Come premesso nel precedente articolo sul Southeastern Anatolian Project (GAP), gli effetti della costruzione di una rete di infrastrutture tanto imponente ha determinato una reazione da parte della popolazione locale e dell’opinione pubblica internazionale. Tra le varie dighe quella di Ilisu è probabilmente la più controversa data la compresenza di effetti devastanti sul piano sociale, ambientale e storico-culturale. Dunque, rispetto a quest’ultima si prenderanno in considerazione, in primo luogo, le caratteristiche e gli effetti principali della diga e in un secondo momento verranno analizzati i movimenti locali che si sono dati in opposizione ad essa.
Caratteristiche della diga di Ilisu
Tra tutte le dighe del GAP quella di Ilisu è quella di più recente inaugurazione essendo entrata in funzione nel 2021. Allo stesso tempo si tratta della diga che ha comportato una maggiore attenzione sul piano mediatico. Il costo stimato del progetto è di circa 2 Miliardi di euro, ed è la terza diga più grande del GAP con 1200Mw di capacità installata e portando ad un allagamento di circa 300km2 nella valle del Tigri. Il progetto risale alla seconda metà del Novecento con l’approvazione di una prima bozza negli anni 90, ma il primo consorzio per la sua costruzione collassa già nel 2002 e viene ricostituito nel 2005 con il coinvolgimento di compagnie Tedesche, Svizzere e Austriache le quali si attivano per cercare delle garanzie sui finanziamenti presso le proprie Agenzie di Credito all’Esportazione (ACE). Negli anni seguenti la non volontà da parte del governo turco nel fornire tutte le garanzie richieste sul piano della tutela ambientale, sociale e culturale ha comportato un passo indietro da parte delle ACE coinvolte e di alcune compagnie, spingendo il governo ad intervenire con garanzie da parte di banche e compagnie nazionali e dunque assumendosi esso stesso i rischi finanziari dell’infrastruttura.
Effetti sociali della Diga
La realizzazione della diga di Ilisu ha provocato lo sfollamento di 200 villaggi circostanti, per un totale di circa 78mila persone con dimora fissa e 3mila nomadi. Il progetto avrebbe inoltre impattato negativamente su circa 400 siti archeologici dei quali solo una piccola parte sarebbero stati evacuati e tra di essi spicca il caso della città di Hasankeyf, antica 12mila anni.
Sul piano sociale i programmi di ricollocamento delle popolazioni sfollate si sono dimostrati completamente inadeguati. Dei due miliardi di euro stanziati per la realizzazione del progetto solamente 800milioni sono stati destinati alla realizzazione di infrastrutture e alle procedure di esproprio e reinsediamento degli sfollati. L’assegnazione di nuove abitazioni è stata fatta solamente per le città di Hasankeyf e Ilisu mentre per le persone provenienti da altri villaggi è stato previsto solamente un indennizzo. Questo è stato spesso rifiutato dai cittadini che si sono opposti all’esproprio. Per gli abitanti che hanno aderito al piano di reinsediamento è stata realizzata una città ad hoc, New-Hasankeyf, ma anche essi non hanno avuto vita facile. I prezzi per le nuove abitazioni sono stati tre volte più alti di quelle precedenti, cifre che in molti non si sono potuti permettere. Ciò ha comportato due fenomeni, da un lato molte persone sono state costrette ad indebitarsi per potersi insediare nelle nuove abitazioni; in altri casi le candidature sono state escluse facendo si che alcune abitazioni rimanessero in vendita con la possibilità di acquisto da parte di persone più ricche provenienti da altre città. Sembrerebbe inoltre che l’80% delle compensazioni pagate siano state spese al di fuori della regione interessata, a dimostrazione del fatto che si è determinato un fenomeno migratorio verso altre regioni e che il reinsediamento nella stessa sia stato fallimentare. Nel comprendere questi fenomeni sociali e migratori è necessario tenere in considerazione l’elevato impatto ambientale dell’infrastruttura. Si parla di effetti come desertificazione, aumento di tempeste di sabbia, siccità, inondazioni, aumento di eventi metereologici estremi, e distruzione della biodiversità dell’area. Tutti cambiamenti che hanno reso parte del quadrante inospitale per lo sviluppo di una vita degna, a maggior ragione nei casi in cui le persone coinvolte sono contadini e allevatori, ovvero persone che dipendono dalla stabilità dell’ecosistema. Tutto ciò non riguarda solamente l’area circostante alla diga di Ilisu ma intere aree lungo tutto il tragitto del fiume Tigri.
La reazione della popolazione locale
L’elevatissimo impatto sul piano locale, ma anche gli effetti che dighe del genere hanno generato nelle città e nei paesi circostanti, hanno inevitabilmente prodotto una reazione da parte delle vittime di questi processi. Nonostante risulti complesso ricostruire in maniera esaustiva le modalità con le quali la popolazione locale e internazionale si è opposta e ribellata a queste infrastrutture è comunque possibile provare ad individuare alcune pratiche e organizzazioni principali che tornano più spesso nelle fonti esaminate.
Di fianco a forme più spontanee, tra le iniziative organizzate sul piano locale spicca la Initiative to Keep Hasankeyf Alive (IKHA), una rete locale di 86 soggetti fondata nel 2006 che comprende “Attivisti; ONG locali per i diritti umani, ambientali, culturali e delle donne; associazioni di professionisti e sindacati; e le municipalità colpite”. L’obiettivo dichiarato della rete è di bloccare la diga di Ilisu e migliorare le condizioni socioeconomiche degli e delle abitanti dell’area, e tutelare il patrimonio culturale ed ambientale tramite processi democratici. Il tipo di azione intrapresa ha in primo luogo avuto bisogno di costruire un’informazione alternativa a quella del governo che tendeva a sminuire gli effetti delle infrastrutture. Dunque, ad una prima elaborazione di Report informativi sono seguite delle fasi di mobilitazione vera e propria. Di fianco ad un lavoro di controinformazione e mobilitazione fatta sul piano territoriale è interessante mettere in evidenza tre principali tipi di campagne condotte:
Le campagne condotte sul piano legale e amministrativo – In numerose occasioni i rappresentanti delle municipalità colpite dagli effetti della diga si sono fatti promotori assieme agli abitanti e a diverse ONG di azioni legali e amministrative che tentassero di mettere in luce le problematiche associate alla diga di Ilisu. Tra queste, per esempio, è interessante citare la decisione del Tribunale Amministrativo di Ankara di dimezzare la dimensione della diga in quanto la Relazione sulla valutazione d’impatto ambientale risultava essere inadeguata, sentenza aggirata dal governo dopo appena tre mesi attraverso un cambiamento della legge presa in esame.
Le campagne rivolte a soggetti pubblici internazionali – Sul piano internazionale uno degli interlocutori principali al quale gli e le abitanti hanno chiesto aiuto sono state le Nazioni Unite. Nel 2011 la questione della diga di Ilisu è stata posta all’attenzione del CESCR, le cui raccomandazioni non vennero prese in considerazione dal governo turco. Tra il 2016 e il 2017 sono stati fatti più tentativi attraverso l’Unesco per il riconoscimento della città di Hasankeyf come patrimonio dell’umanità. Sempre nel 2017 è stata avviata una raccolta firme per portare la questione di fronte al Segretariato Generale delle Nazioni Unite.
Le campagne internazionali dirette a finanziatori e compagnie – Questo tipo di campagne rappresentano probabilmente quelle che si sono dimostrate più efficaci soprattutto alla luce dei passi indietro fatti da alcune compagnie e ACE occidentali sul progetto. Si tratta di mobilitazioni internazionali volte a mettere in luce i vari effetti negativi dell’infrastruttura con azioni svoltesi direttamente nei paesi occidentali coinvolti contro soggetti pubblici e privati colpevoli di finanziare le infrastrutture o compagnie operanti nella realizzazione dei progetti stessi.
Di fianco alle azioni e iniziative messe in campo dall’IKHA, anche il Partito dei Lavoratori Curdo (PKK) ha condotto delle operazioni di guerrilla dirette a sabotare le infrastrutture per la realizzazione della diga. Nel 2015, per esempio, sarebbero state distrutte diverse attrezzature e macchinari sul sito di costruzione.
La risposta del governo turco alle varie iniziative di protesta, più e meno radicali, è stata una militarizzazione completa del quadrante e una limitazione generalizzata delle libertà di manifestazione e di dissenso sul progetto, sfruttando spesso il conflitto armato in corso in Siria come pretesto per rafforzare la repressione. Dalla fine del 2015 la maggior parte dei lavoratori non è autoctona e l’area è completamente militarizzata con piccoli scontri tra forze turche e PKK. La presenza delle forze armate è diventata talmente intensa da limitare fortemente, e talvolta non permettere, la possibilità di inchiesta da parte di ricercatori indipendenti, attivisti e giornalisti. Anche alla luce del fallito colpo di stato del 2016 e con la dichiarazione dello stato di emergenza è stato impossibile organizzare e condurre manifestazioni o azioni pubbliche e dal 2017 le aree circostanti sono state dichiarate del governo come zona militare.
Non solo il proprio giardino
Con il tempo l’approccio tenuto da questi movimenti sembrerebbe non essersi concentrato su rivendicazioni solamente localiste, complice probabilmente anche la portata massiccia dell’intero GAP e il coinvolgimento di più stati negli effetti che esso genera. Ciò ha spinto i movimenti a cercare forme di networking sia sul piano regionale che internazionale. Se queste ultime sono già state in parte citate, le prime risultano particolarmente interessanti perché finiscono per intrecciarsi con questioni politiche più complesse che riguardano l’interno Kurdistan e non solamente la componente turca.
Nel 2012 viene lanciata la campagna Save the Tigris, una campagna della quale la stessa IKHA è promotrice assieme ad altre organizzazioni e movimenti turchi e iracheni. Il focus si sposta sul diritto all’acqua in Iraq, e quindi la connessione con la diga di Ilisu è implicita, ma si determina un approccio più ampio che guarda a tutto il GAP e ad altri progetti di dighe anche in Iran.
Nel 2015 il Mesopotamian Ecology Movement (MEM) si unisce alla campagna condotta dall’ IKHA contro il progetto di Ilisu. La rilevanza di quest’ultimo sta nel profondo legame con la rivoluzione curda fondata sul modello politico del Confederalismo Democratico, un’esperienza che si fonda su principi di democrazia radicale, ecologia e femminismo. Rispetto al MEM risoluta interessante riflettere su due aspetti. Il primo è che il movimento ha una forte vicinanza con esperienze politiche locali rivoluzionarie che fanno dell’ecologia e della giustizia sociale un principio cardine alla base della convivenza tra i popoli. In questo modo la questione dell’acqua e dell’ecologismo si intreccia a rivendicazioni più ampie che trovano le proprie radici nei movimenti indipendentisti curdi e che oggi attraversano una nuova fase sia a livello teorico che pratico. Il secondo è che parliamo di un movimento che sembrerebbe essere particolarmente strutturato nelle regioni del Kurdistan e che, anche alla luce dell’imponente diaspora curda nei paesi Europei, può vantare su numerosi contatti e una capacità di mobilitazione non solamente locale. Non a caso da quanto riportato dall’IKHA, dall’adesione del MEM si contano ben cinque manifestazioni e una giornata di mobilitazione globale nel 2015 che si è ripetuta nel 2017. L’impressione che si ha è che l’attivazione di questo movimento, con un taglio estremamente più strutturato, abbia dato nuova linfa ai movimenti già attivi.
Infine, sembra di rilievo citare l’ultima rete costruita attorno al tema dell’ecologismo e della difesa dell’acqua. Dalla consapevolezza della centralità dell’acqua in quanto potenziale strumento di guerra, e grazie alle collaborazioni instauratesi superando i confini nazionali, dal 2019 ad oggi si sono tenute le prime due edizioni del Mesopotamian Water Forum, una rete composta da attivisti curdi, turchi, iracheni, libanesi, giordani e di molte altre nazionalità che si stanno concentrato sul tema della tutela delle risorse idriche nella mezzaluna fertile mettendo in rete conoscenze e capacità.
Conclusioni
Dall’ultimo capitolo si evince una enorme ricchezza in termini di attivazione sociale con livelli di ragionamento politico estremamente avanzato che riescono a tenere insieme più piani geografici e tematici. Nonostante la sconfitta di parte di questi movimenti, data dal completamento e dalla messa in funzione della diga di Ilisu, resta comunque interessante ragionare su come sia stato possibile che; in un contesto caratterizzato da conflitti armati lunghi decenni, dalla presenza di regimi autoritari e talvolta dalla mancanza dello stato di diritto; si siano potute strutturare esperienze del genere. Risulta inoltre interessante mettere in evidenza la capacità da parte di questi movimenti di costruire reti internazionali in grado di condurre mobilitazioni su più livelli attaccando il progetto su tutti i vari piani decisionali e di coinvolgimento di attori; dai soggetti finanziatori, alle aziende costruttrici, ai decisori politici fino alle corti amministrative e internazionali. Per quanto la questione abbia fatto fatica ad affermarsi sui media mainstream occidentali, diverse mobilitazioni sono state condotte in numerosi paesi europei e più ONG e movimenti hanno fatto propria questa lotta. Dunque, nonostante la sconfitta e visto e considerato che il GAP è un progetto che va oltre la sola diga di Ilisu potrebbe essere interessante continuare a monitorare quel quadrante e le mega infrastrutture che lo stanno cambiando.
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