della società. Questa avversione della popolazione egiziana, abbracciata in toto dalle istituzioni statali, affonda le sue radici nel conservatorismo di matrice religiosa islamica e cristiana (le due confessioni principali del paese). Il pretesto principale che viene invocato a giustificazione della persecuzione in atto verso la comunità LGBTQ+ è infatti quasi sempre la preservazione degli usi e della morale del Paese che sono sempre il riflesso dei costumi religiosi imposti dall’Islam e dal Cristianesimo. Non è sempre stato così però. L’Egitto è stato la casa di una delle più grandi e avanzate civiltà del mondo antico che ha lasciato alle sue spalle maestose tracce del suo passaggio a perenne monito dell’ingegno e della creatività umana. Fra queste ritroviamo, purtroppo, poche testimonianze di come venisse vissuta l’omosessualità presso gli antichi egizi ma quello che ci è arrivato ci permette di fare alcune speculazioni: il ritrovamento di un cumulo tombale dedicato a quelli che sembrano in tutto e per tutto due amanti uomini, la presenza di personaggi e comportamenti omosessuali nella mitologia con le divinità Seth e Horus più altre testimonianze storiche più o meno affidabili sulle tendenze sessuali di alcuni faraoni (Pepi II nello specifico) sono tutti fattori che ci portano a dedurre che l’omosessualità di per sé non fosse condannata e fosse anche vissuta senza particolari preoccupazioni. Una condanna, al massimo, era riservata al partner passivo all’interno della relazione sessuale per aver “rinunciato” alle sue prerogative maschili ed essersi così “abbassato” al livello femminile, un atteggiamento che fa capo a una visione delle relazioni interpersonali più maschilista e patriarcale che esplicitamente omofoba. Al di là della sua origine, l’odio omofobico e transfobico è notevolmente presente nella società egiziana, perfettamente integrato fra i meccanismi che ne regolano il funzionamento. Se abbiamo già visto, da un lato, l’atteggiamento delle istituzioni, dall’altro troviamo i media egiziani che, in accordo con la linea seguita dal governo,

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Il progetto GAP. Il caso della diga di Ilisu e i movimenti locali di opposizione.

Come premesso nel precedente articolo sul Southeastern Anatolian Project (GAP), gli effetti della costruzione di una rete di infrastrutture tanto imponente ha determinato una reazione da parte della popolazione locale e dell’opinione pubblica internazionale. Tra le varie dighe quella di Ilisu è probabilmente la più controversa data la compresenza di effetti devastanti sul piano sociale, ambientale e storico-culturale. Dunque, rispetto a quest’ultima si prenderanno in considerazione, in primo luogo, le caratteristiche e gli effetti principali della diga e in un secondo momento verranno analizzati i movimenti locali che si sono dati in opposizione ad essa.  Caratteristiche della diga di Ilisu Tra tutte le dighe del GAP quella di Ilisu è quella di più recente inaugurazione essendo entrata in funzione nel 2021. Allo stesso tempo si tratta della diga che ha comportato una maggiore attenzione sul piano mediatico. Il costo stimato del progetto è di circa 2 Miliardi di euro, ed è la terza diga più grande del GAP con 1200Mw di capacità installata e portando ad un allagamento di circa 300km2 nella valle del Tigri. Il progetto risale alla seconda metà del Novecento con l’approvazione di una prima bozza negli anni 90, ma il primo consorzio per la sua costruzione collassa già nel 2002 e viene ricostituito nel 2005 con il coinvolgimento di compagnie Tedesche, Svizzere e Austriache le quali si attivano per cercare delle garanzie sui finanziamenti presso le proprie Agenzie di Credito all’Esportazione (ACE). Negli anni seguenti la non volontà da parte del governo turco nel fornire tutte le garanzie richieste sul piano della tutela ambientale, sociale e culturale ha comportato un passo indietro da parte delle ACE coinvolte e di alcune compagnie, spingendo il governo ad intervenire con garanzie da parte di banche e compagnie nazionali e dunque assumendosi esso stesso i rischi finanziari dell’infrastruttura. Effetti sociali della Diga La realizzazione della diga di Ilisu ha provocato lo sfollamento di 200 villaggi circostanti, per un totale di circa 78mila persone con dimora fissa e 3mila nomadi. Il progetto avrebbe inoltre impattato negativamente su circa 400 siti archeologici dei quali solo una piccola parte sarebbero stati evacuati e tra di essi spicca il caso della città di Hasankeyf, antica 12mila anni. Sul piano sociale i programmi di ricollocamento delle popolazioni sfollate si sono dimostrati completamente inadeguati. Dei due miliardi di euro stanziati per la realizzazione del progetto solamente 800milioni sono stati destinati alla realizzazione di infrastrutture e alle procedure di esproprio e reinsediamento degli sfollati. L’assegnazione di nuove abitazioni è stata fatta solamente per le città di Hasankeyf e Ilisu mentre per le persone provenienti da altri villaggi è stato previsto solamente un indennizzo. Questo è stato spesso rifiutato dai cittadini che si sono opposti all’esproprio. Per gli abitanti che hanno aderito al piano di reinsediamento è stata realizzata una città ad hoc, New-Hasankeyf, ma anche essi non hanno avuto vita facile. I prezzi per le nuove abitazioni sono stati tre volte più alti di quelle precedenti, cifre che in molti non si sono potuti permettere. Ciò ha comportato due fenomeni, da un lato molte persone sono state costrette ad indebitarsi per potersi insediare nelle nuove abitazioni; in altri casi le candidature sono state escluse facendo si che alcune abitazioni rimanessero in vendita con la possibilità di acquisto da parte di persone più ricche provenienti da altre città. Sembrerebbe inoltre che l’80% delle compensazioni pagate siano state spese al di fuori della regione interessata, a dimostrazione del fatto che si è determinato un fenomeno migratorio verso altre regioni e che il reinsediamento nella stessa sia stato fallimentare. Nel comprendere questi fenomeni sociali e migratori è necessario tenere in considerazione l’elevato impatto ambientale dell’infrastruttura. Si parla di effetti come desertificazione, aumento di tempeste di sabbia, siccità, inondazioni, aumento di eventi metereologici estremi, e distruzione della biodiversità dell’area. Tutti cambiamenti che hanno reso parte del quadrante inospitale per lo sviluppo di una vita degna, a maggior ragione nei casi in cui le persone coinvolte sono contadini e allevatori, ovvero persone che dipendono dalla stabilità dell’ecosistema. Tutto ciò non riguarda solamente l’area circostante alla diga di Ilisu ma intere aree lungo tutto il tragitto del fiume Tigri.   La reazione della popolazione locale L’elevatissimo impatto sul piano locale, ma anche gli effetti che dighe del genere hanno generato nelle città e nei paesi circostanti, hanno inevitabilmente prodotto una reazione da parte delle vittime di questi processi. Nonostante risulti complesso ricostruire in maniera esaustiva le modalità con le quali la popolazione locale e internazionale si è opposta e ribellata a queste infrastrutture è comunque possibile provare ad individuare alcune pratiche e organizzazioni principali che tornano più spesso nelle fonti esaminate.   Di fianco a forme più spontanee, tra le iniziative organizzate sul piano locale spicca la Initiative to Keep Hasankeyf Alive (IKHA), una rete locale di 86 soggetti fondata nel 2006 che comprende “Attivisti; ONG locali per i diritti umani, ambientali, culturali e delle donne; associazioni di professionisti e sindacati; e le municipalità colpite”. L’obiettivo dichiarato della rete è di bloccare la diga di Ilisu e migliorare le condizioni socioeconomiche degli e delle abitanti dell’area, e tutelare il patrimonio culturale ed ambientale tramite processi democratici. Il tipo di azione intrapresa ha in primo luogo avuto bisogno di costruire un’informazione alternativa a quella del governo che tendeva a sminuire gli effetti delle infrastrutture. Dunque, ad una prima elaborazione di Report informativi sono seguite delle fasi di mobilitazione vera e propria. Di fianco ad un lavoro di controinformazione e mobilitazione fatta sul piano territoriale è interessante mettere in evidenza tre principali tipi di campagne condotte:  Le campagne condotte sul piano legale e amministrativo – In numerose occasioni i rappresentanti delle municipalità colpite dagli effetti della diga si sono fatti promotori assieme agli abitanti e a diverse ONG di azioni legali e amministrative che tentassero di mettere in luce le problematiche associate alla diga di Ilisu. Tra queste, per esempio, è interessante citare la decisione del Tribunale Amministrativo di Ankara di dimezzare la dimensione della diga in quanto la Relazione sulla valutazione d’impatto ambientale risultava essere

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Salafiti: tra profonde differenze e reali unità

La difficoltà di comprendere il concetto di Salafismo – e quindi i Salafiti – inizia già con il tentativo di definirlo. È stato, infatti, identificato come una tendenza religiosa, un movimento di protesta, un movimento di riforma e ancora come una dottrina religiosa, ma nessuno di questi riesce a cogliere la vera entità del fenomeno. Oltretutto, il concetto di “Salafismo” – e di conseguenza la definizione di “salafiti” – ha assistito anche ad un’evoluzione profonda durante i secoli. Difatti, sono numerosi i pensatori ed i giuristi che hanno usato il termine in molte accezioni diverse e ciò rende ancora più difficile una ricostruzione chiara. L’origine e la differenza con il Wahhabismo Salafismo è un termine che deriva dall’arabo al-salaf al-ṣāliḥ, che letteralmente vuol dire ‘’antenati pii’’ e con cui si fa riferimento alle prime tre generazioni di musulmani: i Ṣaḥābi, i Tābiʿūn e i Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn. Secondo i salafiti quest’ultime rappresentano, a differenza dei musulmani di oggi, la versione pura e autentica dell’Islam, che si è persa nei secoli ed alla quale si dovrebbe tornare a fare riferimento. A livello ideologico, il Salafismo moderno risale soprattutto ad un giurista e teologo medievale, Ibn Taymiyya, vissuto tra il 1263 e il 1328 nel territorio dell’odierna Siria, sebbene l’attuale corrente venga ricondotta al wahhabismo, un movimento di riforma religiosa nato nel XVIII secolo e che caratterizza l’attuale Arabia Saudita. Nonostante molti tendano ad usare Wahhabismo e Salafismo come se fossero interscambiabili, i termini hanno connotazioni diverse, come viene chiaramente spiegato dallo studioso americano Blanchard: il primo termine, infatti, si riferisce ad “un credo islamico conservatore dell’Arabia Saudita” mentre il secondo ad “un movimento islamico puritano più generale che si è sviluppato in modo indipendente in vari tempi e in vari luoghi del mondo islamico”. I Salafiti uniti da un credo comune? Nella loro profonda differenza interna al movimento possiamo, tuttavia, riconoscere alcune caratteristiche di uguaglianza. Per una piena comprensione di ciò che accomuna tutti i salafiti passeremo attraverso la definizione di alcuni concetti chiave, senza i quali sarebbe impossibile l’osservazione basilare del fenomeno. Tutti i salafiti sono legati dallo stesso credo religioso, aqida, da cui traggono i principi e i metodi per applicare la propria fede a questioni e problemi anche contemporanei. Con il termine aqida (credo) ci si riferisce sia alle dottrine di base dell’Islam sia ai testi in cui vengono specificate queste dottrine. Nonostante il termine possa risultare di facile comprensione, l’aqida porta con sé un significato ben più complesso: esso indirizza le più importanti questioni religiose, fornisce i principi organizzativi e, più in generale, i vari aspetti del credo. L’unità di Dio è un punto cruciale per tutti i musulmani ma ha un significato particolare per i salafiti e viene espressa con il termine tawhid. L’unicità di Dio si sviluppa su tre dimensioni: Dio è il solo creatore e signore dell’universo, Dio è supremo e unico e Dio è il solo ad avere il diritto di essere onorato. Il tawhid deve essere difeso e rispettato e, solo seguendo severamente il Corano e l’esempio del Profeta Mohammed trasmesso attraverso la Sunna, è possibile farlo. Il Corano è la parola di Dio e la sua sacralità è evidente anche dal punto di vista della lingua utilizzata, l’arabo. Il testo sacro, infatti, è impossibile da tradurre ed anche impossibile da imitare sia nella forma che nel contenuto. La Sunna, anch’essa fonte scritta, contiene i testi, i fatti e persino i silenzi del profeta. L’importanza di seguire l’esempio di Muhammad si può comprendere da questo versetto coranico: “Voi avete, nel Messaggero di Dio, un esempio (iswah) buono, per chiunque speri in Dio e nell’Ultimo giorno e molto menzioni Dio”    (Corano, XXXIII, 21) Perciò, tutte le risposte sono contenute nel Corano e nella Sunna e l’importanza di attenersi a queste fonti è fondamentale perché ogni altro riferimento potrebbe portare a divergenze. Abbiamo già detto che il Corano è la parola di Dio; questo implica che non sia interpretabile. L’interpretazione, essendo un atto finalizzato ad attribuire un significato, presuppone un processo dove è la logica umana ad operare e l’applicazione dell’intelletto umano sui testi sacri non è consentita. È per tale motivo che non vengono riconosciute dai Salafiti le scuole giuridiche, perché queste hanno dato luogo a diversi indirizzi interpretativi delle stesse fonti. Detto ciò, il dovere di attenersi alle fonti sacre porta a non tollerare ogni forma di innovazione (bid’a). Ciò, però, non vuole dire che tutte le forme di innovazione sono respinte; difatti, solo quelle in seno all’Islam portano a prendere le distanze dal credo puro e vero. Un’importante distinzione va però fatta tra bid‘a e tajdīd, cioè tra innovazione religiosa e rinnovamento religioso. A differenza del primo concetto, che è visto con accezione negativa, il secondo è accettato in quanto nel processo di rinnovamento non viene apportata nessuna innovazione religiosa in seno all’Islam. Un ultimo termine che merita un approfondimento è un concetto che viene spesso usato, soprattutto dai media, in maniera incompleta ed a volte errata e che meglio aiuta ad inquadrare il Salafismo: stiamo parlando del ğihād.  La traduzione più familiare a noi è quella di “guerra santa”, sebbene, in realtà, si intenda qualcosa di molto più ampio. Viene definito ğihād ogni sforzo che il credente deve fare sulla via di Dio, un obbligo generale che riguarda ogni musulmano e che prevede di combattere le proprie cattive disposizioni e di migliorarsi sempre più, verso la strada di Dio. Si devono, dunque, distinguere lo ğihād minore – inteso come sforzo del musulmano verso la comunità e quindi concernente la sfera pubblica – dallo ğihād maggiore – che rappresenta lo sforzo di auto perfezionamento individuale e che si sviluppa, invece, nella dimensione privata. Quando si fa riferimento allo ğihād minore la valenza che gli viene attribuita è duplice: una che riguarda un intervento contro i vizi pubblici e una definita “braccio” ed è solo in questa seconda dimensione che viene menzionato l’utilizzo della forza. Questo cenno all’uso della forza è stato poi interpretato dalle frange estremiste come legittimante ad intraprendere la cosiddetta guerra santa. D’altra parte, i media,

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Il progetto GAP. Il peso nella politica interna turca e il ruolo dell’Unione Europea

Il Southeastern Anatolian Project, meglio conosciuto come GAP (Güneydoğu Anadolu Projesi), è una rete di infrastrutture in costruzione sui fiumi Tigri ed Eufrate con la doppia funzione di produrre energia elettrica e realizzare dei sistemi di irrigazione per l’area circostante. Essendo l’argomento già stato preso in analisi su Large Movements, l’intento di questo articolo è di integrare alcuni elementi leggendo il progetto sotto tre lenti principali. Quella nazionale legata alla dimensione energetica e al ruolo che il progetto riveste nella politica interna turca. Quella internazionale provando ad indagare il ruolo dell’Unione Europea nel promuovere o limitare lo sviluppo del progetto. Ed infine quella locale vedendo da un lato il caso specifico della diga di Ilisu, dall’altro i movimenti di opposizione che si sono dati contro questi progetti. Questa terza componente verrà approfondita successivamente. Caratteristiche del progetto e stato di avanzamento Nonostante progetti relativi allo sfruttamento delle acque dei fiumi Tigri ed Eufrate abbiamo una storia lontana diversi decenni, il GAP è stato lanciato solamente nel 1989 non unicamente come piano per lo sfruttamento delle risorse dei due fiumi, ma come vero e proprio “progetto di sviluppo socio-economico integrato e multisettoriale”.Il progetto dunque, prevederebbe la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche e impianti di irrigazione (Figura 1) che dovrebbero accompagnare lo sviluppo socio-economico dell’area in un contesto di forte crescita economica e demografica. Alla messa in funzione della Diga di Ataturk nel 1993, è seguita la realizzazione di altre infrastrutture, ultima delle quali la diga di Ilisu inaugurata nel 2020, la terza più grande di tutto il progetto. La Tabella 1 riporta dati aggiornati al 2015 e ricostruisce in parte lo sato di avanzamento dei lavori. Incrociando queste informazioni con quelle fornite dal sito ufficiale si evince che almeno dieci impianti sono attualmente in funzione. A tal proposito è necessario mettere in evidenza un elemento di rilievo rispetto alla possibilità di reperire delle fonti in materia. Dopo una scrematura delle principali fonti accademiche, ufficiali e divulgative risulta importante prendere nota del fatto che i dati relativi ai costi di produzione, ai finanziamenti, alle aziende coinvolte e ad aspetti più tecnici dei progetti stessi sono solo parzialmente disponibili in relazione ad ogni singola infrastruttura e spesso sono estremamente frammentati e poco aggiornati. Se da un lato l’ipotesi della differenza linguistica è sicuramente valida come potenziale limite per il reperimento di questi dati, dall’altro è da evidenziare come dalle fonti governative non vengano fornite tutte le informazioni necessarie ad una comprensione complessiva del progetto. Preso atto di questa difficoltà, nel prossimo articolo si prenderà in esame il caso specifico della Diga di Ilisu per provare a fornire un quadro più dettagliato. Il ruolo dell’idroelettrico nel mix energetico turco Il bisogno da parte del governo turco di promuovere con tanta insistenza una rete di infrastrutture del genere trova origine in valutazioni e obiettivi non solamente di carattere energetico ed economico, ma anche di carattere geopolitico sia sul piano interno che internazionale. Il fiume Eufrate rappresenta più del 19.4% del potenziale nazionale di energia idroelettrica prodotta (433 GWh l’anno), mentre il Tigri corrisponde all’11.2%. Il GAP una volta completato dovrebbe essere in grado di sfruttare 27.419 GWh/y di questo potenziale, ovvero il 10.9% dell’elettricità annuale prodotta in Turchia nel 2014. Comparando queste informazioni con i dati del 2019 dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, la Turchia fa affidamento sull’energia idroelettrica per la produzione di circa il 30% dell’elettricità (Figura 2). La restate parte è coperta in larghissima misura da gas naturale e carbone, due risorse prevalentemente importate dall’estero e che dunque sul piano strategico garantiscono meno sicurezza e stabilità. La totale messa in funzione del GAP coprirebbe un terzo di questo 30%, a dimostrazione della centralità che riveste nello sviluppo economico e nella strategia politica della Turchia contemporanea. Rafforzare l’idroelettrico, in maniera indiretta vorrebbe dire diminuire parzialmente il peso delle importazioni di gas naturale e carbone, riducendo in questo modo la dipendenza da attori internazionali come Russia, Azerbaijan e Iran. Un elemento non da poco per una nazione che sta facendo di tutto per imporsi come attore egemone sul piano regionale. Allo stesso tempo, gli effetti sociali ed ambientali avrebbero ripercussioni soprattutto sulla popolazione locale dell’area, fatta prevalentemente di curdi, i quali vengono percepiti come una minaccia da parte del governo centrale. Così si raggiungerebbe l’ulteriore obiettivo di indebolire, senza l’utilizzo diretto di armi, un fronte di resistenza che soprattutto dallo scoppio della guerra in Siria ha avuto più volte la capacità di accendere i riflettori su casi di aggressione militare e violazioni dei diritti umani. Il non intervento dell’UE Per comprendere qual è stato il ruolo delle potenze Europee nella realizzazione del GAP è necessario applicare due lenti di lettura. Da un lato c’è l’elemento economico, dettato soprattutto dal voler incentivare una spinta alla crescita e allo sviluppo delle regioni più ad oriente. Dall’altro ci sono la dimensione ambientale e sociale. Nonostante tali progetti vengano promossi come “energia pulita” e infrastrutture sostenibili, gli effetti sul piano ambientale e sociale sono enormemente destabilizzanti. La realizzazione di una quantità così imponente di dighe sta determinando numerosi casi di inondazioni e desertificazioni che oltre ad avere degli effetti negativi sulla biodiversità dell’area, ne hanno anche sulle popolazioni che vi abitano spesso costrette a migrazioni forzate di massa. Per l’intero progetto si tratterebbe di circa 200.000 persone sfollate. Rimanendo sul ruolo che ha rivestito l’UE, il tutto va letto all’interno di un quadro che ha visto almeno fino al 2016 una forte pressione da parte turca per essere accettata in quanto membro dell’Unione, e dunque nel bisogno di rientrare all’interno di tutta una serie di parametri sia di carattere economico, che sociale e ambientale. Proprio in questa direzione, se si risale all’origine del progetto, nel 1996 si sono aperti tra UE e Amministrazione del GAP dei negoziati. Durante queste trattative l’Unione ha deciso di finanziare con 47 milioni di euro una parte del “Programma di sviluppo regionale del GAP”, sulla carta un progetto volto a “ridurre ineguaglianze, stimolare crescita economica, e tutelare la protezione del patrimonio ambientale e

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Muzoon Almellehan

“Non smettere mai di imparare e di sognare. Non perdere mai la speranza.” La piccola Muzoon è nata l’8 aprile 1999 da Eman e Rakan Almellehan nella città di Dara’a, Siria, dove il papà lavorava come insegnante. Dara’a è stata teatro delle prime proteste contro il regime e di alcune delle prime repressioni contro la popolazione locale. Infatti, subito dopo lo scoppio della guerra civile siriana, la loro città fu assediata dalle forze governative. Due anni dopo, nel 2014, la città venne presa dalle forze islamiste, questo portò ad un inasprimento della guerra che spinse Muzoon e tutta la sua famiglia a scappare verso la Giordania. «Anche da bambina, sapevo che l’istruzione era fondamentale per il mio futuro. Quando ho dovuto abbandonare la Siria, gli unici effetti personali che ho portato con me sono stati i miei libri di scuola» racconta. Ciononostante, Muzoon è stata anche tra le prime – e le più giovani – rifugiate siriane a operare per realizzare un cambiamento. Il primo campo dove arrivarono fu quello di Za’atari, nei 18 mesi trascorsi lì, la piccola Muzoon cominciò ad occuparsi del diritto all’istruzione per i bambini, ed in primo luogo per le ragazze. Infatti, Muzoon si iscrisse alle scuole all’interno del campo, ma presto si accorse che molte ragazze rifugiate – alcune di 13 e 14 anni – interrompevano le lezioni e si sposavano. “Da rifugiata, ho visto cosa succede quando i bambini sono costretti a un matrimonio precoce o al lavoro manuale. Essi restano esclusi dal percorso formativo e perdono la possibilità di avere un futuro.” Racconta. “Ero fortunata perché mi trovavo in un campo dove c’erano delle scuole e perché i miei genitori credevano nell’istruzione“. Malgrado la sua età, Muzoon iniziò a girare di tenda in tenda per i campi, per parlare con i genitori del valore dell’istruzione e dei rischi del matrimonio precoce. In ogni occasione, esortava i genitori a rimandare le figlie a scuola. “Le ragazze devono ricevere un’istruzione”, dice Muzoon. “È la migliore protezione per loro. Se una madre non è istruita, come può aiutare i suoi figli? Se i giovani non sono istruiti, chi ricostruirà il nostro Paese?”. Le organizzazioni umanitarie cominciarono ad interessarsi al lavoro di Muzoon, per questo divenne una Good Will Ambassador di UNICEF. E quando il premio Nobel per la pace e Asia Game Changer, Malala Yousafzai andò a visitare il campo di Za’atari, fece di tutto per trovare Muzoon. Malala aveva sentito parlare del suo lavoro e i compagni di classe di Muzoon le raccontarono di essere stati ispirati e di essere rimasti a scuola grazie a Muzoon. Nel 2015, Muzoon e la sua famiglia, dopo aver rinunciato a vari reinsediamenti verso Canada e Svezia per motivi logistici, riuscirono finalmente a trovare rifugio nel Regno Unito nell’ambito di un piano annunciato nel mese di settembre da David Cameron con il quale il governo britannico prevedeva di accogliere 20.000 rifugiati siriani. Muzoon e la sua famiglia, riuscirono, quini a trasferirsi a Newcastle, dove tutti i figli della famiglia Almellehan frequentano la scuola di Kenton. Oggi Muzoon ha 23 anni ha terminato la scuola secondaria, ed ha finalmente realizzato il suo sogno di entrare all’università dove studia Scienze Politiche. Ma soprattutto, continua ad impegnarsi per difendere tutte le ragazze a cui è negata l’istruzione nel mondo, in particolare le sue sorelle siriane. “Abbiamo bisogno di istruzione, perché la Siria ha bisogno di noi“, dice Muzoon. “Senza di noi, chi porterà la pace?”. Noi di Large Movements condividiamo il pensiero di Muzoon ed abbiamo ritenuto importante condividere con voi la sua storia perché ci rendiamo conto di quanto, molto spesso diamo per scontato quello che abbiamo sotto il nostro naso. L’istruzione è una di quelle cose che molto spesso vengono date per scontato, quando, specialmente in un periodo così particolare, dovremmo tutti ricordarci che l’istruzione per tutti, ma soprattutto per tutte le donne e bambine di questo mondo sia fondamentale non solo per il raggiungimento dell’eguaglianza di genere, ma anche, e soprattutto, come dice Muzoon, per la loro stessa protezione e affinché in questo modo, anche le donne possano essere incluse come voce fondamentale all’interno delle trattative e dei processi di pace. Se ti è piaciuto l’articolo, CondividiCi!

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