Il progetto GAP. Il caso della diga di Ilisu e i movimenti locali di opposizione.

Come premesso nel precedente articolo sul Southeastern Anatolian Project (GAP), gli effetti della costruzione di una rete di infrastrutture tanto imponente ha determinato una reazione da parte della popolazione locale e dell’opinione pubblica internazionale. Tra le varie dighe quella di Ilisu è probabilmente la più controversa data la compresenza di effetti devastanti sul piano sociale, ambientale e storico-culturale. Dunque, rispetto a quest’ultima si prenderanno in considerazione, in primo luogo, le caratteristiche e gli effetti principali della diga e in un secondo momento verranno analizzati i movimenti locali che si sono dati in opposizione ad essa. 

Caratteristiche della diga di Ilisu

Tra tutte le dighe del GAP quella di Ilisu è quella di più recente inaugurazione essendo entrata in funzione nel 2021. Allo stesso tempo si tratta della diga che ha comportato una maggiore attenzione sul piano mediatico. Il costo stimato del progetto è di circa 2 Miliardi di euro, ed è la terza diga più grande del GAP con 1200Mw di capacità installata e portando ad un allagamento di circa 300km2 nella valle del Tigri. Il progetto risale alla seconda metà del Novecento con l’approvazione di una prima bozza negli anni 90, ma il primo consorzio per la sua costruzione collassa già nel 2002 e viene ricostituito nel 2005 con il coinvolgimento di compagnie Tedesche, Svizzere e Austriache le quali si attivano per cercare delle garanzie sui finanziamenti presso le proprie Agenzie di Credito all’Esportazione (ACE). Negli anni seguenti la non volontà da parte del governo turco nel fornire tutte le garanzie richieste sul piano della tutela ambientale, sociale e culturale ha comportato un passo indietro da parte delle ACE coinvolte e di alcune compagnie, spingendo il governo ad intervenire con garanzie da parte di banche e compagnie nazionali e dunque assumendosi esso stesso i rischi finanziari dell’infrastruttura.

Effetti sociali della Diga

La realizzazione della diga di Ilisu ha provocato lo sfollamento di 200 villaggi circostanti, per un totale di circa 78mila persone con dimora fissa e 3mila nomadi. Il progetto avrebbe inoltre impattato negativamente su circa 400 siti archeologici dei quali solo una piccola parte sarebbero stati evacuati e tra di essi spicca il caso della città di Hasankeyf, antica 12mila anni.

Sul piano sociale i programmi di ricollocamento delle popolazioni sfollate si sono dimostrati completamente inadeguati. Dei due miliardi di euro stanziati per la realizzazione del progetto solamente 800milioni sono stati destinati alla realizzazione di infrastrutture e alle procedure di esproprio e reinsediamento degli sfollati. L’assegnazione di nuove abitazioni è stata fatta solamente per le città di Hasankeyf e Ilisu mentre per le persone provenienti da altri villaggi è stato previsto solamente un indennizzo. Questo è stato spesso rifiutato dai cittadini che si sono opposti all’esproprio. Per gli abitanti che hanno aderito al piano di reinsediamento è stata realizzata una città ad hoc, New-Hasankeyf, ma anche essi non hanno avuto vita facile. I prezzi per le nuove abitazioni sono stati tre volte più alti di quelle precedenti, cifre che in molti non si sono potuti permettere. Ciò ha comportato due fenomeni, da un lato molte persone sono state costrette ad indebitarsi per potersi insediare nelle nuove abitazioni; in altri casi le candidature sono state escluse facendo si che alcune abitazioni rimanessero in vendita con la possibilità di acquisto da parte di persone più ricche provenienti da altre città. Sembrerebbe inoltre che l’80% delle compensazioni pagate siano state spese al di fuori della regione interessata, a dimostrazione del fatto che si è determinato un fenomeno migratorio verso altre regioni e che il reinsediamento nella stessa sia stato fallimentare. Nel comprendere questi fenomeni sociali e migratori è necessario tenere in considerazione l’elevato impatto ambientale dell’infrastruttura. Si parla di effetti come desertificazione, aumento di tempeste di sabbia, siccità, inondazioni, aumento di eventi metereologici estremi, e distruzione della biodiversità dell’area. Tutti cambiamenti che hanno reso parte del quadrante inospitale per lo sviluppo di una vita degna, a maggior ragione nei casi in cui le persone coinvolte sono contadini e allevatori, ovvero persone che dipendono dalla stabilità dell’ecosistema. Tutto ciò non riguarda solamente l’area circostante alla diga di Ilisu ma intere aree lungo tutto il tragitto del fiume Tigri.  

La reazione della popolazione locale

L’elevatissimo impatto sul piano locale, ma anche gli effetti che dighe del genere hanno generato nelle città e nei paesi circostanti, hanno inevitabilmente prodotto una reazione da parte delle vittime di questi processi. Nonostante risulti complesso ricostruire in maniera esaustiva le modalità con le quali la popolazione locale e internazionale si è opposta e ribellata a queste infrastrutture è comunque possibile provare ad individuare alcune pratiche e organizzazioni principali che tornano più spesso nelle fonti esaminate.  

Di fianco a forme più spontanee, tra le iniziative organizzate sul piano locale spicca la Initiative to Keep Hasankeyf Alive (IKHA), una rete locale di 86 soggetti fondata nel 2006 che comprende “Attivisti; ONG locali per i diritti umani, ambientali, culturali e delle donne; associazioni di professionisti e sindacati; e le municipalità colpite”. L’obiettivo dichiarato della rete è di bloccare la diga di Ilisu e migliorare le condizioni socioeconomiche degli e delle abitanti dell’area, e tutelare il patrimonio culturale ed ambientale tramite processi democratici. Il tipo di azione intrapresa ha in primo luogo avuto bisogno di costruire un’informazione alternativa a quella del governo che tendeva a sminuire gli effetti delle infrastrutture. Dunque, ad una prima elaborazione di Report informativi sono seguite delle fasi di mobilitazione vera e propria. Di fianco ad un lavoro di controinformazione e mobilitazione fatta sul piano territoriale è interessante mettere in evidenza tre principali tipi di campagne condotte: 

Le campagne condotte sul piano legale e amministrativo – In numerose occasioni i rappresentanti delle municipalità colpite dagli effetti della diga si sono fatti promotori assieme agli abitanti e a diverse ONG di azioni legali e amministrative che tentassero di mettere in luce le problematiche associate alla diga di Ilisu. Tra queste, per esempio, è interessante citare la decisione del Tribunale Amministrativo di Ankara di dimezzare la dimensione della diga in quanto la Relazione sulla valutazione d’impatto ambientale risultava essere inadeguata, sentenza aggirata dal governo dopo appena tre mesi attraverso un cambiamento della legge presa in esame. 

Le campagne rivolte a soggetti pubblici internazionali – Sul piano internazionale uno degli interlocutori principali al quale gli e le abitanti hanno chiesto aiuto sono state le Nazioni Unite. Nel 2011 la questione della diga di Ilisu è stata posta all’attenzione del CESCR, le cui raccomandazioni non vennero prese in considerazione dal governo turco. Tra il 2016 e il 2017 sono stati fatti più tentativi attraverso l’Unesco per il riconoscimento della città di Hasankeyf come patrimonio dell’umanità. Sempre nel 2017 è stata avviata una raccolta firme per portare la questione di fronte al Segretariato Generale delle Nazioni Unite. 

Le campagne internazionali dirette a finanziatori e compagnie – Questo tipo di campagne rappresentano probabilmente quelle che si sono dimostrate più efficaci soprattutto alla luce dei passi indietro fatti da alcune compagnie e ACE occidentali sul progetto. Si tratta di mobilitazioni internazionali volte a mettere in luce i vari effetti negativi dell’infrastruttura con azioni svoltesi direttamente nei paesi occidentali coinvolti contro soggetti pubblici e privati colpevoli di finanziare le infrastrutture o compagnie operanti nella realizzazione dei progetti stessi. 

Di fianco alle azioni e iniziative messe in campo dall’IKHA, anche il Partito dei Lavoratori Curdo (PKK) ha condotto delle operazioni di guerrilla dirette a sabotare le infrastrutture per la realizzazione della diga. Nel 2015, per esempio, sarebbero state distrutte diverse attrezzature e macchinari sul sito di costruzione. 

La risposta del governo turco alle varie iniziative di protesta, più e meno radicali, è stata una militarizzazione completa del quadrante e una limitazione generalizzata delle libertà di manifestazione e di dissenso sul progetto, sfruttando spesso il conflitto armato in corso in Siria come pretesto per rafforzare la repressione. Dalla fine del 2015 la maggior parte dei lavoratori non è autoctona e l’area è completamente militarizzata con piccoli scontri tra forze turche e PKK. La presenza delle forze armate è diventata talmente intensa da limitare fortemente, e talvolta non permettere, la possibilità di inchiesta da parte di ricercatori indipendenti, attivisti e giornalisti. Anche alla luce del fallito colpo di stato del 2016 e con la dichiarazione dello stato di emergenza è stato impossibile organizzare e condurre manifestazioni o azioni pubbliche e dal 2017 le aree circostanti sono state dichiarate del governo come zona militare.

Non solo il proprio giardino

Con il tempo l’approccio tenuto da questi movimenti sembrerebbe non essersi concentrato su rivendicazioni solamente localiste, complice probabilmente anche la portata massiccia dell’intero GAP e il coinvolgimento di più stati negli effetti che esso genera. Ciò ha spinto i movimenti a cercare forme di networking sia sul piano regionale che internazionale. Se queste ultime sono già state in parte citate, le prime risultano particolarmente interessanti perché finiscono per intrecciarsi con questioni politiche più complesse che riguardano l’interno Kurdistan e non solamente la componente turca. 

Nel 2012 viene lanciata la campagna Save the Tigris, una campagna della quale la stessa IKHA è promotrice assieme ad altre organizzazioni e movimenti turchi e iracheni. Il focus si sposta sul diritto all’acqua in Iraq, e quindi la connessione con la diga di Ilisu è implicita, ma si determina un approccio più ampio che guarda a tutto il GAP e ad altri progetti di dighe anche in Iran. 

Nel 2015 il Mesopotamian Ecology Movement (MEM) si unisce alla campagna condotta dall’ IKHA contro il progetto di Ilisu. La rilevanza di quest’ultimo sta nel profondo legame con la rivoluzione curda fondata sul modello politico del Confederalismo Democratico, un’esperienza che si fonda su principi di democrazia radicale, ecologia e femminismo. Rispetto al MEM risoluta interessante riflettere su due aspetti. Il primo è che il movimento ha una forte vicinanza con esperienze politiche locali rivoluzionarie che fanno dell’ecologia e della giustizia sociale un principio cardine alla base della convivenza tra i popoli. In questo modo la questione dell’acqua e dell’ecologismo si intreccia a rivendicazioni più ampie che trovano le proprie radici nei movimenti indipendentisti curdi e che oggi attraversano una nuova fase sia a livello teorico che pratico. Il secondo è che parliamo di un movimento che sembrerebbe essere particolarmente strutturato nelle regioni del Kurdistan e che, anche alla luce dell’imponente diaspora curda nei paesi Europei, può vantare su numerosi contatti e una capacità di mobilitazione non solamente locale. Non a caso da quanto riportato dall’IKHA, dall’adesione del MEM si contano ben cinque manifestazioni e una giornata di mobilitazione globale nel 2015 che si è ripetuta nel 2017. L’impressione che si ha è che l’attivazione di questo movimento, con un taglio estremamente più strutturato, abbia dato nuova linfa ai movimenti già attivi. 

Infine, sembra di rilievo citare l’ultima rete costruita attorno al tema dell’ecologismo e della difesa dell’acqua. Dalla consapevolezza della centralità dell’acqua in quanto potenziale strumento di guerra, e grazie alle collaborazioni instauratesi superando i confini nazionali, dal 2019 ad oggi si sono tenute le prime due edizioni del Mesopotamian Water Forum, una rete composta da attivisti curdi, turchi, iracheni, libanesi, giordani e di molte altre nazionalità che si stanno concentrato sul tema della tutela delle risorse idriche nella mezzaluna fertile mettendo in rete conoscenze e capacità.

Conclusioni

Dall’ultimo capitolo si evince una enorme ricchezza in termini di attivazione sociale con livelli di ragionamento politico estremamente avanzato che riescono a tenere insieme più piani geografici e tematici. Nonostante la sconfitta di parte di questi movimenti, data dal completamento e dalla messa in funzione della diga di Ilisu, resta comunque interessante ragionare su come sia stato possibile che; in un contesto caratterizzato da conflitti armati lunghi decenni, dalla presenza di regimi autoritari e talvolta dalla mancanza dello stato di diritto; si siano potute strutturare esperienze del genere. Risulta inoltre interessante mettere in evidenza la capacità da parte di questi movimenti di costruire reti internazionali in grado di condurre mobilitazioni su più livelli attaccando il progetto su tutti i vari piani decisionali e di coinvolgimento di attori; dai soggetti finanziatori, alle aziende costruttrici, ai decisori politici fino alle corti amministrative e internazionali. Per quanto la questione abbia fatto fatica ad affermarsi sui media mainstream occidentali, diverse mobilitazioni sono state condotte in numerosi paesi europei e più ONG e movimenti hanno fatto propria questa lotta. Dunque, nonostante la sconfitta e visto e considerato che il GAP è un progetto che va oltre la sola diga di Ilisu potrebbe essere interessante continuare a monitorare quel quadrante e le mega infrastrutture che lo stanno cambiando. 

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Il progetto GAP. L’acqua, strumento di sviluppo o di forza?

L’acqua è indispensabile per la sopravvivenza e per lo sviluppo dell’essere umano. Sebbene la maggior parte della superficie del pianeta sia ricoperta da acque, solo l’1% di queste è fruibile all’uomo. Questa piccola percentuale basterebbe a soddisfare il fabbisogno mondiale se non fosse per la sua diseguale distribuzione. La cattiva gestione della risorsa, unita ad un insieme di altre variabili, sta portando ad una serie di problemi ambientali (carestie, siccità, desertificazioni, innalzamento delle temperature) e non, con ripercussioni sulle migrazioni e sul sottosviluppo.  Molte delle fonti d’acqua disponibili al mondo sono condivise tra vari paesi e questo conduce molto spesso all’esacerbarsi di tensioni ed a scontri diplomatico-politici. A tutto ciò si aggiunge anche il vertiginoso aumento del consumo di acqua dovuto alla crescita della popolazione mondiale ed al conseguente maggiore utilizzo in settori come quello domestico, agricolo, industriale ed energetico.  Secondo il report FAO The State of Food and Agriculture 2020, la quantità annuale di risorse di acqua dolce disponibili pro-capite è diminuita di oltre il 20% negli ultimi due decenni, fino ad arrivare anche al 30% in alcune aree. Le risorse idriche sono sempre più sotto pressione in tutto il mondo e la necessità di una gestione sostenibile che ne assicuri la disponibilità alle generazioni future non è mai stata così impellente. L’acqua sembrerebbe perciò destinata a divenire secondo molti un motivo di conflitto più importante del petrolio. Le guerre e le ripercussioni legate all’oro nero non sono nuove – il mondo è stato più volte scosso da motivazioni connesse allo sfruttamento di detta risorsa energetica – ma i conflitti legati alla gestione di risorse d’acqua, per quanto potrebbero essere percepiti come ancora lontani, sono più attuali che mai. L’acqua, oltre ad essere fondamentale per la sopravvivenza ed il benessere dell’essere umano, è anche funzionale allo sviluppo socioeconomico degli Stati ed è per questo che l’accesso alle risorse idriche è divenuto fondamentale. Ed è soprattutto in un’area come quella del Medio Oriente – dove la disponibilità e l’accesso a fonti di acqua è limitata – che il controllo delle risorse idriche sta divenendo un’arma geopolitica molto importante sullo scacchiere delle potenze, come il caso del Tigri e dell’Eufrate ci dimostra. Il Tigri, l’Eufrate e il progetto GAP La Mesopotamia ha favorito per millenni lo sviluppo di civiltà grazie alla fertilità donata dall’inondazione dei fiumi Tigri ed Eufrate e dalle opere di irrigazione create dall’uomo. Entrambi i fiumi si originano nei territori dell’attuale Turchia, proseguono in Siria per poi congiungersi in Iraq e sfociare nel Golfo Persico. Essi costituiscono un’importante risorsa d’acqua per tutti i paesi rivieraschi che attraversano: di fatto, molti grandi interventi sono stati realizzati per il loro utilizzo strategico, soprattutto negli ultimi anni.  In questo quadro si inserisce l’enorme progetto turco nel sud-est dell’Anatolia, il GAP (Güneydoğu Anadolu Projesi). Questo progetto prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche per la riqualificazione di un territorio caratterizzato da: rigide condizioni territoriali e climatiche, risorse idriche mal distribuite, terre aride, insufficienti servizi sociali, bassi livelli di reddito pro capite e modelli di migrazione “inusuali”.  La Turchia negli ultimi decenni è stata interessata da un forte sviluppo economico e sociale che ha generato un incremento del benessere della sua popolazione e, conseguentemente, del fabbisogno di energia.  È sorto così il progetto del GAP che, da un lato, doveva rispondere alla rapida crescita economica e demografica dell’intero paese e, dall’altro, doveva migliorare gli standard socioeconomici della regione interessata dalla sua presenza, attraverso la riduzione delle disparità e delle disuguaglianze con le altre regioni della Turchia.  Il GAP, quindi, potrebbe portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e del benessere dell’area e ad una maggiore efficienza in termini di produzione energetica prodotta a basso costo ed a basse emissioni. A tutti questi benefici per il territorio e per la popolazione turca, tuttavia, si aggiunge una serie di risvolti sociali, politici, ambientali e culturali negativi. Il GAP come motivo di tensione tra Stati Lo sfruttamento dei due fiumi ha portato negli anni ad una serie di problematiche politiche e diplomatiche tra la Turchia e gli altri due paesi rivieraschi, Siria ed Iraq.  Fino agli anni ’60, le relazioni tra i paesi non erano influenzate da tensioni legate all’utilizzo delle acque, poiché le dimensioni dei progetti sviluppati sui due fiumi erano contenute e non prevedevano un utilizzo intensivo della risorsa idrica. Le tensioni si inasprirono quando iniziarono i primi passi concreti verso la realizzazione di vari progetti idroelettrici in tutti e tre i paesi, come la costruzione della diga di Keban in Turchia, la diga di Tabqa in Siria – che con il riempimento del bacino del lago di Assad ha scatenato la collera dell’Iraq – ed il lancio ufficiale del GAP negli anni ’70, che vide l’inaugurazione della prima diga, Karakaya, alla fine degli anni ’80. Venne, dunque, creato un Comitato Tecnico Congiunto (JTC) per cercare di raggiungere un accordo per uno sfruttamento bilanciato di entrambi i fiumi tra i tre paesi. Inizialmente, al Comitato parteciparono solo Turchia e Iraq. La Siria si aggiunse solo in seguito, ma il lavoro del JTC non portò mai ad un risultato concreto.  Il primo accordo si ottenne solo a livello bilaterale nel 1987 tra Turchia e Siria, stabilendo un rilascio medio annuo di 16 miliardi di metri cubi di acqua alla Siria con una portata minima annua media di 500 m3/s. A questo seguirono una serie di altri accordi, tra i quali quello del 1990 tra Siria e Iraq nel quale i due paesi concordarono di ricevere rispettivamente il 42% e il 58% del flusso dell’Eufrate al confine turco-siriano. Il completamento della diga di Atatürk nel 1990, fiore all’occhiello dell’intero progetto GAP nonché una delle dighe più grandi al mondo, fece riemergere diverse tensioni tra i paesi. La Turchia, infatti, per riempire il bacino della diga deviò l’Eufrate per circa un mese, causando una notevole riduzione della quantità ed il peggioramento della qualità dell’acqua diretta verso la Siria e l’Iraq. A seguito dell’episodio, vennero inviate invano note minacciose alla Turchia per richiedere lo stop alla costruzione di altre dighe previste sul corso dei due fiumi, come quelle

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Il progetto GAP. Il peso nella politica interna turca e il ruolo dell’Unione Europea

Il Southeastern Anatolian Project, meglio conosciuto come GAP (Güneydoğu Anadolu Projesi), è una rete di infrastrutture in costruzione sui fiumi Tigri ed Eufrate con la doppia funzione di produrre energia elettrica e realizzare dei sistemi di irrigazione per l’area circostante. Essendo l’argomento già stato preso in analisi su Large Movements, l’intento di questo articolo è di integrare alcuni elementi leggendo il progetto sotto tre lenti principali. Quella nazionale legata alla dimensione energetica e al ruolo che il progetto riveste nella politica interna turca. Quella internazionale provando ad indagare il ruolo dell’Unione Europea nel promuovere o limitare lo sviluppo del progetto. Ed infine quella locale vedendo da un lato il caso specifico della diga di Ilisu, dall’altro i movimenti di opposizione che si sono dati contro questi progetti. Questa terza componente verrà approfondita successivamente. Caratteristiche del progetto e stato di avanzamento Nonostante progetti relativi allo sfruttamento delle acque dei fiumi Tigri ed Eufrate abbiamo una storia lontana diversi decenni, il GAP è stato lanciato solamente nel 1989 non unicamente come piano per lo sfruttamento delle risorse dei due fiumi, ma come vero e proprio “progetto di sviluppo socio-economico integrato e multisettoriale”.Il progetto dunque, prevederebbe la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche e impianti di irrigazione (Figura 1) che dovrebbero accompagnare lo sviluppo socio-economico dell’area in un contesto di forte crescita economica e demografica. Alla messa in funzione della Diga di Ataturk nel 1993, è seguita la realizzazione di altre infrastrutture, ultima delle quali la diga di Ilisu inaugurata nel 2020, la terza più grande di tutto il progetto. La Tabella 1 riporta dati aggiornati al 2015 e ricostruisce in parte lo sato di avanzamento dei lavori. Incrociando queste informazioni con quelle fornite dal sito ufficiale si evince che almeno dieci impianti sono attualmente in funzione. A tal proposito è necessario mettere in evidenza un elemento di rilievo rispetto alla possibilità di reperire delle fonti in materia. Dopo una scrematura delle principali fonti accademiche, ufficiali e divulgative risulta importante prendere nota del fatto che i dati relativi ai costi di produzione, ai finanziamenti, alle aziende coinvolte e ad aspetti più tecnici dei progetti stessi sono solo parzialmente disponibili in relazione ad ogni singola infrastruttura e spesso sono estremamente frammentati e poco aggiornati. Se da un lato l’ipotesi della differenza linguistica è sicuramente valida come potenziale limite per il reperimento di questi dati, dall’altro è da evidenziare come dalle fonti governative non vengano fornite tutte le informazioni necessarie ad una comprensione complessiva del progetto. Preso atto di questa difficoltà, nel prossimo articolo si prenderà in esame il caso specifico della Diga di Ilisu per provare a fornire un quadro più dettagliato. Il ruolo dell’idroelettrico nel mix energetico turco Il bisogno da parte del governo turco di promuovere con tanta insistenza una rete di infrastrutture del genere trova origine in valutazioni e obiettivi non solamente di carattere energetico ed economico, ma anche di carattere geopolitico sia sul piano interno che internazionale. Il fiume Eufrate rappresenta più del 19.4% del potenziale nazionale di energia idroelettrica prodotta (433 GWh l’anno), mentre il Tigri corrisponde all’11.2%. Il GAP una volta completato dovrebbe essere in grado di sfruttare 27.419 GWh/y di questo potenziale, ovvero il 10.9% dell’elettricità annuale prodotta in Turchia nel 2014. Comparando queste informazioni con i dati del 2019 dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, la Turchia fa affidamento sull’energia idroelettrica per la produzione di circa il 30% dell’elettricità (Figura 2). La restate parte è coperta in larghissima misura da gas naturale e carbone, due risorse prevalentemente importate dall’estero e che dunque sul piano strategico garantiscono meno sicurezza e stabilità. La totale messa in funzione del GAP coprirebbe un terzo di questo 30%, a dimostrazione della centralità che riveste nello sviluppo economico e nella strategia politica della Turchia contemporanea. Rafforzare l’idroelettrico, in maniera indiretta vorrebbe dire diminuire parzialmente il peso delle importazioni di gas naturale e carbone, riducendo in questo modo la dipendenza da attori internazionali come Russia, Azerbaijan e Iran. Un elemento non da poco per una nazione che sta facendo di tutto per imporsi come attore egemone sul piano regionale. Allo stesso tempo, gli effetti sociali ed ambientali avrebbero ripercussioni soprattutto sulla popolazione locale dell’area, fatta prevalentemente di curdi, i quali vengono percepiti come una minaccia da parte del governo centrale. Così si raggiungerebbe l’ulteriore obiettivo di indebolire, senza l’utilizzo diretto di armi, un fronte di resistenza che soprattutto dallo scoppio della guerra in Siria ha avuto più volte la capacità di accendere i riflettori su casi di aggressione militare e violazioni dei diritti umani. Il non intervento dell’UE Per comprendere qual è stato il ruolo delle potenze Europee nella realizzazione del GAP è necessario applicare due lenti di lettura. Da un lato c’è l’elemento economico, dettato soprattutto dal voler incentivare una spinta alla crescita e allo sviluppo delle regioni più ad oriente. Dall’altro ci sono la dimensione ambientale e sociale. Nonostante tali progetti vengano promossi come “energia pulita” e infrastrutture sostenibili, gli effetti sul piano ambientale e sociale sono enormemente destabilizzanti. La realizzazione di una quantità così imponente di dighe sta determinando numerosi casi di inondazioni e desertificazioni che oltre ad avere degli effetti negativi sulla biodiversità dell’area, ne hanno anche sulle popolazioni che vi abitano spesso costrette a migrazioni forzate di massa. Per l’intero progetto si tratterebbe di circa 200.000 persone sfollate. Rimanendo sul ruolo che ha rivestito l’UE, il tutto va letto all’interno di un quadro che ha visto almeno fino al 2016 una forte pressione da parte turca per essere accettata in quanto membro dell’Unione, e dunque nel bisogno di rientrare all’interno di tutta una serie di parametri sia di carattere economico, che sociale e ambientale. Proprio in questa direzione, se si risale all’origine del progetto, nel 1996 si sono aperti tra UE e Amministrazione del GAP dei negoziati. Durante queste trattative l’Unione ha deciso di finanziare con 47 milioni di euro una parte del “Programma di sviluppo regionale del GAP”, sulla carta un progetto volto a “ridurre ineguaglianze, stimolare crescita economica, e tutelare la protezione del patrimonio ambientale e

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