Nadia Murad per la dignità delle vittime della tratta di esseri umani

Nadia Murad Basee Taha è una donna Yazida Irachena conosciuta per essere sopravvissuta alla prigionia ed allo stupro sistematico da parte dei militanti dell’Isis, da agosto 2014 a novembre dello stesso anno, quando è riuscita a fuggire.

Nel 2015 ha portato all’attenzione delle Nazioni Unite il tema della schiavitù sessuale e delle altre atrocità praticate dall’Isis nei confronti delle minoranze religiose diverse dall’Islam, raccontando di aver assistito ad un vero e proprio sterminio, e chiedendo di portare alla Corte Internazionale questo caso come un caso di genocidio. Nel 2016 Nadia Murad ha deciso di intraprendere un’azione legale contro i comandanti dell’Isis. Nello stesso anno diventa Ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani. Nel 2018 vince il premio Nobel per la Pace.

La persecuzione degli Yazidi da parte dello Stato Islamico

Nadia Murad è nata e cresciuta in una famiglia di Yazidi nel villaggio di Kocho, nel nord dell’Iraq, dove viveva con la madre, i suoi 8 fratelli e le sue 2 sorelle, e sognava di diventare un’insegnante.

Nel suo libro, L’ultima ragazza, Nadia racconta che lo yazidismo è una delle più antiche religioni monoteistiche diffuse oralmente da sacerdoti, che tramandano le loro tradizioni e storie con questo metodo. È una religione preislamica che, nonostante abbia alcuni punti di congiunzione con le altre religioni mediorientali, si può affermare essere unica nel suo genere e spiegarne le caratteristiche e le peculiarità può risultare difficile anche per gli stessi sacerdoti che ne sono i massimi rappresentanti.

Nell’agosto del 2014 l’Isis riuscì a conquistare il Sinjar senza particolari impedimenti, incontrando solo la temporanea resistenza degli yazidi stessi, che cercarono di difendere i loro villaggi con le armi e le poche munizioni che avevano a disposizione. L’opera di occupazione fu resa ancora più semplice dal fatto che gli arabi sunniti delle zone vicine non si erano ribellati, ma avevano anzi deciso di unirsi alle milizie dell’Isis, collaborando a bloccare la fuga degli yazidi.

Alla caduta dei villaggi come Kocho, contribuì anche il ritiro delle truppe peshmerga – combattenti curdi del Kurdistan attivi nell’Iraq settentrionale, che avevano promesso di proteggere quelle zone dai militanti.

Più tardi, questa decisione venne giustificata dal governo curdo: poiché l’esercito non sarebbe riuscito a proteggere quella zona, si era deciso di dispiegare i soldati in altre aree in cui vi erano più possibilità di vittoria.

Il 15 agosto del 2014 i militanti dell’Isis radunarono l’intero villaggio di Kocho in una scuola e separarono uomini, donne e bambini. Tuttavia, lo scopo dell’Isis non era solamente quello di uccidere tutti gli Yazidi, indipendentemente dal loro genere, bensì il gruppo terroristico mirava a distruggerne integralmente la cultura. Per questo motivo quindi, le donne vennero rapite e ridotte in schiavitù. Furono torturate mediante lo stupro così da fare in modo che le stesse non sarebbero più state in grado di vivere una vita normale da quel momento in avanti.

Nadia Murad, durante un suo discorso alle Nazioni Unite, raccontò di aver visto con i suoi occhi l’uccisione di tutti gli uomini, sei dei quali erano suoi fratelli.

Le donne ed i bambini vennero deportati in un’altra regione, subendo ogni tipo di umiliazione durante il viaggio in autobus. Nadia e le altre arrivarono a Mosul, dove si trovavano molte altre ragazze yazide, considerate infedeli dallo stato islamico. Secondo l’interpretazione jihadista del Corano – seguita alla lettera dai militanti – violentare una schiava non era considerato un peccato. Sin dal momento in cui vennero fatte salire sugli autobus per raggiungere Mosul, Nadia e le altre donne divennero quindi vittime di tratta e schiave sessuali.

Nadia venne condotta di fronte ad un tribunale jihadista, preposto a stabilire quale militante fosse il proprietario esclusivo di ciascuna ragazza yazida. La procedura formale era sempre la stessa: un giudice avrebbe attestato la “genuina” conversione all’Islam delle ragazze ed ufficializzato quindi la loro unione con il proprio carnefice. Un “matrimonio” fondato sullo stupro da parte dei militanti. Una vera e propria arma usata per annientare la dignità delle donne Yazide.

A un certo punto non resta altro che gli stupri. Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio. Smetti di pensare alla fuga o a rivedere la tua famiglia. Il passato diventa un ricordo lontano, come un sogno. Il tuo corpo non ti appartiene e non hai le energie per parlare, per ribellarti, per pensare al mondo esterno. Ci sono solo gli stupri e l’insensibilità scaturita dall’accettazione che questa è la tua vita, adesso.”

Nel suo libro, Nadia usa queste parole durissime per descrivere la sua quotidianità dopo essere stata ceduta al suo secondo proprietario, poco prima di riuscire a fuggire dal militante che avrebbe dovuto trasferirla in Siria.

La fuga di Nadia Murad dallo stato islamico

La fuga di Nadia fu resa possibile grazie ad un errore del suo carnefice: il militante che la teneva prigioniera l’aveva infatti lasciata da sola in casa senza chiudere a chiave la porta, credendola forse troppo debole, stanca, disperata e debilitata per tentare di fuggire.

Nadia, dopo aver camminato a lungo nel buio di Mosul, decise di chiedere aiuto ed asilo bussando alla porta di una casa nella speranza che non appartenesse a simpatizzanti dello stato islamico. Nadia ebbe la fortuna di imbattersi in una famiglia sunnita che non aveva avuto i mezzi per lasciare Mosul dopo l’arrivo di Daesh, e che accettò di aiutarla. Le procurarono un documento falso, ed uno degli uomini della famiglia la accompagnò in taxi fino a Kirkuk, poi a Sulaymaniyah, ed infine ad Erbil, dove Nadia poté ricongiungersi con parte della sua famiglia, con la quale raggiunse Zakho, ed infine la Germania.

Nadia Murad oggi

Dopo il suo primo viaggio a Ginevra, dove tenne il suo primo discorso alle Nazioni Unite, Nadia Murad ha raccontato la sua storia molte altre volte, coinvolgendo persone di ogni provenienza professionale, come giornalisti, diplomatici e chiunque abbia dimostrato interesse nel disastro che l’Isis ha provocato in Iraq. Da quel momento Nadia si è dedicata in tutto e per tutto all’attivismo, per portare alla luce la verità sul genocidio yazida operato dallo stato islamico.

Nadia Murad ha anche collaborato con Yazda, l’associazione globale Yazida, lavorando attivamente insieme ad altri sopravvissuti come lei.

Grazie al suo impegno e a quello di molti altri sopravvissuti, negli ultimi anni Paesi come il Canada hanno deciso di accogliere un maggior numero di profughi yazidi. Tutte le violenze subite dagli Yazidi per mano dello stato islamico, insieme all’annientamento sistematico dei loro luoghi di culto e del loro intero retaggio culturale, hanno spinto le Nazioni Unite a classificare le atroci azioni dell’Isis perpetrate nei loro confronti come vero e proprio genocidio. Inoltre, molti avvocati si sono prestati ad aiutare la comunità di Nadia Murad per rendere giustizia a questa minoranza martoriata.

Oggi decidiamo di celebrare Nadia Murad Basee Taha perché la sua voce ci aiuta a ricostruire la storia difficile di una minoranza che non deve essere dimenticata; perché crediamo che il suo coraggio, la sua umanità ed il suo implacabile desiderio di giustizia possano farci desiderare un mondo meno silenzioso nei confronti di questi soprusi, e spingerci a prendere una posizione.

Dopo aver raccontato la mia storia non mi fermai. Dissi che non mi avevano mai insegnato a parlare in pubblico. Dissi che ogni yazida vuole che l’ISIS venga perseguito per genocidio, e che loro avevano il potere di aiutare a proteggere le popolazioni vulnerabili di tutto il mondo. Dissi che volevo guardare negli occhi gli uomini che mi avevano violentata e vederli rispondere dei loro crimini. Più di ogni altra cosa, dissi, voglio essere l’ultima ragazza al mondo con una storia come la mia.

L’ultima ragazza, Nadia Murad Basee Taha, 2017

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Egitto: Crocevia di migrazioni

Paese di origine, transito e di destinazione dei migranti, l’Egitto è al centro dei processi migratori regionali in Nord Africa e in Medio Oriente. L’Egitto è il più popoloso Paese del mondo arabo, con una popolazione di circa 100 milioni di abitanti nel 2019 di cui la metà ha meno di 25 anni. Oltre ad essere paese di emigrazione, sia verso i Paesi arabi produttori di petrolio che verso l’Occidente, l’Egitto è uno stato di transito e un paese di destinazione per centinaia di migliaia di rifugiati e richiedenti asilo, provenienti soprattutto da Sudan e Sud-Sudan. Le continue violazioni dei diritti umani che si verificano nel Paese, però, non lo rendono un luogo sicuro per nessuno. L’emigrazione per motivi di lavoro L’emigrazione egiziana per motivi di lavoro, destinata per lo più ad altri paesi dell’area MENA, si può dividere in due grandi fasi. La prima si può inquadrare nel periodo che va dal XIX secolo alla metà del XX secolo e ha visto come protagonisti un numero limitato di lavoratori altamente qualificati, studiosi e professionisti che hanno contribuito allo sviluppo dei paesi limitrofi rimasti sotto il dominio ottomano o coloniale. Negli anni Cinquanta, infatti, l’ascesa al potere di Gamal Abdel Nasser, figura centrale per l’Egitto e la regione, anticolonialista e sostenitore del panarabismo e del c.d. socialismo arabo, ha dato una sfumatura politica al processo di emigrazione. Fino agli anni Sessanta, l’Egitto guidato da Nasser ha formato e inviato nei paesi arabi migliaia di professionisti egiziani quali parte integrante della strategia di soft power e posizionamento dello Stato. Questa mobilità “dall’alto”, rappresentava però un’eccezione rispetto alla politica migratoria restrittiva portata avanti da Nasser, sia per evitare l’allontanamento dal Paese degli oppositori politici, che per prevenire la “fuga di cervelli” non regolamentata. La seconda fase dell’emigrazione lavorativa egiziana è stata caratterizzata principalmente da flussi di manodopera poco o mediamente qualificata verso gli Stati arabi produttori di petrolio. Questa fase ha avuto inizio nei primi anni Settanta nel contesto della sconfitta dell’Egitto nella guerra arabo-israeliana del 1967 e del deterioramento delle finanze statali nella seconda metà degli anni Sessanta. In risposta alla crisi, Anwar Sadat, successore di Nasser, morto nel 1970, si impegnò in una strategia di liberalizzazione economica, nota come politica “a porte aperte”. Questa includeva l’eliminazione di ogni ostacolo all’emigrazione dei cittadini al fine di alleggerire lo stato di disoccupazione cronica e di sovrappopolazione in cui verteva il Paese. Altro importante incentivo all’emigrazione era rappresentato dalle rimesse economiche, che dagli anni Settanta fino ad inizio anni Novanta vennero considerate come fonte di reddito principale ed ancora oggi costituiscono una quota significativa del suo PIL. Con la caduta delle restrizioni, centinaia di migliaia di egiziani partirono nei paesi arabi limitrofi, approfittando della lingua comune e del bisogno di manodopera straniera dei paesi di destinazione. In termini di paesi di destinazione, la vicina Libia è stata per molti anni la destinazione principale per i migranti egiziani. Dalla metà degli anni Settanta in poi, con il deteriorarsi delle relazioni tra Egitto e Libia, la maggior parte dei lavoratori migranti egiziani si è diretta verso la regione del Golfo, approfittando delle sempre più forti relazioni dell’Egitto con l’Arabia Saudita, il Kuwait e l’Iraq. Tuttavia, il calo dei prezzi del petrolio dopo il 1979 ha contribuito alla costante diminuzione nel reclutamento egiziano nei Paesi produttori di petrolio. Allo stesso tempo, l’emigrazione regionale egiziana verso il Golfo ha subito un rallentamento a partire dagli anni Ottanta, a causa della preferenza accordata ai migranti asiatici. Oltre alle motivazioni di tipo economico, ad influenzare la migrazione di manodopera egiziana sono state anche motivazioni di tipo politico, ad esempio, l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq ha portato all’esodo dell’intera comunità egiziana dal Paese petrolifero nel 1990. Inoltre La Libia ha di fatto cessato di essere un importante Paese di destinazione dopo il rovesciamento del regime di Muammar al-Gheddafi nel 2011 e la conseguente discesa del Paese nella guerra civile. La diaspora egiziana in Occidente Seppur l’Arabia Saudita e la Giordania rimangono i paesi che ospitano il numero maggiore di migranti egiziani, milioni di persone sono emigrate anche nei paesi occidentali, soprattutto dopo la fine dell’era Nasser. In particolare, la rinascita dell’Islam politico in Egitto e nel Medio Oriente a partire dai primi anni Settanta, ha portato all’emigrazione di un gran numero di copti egiziani verso l’Occidente. I copti hanno creato comunità della diaspora, in particolare in Nord America, che hanno cercato di difendere gli interessi dei cristiani in Egitto. Dalla metà degli anni Settanta, a fronte di controlli sempre più severi sull’immigrazione in tutta Europa, gli egiziani hanno tentato di entrare in Europa attraverso il Mediterraneo, creando grandi comunità di migranti poco qualificati in tutta l’Europa meridionale. L’Italia è il terzo paese occidentale, dopo USA e Canada, per numero di egiziani ospitati e colpisce il fatto che l’Egitto è la seconda nazione di provenienza dei minori stranieri non accompagnati in Italia, dopo l’Albania, secondo il Rapporto della Comunità Egiziana in Italia del 2019. Un importante cambiamento si è verificato nel contesto della Rivoluzione egiziana del 2011, quando le organizzazioni della diaspora si sono moltiplicate e hanno tenuto proteste in tutto l’Occidente, cercando di contribuire al tentativo di democratizzazione dell’Egitto: Dopo la fine del regime di Mubarak, i Fratelli Musulmani hanno vinto le elezioni parlamentari e presidenziali del 2011/2012, ma il presidente Mohammed Morsi è stato destituito nel 2013 in seguito ad un golpe militare guidato, tra gli altri da Abel Fattah Al-Sisi, l’attuale presidente del Paese. Il cambio di guardia ha comportato un’altra ondata di emigrazione, questa volta dei membri dei Fratelli Musulmani che hanno cercato di evitare la persecuzione fuggendo in Turchia e Qatar. Violazioni dei diritti umani e ondate migratorie L’intervento militare del 2013 ha prodotto una profonda polarizzazione politica nel Paese, diviso sulla legittimità del regime di Al-Sisi, il quale oltre a modificare la costituzione per prolungare la sua permanenza al potere, si è macchiato negli anni di gravi accuse di violazioni dei diritti umani. Il caso più tristemente noto è quello di Giulio Regeni,

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Diritti politici in Egitto durante la presidenza di Al-Sisi

La presidenza di Al-Sisi, comincia dopo il golpe del 2013 ai danni del presidente Morsi, unico presidente eletto democraticamente nella storia del paese; fin da subito il governo di Al-Sisi si caratterizzò per un profondo e violento depauperamento dei diritti politici e sociali in Egitto. Fu immediatamente chiara la strategia con la quale Al-Sisi intendeva mantenere il potere in Egitto: soprusi, violenze ed omicidi sarebbero divenuti fatti all’ordine del giorno. Ciò che emerge con chiarezza infatti, è l’uso diffuso di varie forme di intimidazione volte a scoraggiare sia gli esponenti politici che i semplici giornalisti dal porre interrogativi sull’operato del governo e dei suoi rappresentanti. La polizia e l’esercito sovente impongono la volontà governativa attraverso varie forme di violenze, dalle intimidazioni e minacce a pestaggi, arresti arbitrari e purtroppo omicidi. Ogni persona, anche solo sospetta di volersi opporre al regime, è in pericolo. Lo scopo è palese: creare un clima politico e sociale di terrore, per impedire la formazione e la potenziale diffusione di qualsiasi forma di opposizione al regime. Il governo egiziano, quindi ritiene necessario utilizzare le forze armate come principale mezzo per il mantenimento del potere. Al centro della strategia politica di Al-Sisi vi è il rafforzamento delle strutture militari e della polizia così da creare un sistema clientelare e violento che ha definitivamente contribuito a consolidare il potere presidenziale. La polizia all’interno dell’apparato di potere egiziano ha un ruolo predominante, essendo lo strumento privilegiato – e perciò tutelato – con il quale il presidente impone le sue politiche alla popolazione e sopprime qualsiasi opposizione alla sua azione di governo.  La polizia gode di una quasi totale liberà nell’esercitare le sue funzioni, un’immunità di fondo che gli garantisce ampissimi margini di manovra per le operazioni che esegue, per sopprimere e disincentivare qualsiasi forma di contestazione al regime. (https://www.internazionale.it/notizie/blandine-lavignon/2020/04/22/egitto-ascesa-polizia). Lo strapotere che la polizia detiene all’interno della società si evince dalle numerose nomine dei suoi generali ai vertici dell’alta amministrazione egiziana, rendendo evidente come le violenze e le atrocità commesse da questa siano riconducibili direttamente ed inequivocabilmente alla volontà presidenziale. Anche l’esercito gode di ampi poteri discrezionali nella scelta del proprio modus operandi che gli garantisce un’importante e diffusa pressione sulla popolazione civile. Negli anni della sua presidenza, Al-Sisi ha posto al vertice dei ministeri, o in altre ruoli chiave, esponenti delle forze armate le quali hanno la funzione di fungere da contrappeso, agli occhi del presidente, allo strapotere della polizia. Di fatto questi due centri di potere devono essere bilanciati essendo potenzialmente in competizione fra loro. Proprio per rispettare questo bilanciamento di poteri dunque, il presidente elargisce favori e garanzie di immunità ad entrambi a discapito dei diritti politici della popolazione d’Egitto, che non può far altro che subirne le gravi e continue violenze. Nello specifico si pensi che il diritto di riunione e di libertà di espressione è profondamente limitato e la polizia fa rispettare queste limitazioni perpetrando arresti arbitrari e sottoponendo i prigionieri a tortura. Le autorità accusano gli oppositori politici di terrorismo, sottoponendoli a processi iniqui e arbitrari che si concludono spesso con la condanna alla detenzione in carceri mal tenuti e in cui vigono regole medievali. Il clima è ancor più esasperato da continui interventi presidenziali volti a modificare le discipline che regolano la magistratura ed i partiti politici. Dall’agosto del 2018 infatti, il governo può sciogliere arbitrariamente partiti indipendenti, impendendo così la costruzione di qualsiasi forma di opposizione legale al regime. Inoltre, di altrettanta gravità, è l’allargamento della giurisdizione dei tribunali militari divenuti – insieme ai neo-tribunali straordinari – il vero fulcro del potere giudiziario in Egitto. Detti tribunali sono caratterizzati da procedimenti sommari e gli esiti dei processi sono fortemente influenzati da pressioni governative che consentono di ammettere come valide le testimonianze rese sotto tortura e/o altra forma di pressione psicologica. Il quadro è ancor più drammatico con riferimento all’individuazione di potenziali oppositori politici: in questo caso, polizia ed esercito non sono sottoposte ad alcun tipo di limite o controllo in fase di identificazione di questi soggetti. Al contrario, il potere giudiziario asseconda questa assenza di disciplina chiara quando si tratta di individuare gli oppositori.  Ciò che stupisce dell’attuale situazione è che vi è stato un notevole indebolimento delle garanzie afferenti i diritti politici in Egitto. Seppur vero che nemmeno la presidenza di Mubarak si distinguesse particolarmente per la tutela e la salvaguardia dei diritti civili e politici in Egitto impossibile non notare come la degenerazione sia sempre più rapida. Si pensi in effetti che i principali agitatori della Rivoluzione egiziana del 2011, quella che portò alle dimissioni di Mubarak, furono i lavoratori, i quali,  stanchi delle pressioni dei capi sindacali, quasi tutti filo-governativi,  occuparono le piazze delle principali città egiziane (https://www.internazionale.it/notizie/blandine-lavignon/2020/04/22/egitto-ascesa-polizia ); ciò oggi sarebbe impensabile sia per un fondamentale disinteresse della classe politica rispetto alle istanze della popolazione e sia perché la polizia e i vari apparati governativi rendono impossibile qualsiasi forma di manifestazione del dissenso. L’attuale governo teme ogni tipo di rivendicazione di quelle forze che hanno permesso la fine del trentennale potere di Mubarak, ogni egiziano in questo senso è un potenziale oppositore.  A ben vedere non vi sono luoghi della democrazia che non siano stati compressi o del tutto eliminati da parte del governo tramite l’azione repressiva della polizia. Sono considerati “nemici della democrazia” tutti coloro che pongono domande o direttamente contestano l’operato del governo, come le ONG (https://espresso.repubblica.it/internazionale/2017/01/16/news/human-rights-watch-in-egitto-con-al-sisi-la-societa-civile-e-a-rischio-estinzione-1.293464 ) e i giornali indipendenti che, ad oggi, non esistono più; in tal senso è emblematica la vicenda dei giornalisti della redazione del giornale Mada Masr, (https://www.internazionale.it/bloc-notes/catherine-cornet/2019/11/26/egitto-raid-mada-masr ) che era l’unico giornale egiziano con cui si potevano reperire informazioni contro il governo, i quali sono stati in gran parte picchiati e arrestati. La questione sulla libertà di stampa appare ancor più preoccupante anche se si considera che ad oggi non vi sono giornali egiziani degni di questo nome dal momento che quelli rimasti intenti solo a fungere da megafono del governo. In Egitto infatti risulta difficilissimo svolgere la professione del giornalista, a meno che non si voglia

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Zainab Salbi per i diritti delle donne sopravvissute ai conflitti armati

La piccola Zainab è nata in Iraq, e sin dalla sua nascita la sua vista è stata colpita dall’esperienza della guerra. La famiglia di Zainab era una delle più protette del paese, infatti suo padre era uno dei migliori piloti dello stato, impiegato della compagnia Boeing, mentre sua madre era un’insegnante. In compenso, nonostante l’agio in cui la sua famiglia si trovava, con la salita al potere di Saddam Hussein iniziarono a subire pesanti abusi psicologici da parte di quest’ultimo. Infatti, se la maggior parte della popolazione irachena subì violenze sia fisiche che psicologiche, alla sua famiglia furono “risparmiate” solamente quelle fisiche. D’altronde, al fine di consolidare il proprio potere, il dittatore doveva attorniarsi dell’élite di Baghdad. L’accordo fu che il padre divenne il pilota personale di Hussein in cambio della non-deportazione della moglie – di lontane origini iraniane. La famiglia di Zainab decise, quindi, di “salvare la propria figlia” tramite un matrimonio combinato con un americano iracheno molto più anziano rispetto a lei, che all’epoca aveva solo 19 anni, e che la portò a vivere negli Stati Uniti. Il matrimonio si rilevò subito violento, e solamente dopo tre mesi Zainab riuscì a scappare dalla casa del marito. Nel frattempo, anche se Zainab ha sempre voluto tornare in Iraq, a causa della Guerra del Golfo che scoppiò qualche mese dopo il suo arrivo in America nel 1990, non riuscì mai a ritornarci. L’esperienza di Zainab con la guerra l’ha sensibilizzata alla difficile situazione delle donne in guerra. Infatti, quando seppe della guerra in Bosnia, pochi anni dopo il suo arrivo negli Stati Uniti, decise – a soli 23 anni – di agire fondando Women for Women International con il suo secondo marito Amjad Atallah, dedicando, dunque, la sua vita al servizio delle donne sopravvissute alle guerre. Il gruppo iniziò assistendo 33 donne croate e bosniache nel 1993. La missione stessa dell’organizzazione è quella di offrire supporto alle donne sopravvissute alla guerra ed ai suoi postumi. Il fine ultimo è quello di includere le sopravvissute nella ricostruzione della comunità e di tutta la società stessa. Infatti, secondo Zainab, alla fine di un conflitto è proprio dalle donne che bisogna ripartire in quanto esse sono coloro che provvedono al sostentamento della famiglia e della comunità, ricostruendo in questa maniera, lo strappato tessuto sociale. Sotto la sua leadership, dal 1993 al 2004, l’organizzazione umanitaria Women for Women International è riuscita ad aiutare più di 478.000 donne in 8 conflitti avvenuti intorno al mondo, distribuendo oltre 120 milioni di dollari in aiuti diretti e microcrediti, che hanno avuto un impatto su più di 1.7 milioni di famiglie. Zainab è sempre stata risoluta nel sostenere l’idea che l’accesso all’istruzione ed alle risorse porta ad un cambiamento duraturo nella vita delle donne. Zainab, inoltre, ha scritto e parlato estensivamente sull’uso dello stupro e di altre forme di violenza contro le donne durante la guerra. Il suo lavoro è infatti stato presentato nei principali media. Inoltre, il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, ha onorato Zainab alla Casa Bianca per il suo lavoro umanitario in Bosnia. Zainab è stata anche identificata come una delle 100 donne più influenti al mondo in vari testate giornalistiche come il Times e il The Guardian. Dopo 20 anni di lavoro con donne sopravvissute alla guerra – dalla Repubblica Democratica del Cogno fin all’Afghanistan – Zainab è arrivata a realizzare che la ricetta segreta per il cambiamento nella vita delle donne è l’ispirazione. Infatti, nel 2011 ha annunciato le sue dimissioni dal ruolo ricoperto in Women for Women International per esplorare il “mondo dell’ispirazione” nei media. Zainab inoltre siede nel Consiglio di Amministrazione di Synergos e dell’International Refugee Assistance Project (IRAP). Nel 2015, Zainab ha inoltre lanciato un talk show rivoluzionario con TLC Arabia chiamato “The Nidaa Show”, che è andato in onda in oltre 22 paesi del mondo arabo. La novità di tale show, infatti, è stata che quest’ultimo è stato dedicato al riconoscimento delle donne arabe e mussulmane, alle loro storie, le loro sfide e i loro traguardi raggiunti ed è iniziato per la prima volta con una storica intervista ad Oprah Winfrey. Il talk show ha raggiunto picchi così importanti che Zainab è stata insignita di tantissimi premi ad esso connessi, incluso la nomina come prima Donna Araba più Influente dall’ Arabian Business. Zainab si è inoltre laureata alla George Mason University con una Laurea Triennale in Studi Individualizzati in Sociologia ed in studi di genere, ed un master alla London School of Economics con un master in Studi sullo Sviluppo. Zainab, infine, è l’autrice di vari libri, fra cui il bestseller “Una donna tra due mondi: la mia vita all’ombra di Saddam Hussein”. Noi di Large Movements condividiamo il pensiero di Zainab e riteniamo importante condividere con voi la sua storia perché ci battiamo ogni giorno affinché il ruolo delle donne nel dibattito migratorio venga valorizzato, specialmente durante i conflitti. È infatti fondamentale non idealizzare le donne sopravvissute ai conflitti, vittimizzandole, privandole così della possibilità di partecipare attivamente al dibattito. Al contrario, è necessario ripartire proprio dalle donne, garantendogli una voce nonché un posto ai tavoli decisionali al fine di garantire la loro emancipazione e di renderle artefici della ricostruzione del tessuto sociale di appartenenza. “We have to wake up and we have to roar and we have to stand up. That’s not an activist’ job. That’s every woman’s job.” “Dobbiamo svegliarci, dobbiamo ruggire, dobbiamo rialzarci. Questo non è un lavoro da attivista. Questo è il lavoro di ogni donna.” – Zainab Salbi Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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Atena Daemi per i Diritti Umani in Iran

Atena Daemi sognava la fine della pena di morte nel suo paese, L’Iran, e auspicava a un rispetto maggiore dei diritti umani. Per questa ragione è stata incarcerata, picchiata e detenuta in isolamento. Oggi racconteremo la storia di questa donna coraggiosa e vedremo insieme la situazione dei diritti umani in Iran. I Diritti Umani in Iran Atena Daemi è stata incarcerata per la sua lotta a favore dei diritti umani che in Iran, suo paese natale, spesso non vengono rispettati. Secondo il più recente rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani, il paese soffre di gravi discriminazioni di genere, una percentuale troppo elevata di detenzioni arbitrarie e problematiche relative all’applicazione della pena di morte. Vediamo nello specifico quali sono i problemi. Per quanto riguarda la pena di morte e le detenzioni arbitrarie, nel paese sono state registrati numeri elevati di esecuzioni anche per crimini che non rientrano nelle categorie più gravi. Per categorie gravi la Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite intende solo quelli riguardanti omicidi intenzionali. Le esecuzioni sono state spesso il seguito di processi tenutisi in modo iniquo e con l’uso della tortura al fine di estrarre una confessione fittizia: in particolare per circostanze con connessioni alle proteste antigovernative che hanno avuto luogo nel paese negli ultimi anni. Il caso più emblematico è quello di Navid Afkari che è stato segretamente giustiziato dopo aver partecipato nell’agosto 2008 a delle proteste nella città di Shiraz. Il relatore speciale delle Nazioni Unite inviato in Iran, si è detto preoccupato dal fatto che queste esecuzioni sembrano celare una volontà, da parte del governo, di reprimere il dissenso nel paese. Il rapporto dell’ONU sottolinea l’elevato numero di esecuzioni ai danni di minorenni: tra il 1° gennaio e il 1° dicembre 2020 sono stati giustiziati 3 minorenni e più di 85 si trovano nel braccio della morte. In Iran il Codice penale prevede la pena di morte per le ragazze con più di 9 anni di età e per i ragazzi con più di 15 anni di età in caso di crimini quali l’omicidio e l’adulterio. I diritti delle donne sono fortemente ostacolati non solo dalla legge ma anche dalle abitudini e dalle convenzioni sociali. Nonostante i diritti delle donne siano codificati negli articoli 20 e 21 della costituzione, vi è discriminazione sui diritti di matrimonio, divorzio e custodia parentale. Una donna iraniana non può sposarsi senza il permesso del padre o del nonno paterno se il matrimonio in questione è il primo. È illegale il matrimonio tra una donna musulmana e un uomo non musulmano e il matrimonio con un uomo di nazionalità non-iraniana deve ricevere il consenso del governo. Le ragazze possono sposarsi legalmente fin dai 13 anni ma ci sono stati casi di bambine sposate anche in età più giovane con il consenso paterno e del giudice. Le donne sposate rimangono sotto l’autorità del marito che può proibire loro di lavorare, di avere un passaporto o di recarsi all’estero. Per quanto riguarda il divorzio, il marito ha diritto assoluto a richiedere il divorzio mentre la moglie può richiederlo sono in specifici casi. Infine, la libertà di pensiero e di manifestazione è limitata nel paese. I difensori dei diritti umani e i loro avvocati vengono quotidianamente vessati. Tra i casi più famosi quello di Golrokh Iraee Ebrahimi e della stessa Atena Daemi. Arrestate entrambe per aver condannato le esecuzioni arbitrarie dei prigionieri politici e per aver cantato una canzone commemorativa, Iraee fu rilasciata nell’aprile 2019 mentre Daemi resta in carcere. Oltre agli arresti vi è anche un dilagante fenomeno di intimidazione dei famigliari degli arrestati. L’uso eccessivo della forza e le interruzioni delle telecomunicazioni durante le manifestazioni è prassi comune. Il relatore speciale ONU riporta uno shutdown di internet senza precedenti, richiesto dal governo durante le manifestazioni del novembre 2019. In generale il governo continua a censurare i siti internet e le piattaforme di social media. Telegram, Twitter, Facebook e YouTube sono state bloccate in modo permanente e risultano attualmente inaccessibili. La storia di Atena Daemi Atena Daemi si è battuta con coraggio contro le sopramenzionate infrazioni dei diritti umani, e soprattutto contro la pena di morte, le detenzioni arbitrari e per i diritti delle donne e dei bambini. Fu arrestata il 21 ottobre 2014 e dopo 86 giorni di interrogatori fu condannata a 14 anni di reclusione per i reati di: “propaganda contro il sistema”, “adunata sediziosa e collusione contro la sicurezza nazionale”, “blasfemia e offesa al Capo Supremo” e “occultamento di prove”. Durante il processo furono usate come prove i suoi post su Facebook in cui si batteva contro la pena di morte. Il 28 settembre 2016, dopo essere stata rilasciata su cauzione, vede la sua pena ridotta a 7 anni. Viene nuovamente arrestata il 28 novembre 2016 e dopo aver presentato una denuncia contro il “Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica” (IRGC) per uso eccessivo della forza, viene processata il 19 dicembre 2016 con le accuse di: “insulto contro il leader supremo e gli ufficiali di stato”,” “propaganda contro il sistema” e “resistenza all’arresto”. Viene condannata e le vengono aggiunti 3 mesi e un giorno alla sua pena di 7 anni. Alla medesima pena vengono condannate anche le sue sorelle, Ensieh e Hanieh, che vengono però assolte 54 giorni dopo. Il 21 dicembre 2019 Daemi e altri carcerati organizzano un sit-in come protesta contro le repressioni e la risposta dello stato contro le manifestazioni del novembre 2019. In seguito a questo evento fu trasferita in isolamento il 28 dicembre 2019 e vi rimase fino al 8 gennaio 2020. Inoltre, fu condannata a 2 ulteriori anni di prigione e 74 frustrate. Oltre alla solita accusa di “propaganda contro il sistema” fu accusata di “interruzione dell’ordine carcerario” per aver ballato e festeggiato durante la festa di Ashoora. Daemi si è rifiutata di andare al processo dichiarando che tali accuse sono infondate e basate su bugie. Le condizioni di salute di Atena Daemi durante la sua permanenza in carcere sono peggiorate notevolmente. Dopo lo sciopero della fame

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Yemen

La ragazza dello Yemen

Le mura rosse intorno alla città terminano in una maestosa porta rosso e nera con le sue colonne in rilievo. Li tantissimo tempo fa vi erano instancabili sentinelle che regolavano l’entrata e l’uscita dalla città. Oggi, invece, la gente entra ed esce  in un interminabile via vai. Li, poco dopo la porta, ci sono i mercatini di Sana’a che si estendono tra le strade e i vicoli sovrastati della case architettoniche di mattone e decorate con magnifici ghirigori bianchi. Camminando ti puoi perdere e il tuo sguardo non sa dove dirigersi. La piazza è affollata, tutti parlano, scherzano e di sottofondo si sente la musica che si leva  verso il cielo. È così da secoli in quel museo a cielo aperto in cui commercio, architettura e società si fondono e vivono. Li si vende qualsiasi cosa: il vero argento yemenita che da vita ad enormi piatti, gli specchi, il rame, l’erba medica, l’hennè o il legno. Si vende di tutto, basta che sia a buon prezzo. Girando per il mercato puoi vedere chi si ripara dal sole sotto le tende blu o gialle, chi si prova la giacca nel mercato dei vestiti, chi osserva il muro di pugnali tradizionali ornati di argento e pietre preziose o chi cerca da mangiare nel mercato alimentare con i suoi altissimi sacchi di cereali. La via centrale è una strada lunga che porta alle principali città del sud, è la porta dello Yemen.  Ma a chi è semplice non importa di questa imponenza, sta lungo la via a prendersi un caffè stretto ai suoi amici. In quel tutto è possibile trovare anche un ristorante italiano frequentato anche da italiani. È un posto unico al mondo, è “una venezia selvaggia sulla polvere”, è introvabile nel mondo un posto simile e per qualcuno quel posto è casa. Sono tre anni che Nada è lontana da casa e ci racconta di questo posto seduta intorno a un tavolino di metallo vicino alla metro di valle aurelia a Roma. Questa ragazza ci dice che è importante dire qualcosa di bello del suo paese, in molti non sanno dove è lo Yemen e chi lo conosce, se lo conosce, lo conosce solo come una delle pagine terribili della storia del nostro pianeta. Le notizie che abbiamo sono filtrare tanto da sapere solo che c’è una guerra, che c’è una terribile crisi umanitaria o che molti paesi occidentali vendono le armi all’Arabia Saudita per proseguire la guerra. Armi usate per colpire mercati, scuole o ospedali. Ma nessuno si preoccupa di dire cosa è lo Yemen al di la di questo, chi sono gli yemeniti e come era prima. Urliamo, tante volte, di non pensare ai numeri ma alle persone, però non sappiamo la storia di queste persone o dei luoghi da cui provengono. Nada dice che spesso la gente la guarda stupefatta e dice “c’è una ragazza dallo Yemen che sa l’inglese!”, “c’è una ragazza dallo Yemen che può vestire così!” o “c’è una ragazza dallo Yemen che è andata all’università!”. Sono stupefatti perché ciascuno pensa che tutte le donne in Yemen stanno in cucina, puliscono o non hanno una vita. Pensano che non ci sia istruzione: forse è vero che il 70% della popolazione non va all’università ma c’è un 30% molto forte che vuole cambiare tanto contro tutto quello che sta accadendo. Prima della partenza ricorda che in un mese la città è stata 15 giorni senza luce, la mattina si poteva fare tutto mentre di sera si doveva stare con le candele. Nonostante questo pensa che le persone in Yemen si abituano. Lo Yemenita è una persona semplice: se può avere un buon cibo tutti i giorni è contento e se mangiano un cibo normale dopo un po di giorni, sono sempre contenti. Si adattano. Basta pensare al fatto che gran parte della popolazione yemenita ha risposto costruendosi pannelli solari dall’immondizia come reazione alla mancanza di corrente. Ogni volta che chiama a casa dice ai suoi amici che le dispiace, se vogliono qualcosa, ma la risposta è “ma stiamo bene!”. Ci dice che sono contenti perché sono a casa, non importa se la vita è più costosa adesso. La vita, ovviamente, non è come prima. Occorre pensare tanto a come spendere lo stipendio con cui ora puoi fare molto di meno. Occorre pensare alla famiglia. Spesso le bombe si sentono vicine, c’è questa paura costante. Però la famiglia è li, gli amici sono li e la paura, con le persone care vicine, è diversa. I primi giorni del conflitto la paura era tremenda. Tutti le notti lei e sua madre non dormivano, c’erano giorni in cui non pensava di vedere la mattina. Apriva la finestra e vedeva la bomba li vicino. Sentiva tutto. Cominciava a pregare l’arrivo del giorno dopo. Al mattino però era un altro giorno, usciva di casa e parlava con gli amici. Come se nulla fosse. Gli yemeniti sono persone forti e semplici, si adattano. Ma alle volte la paura è più forte, il rischio è grande e la volontà di proteggere la famiglia ti costringe a scappare. È cosi che Nada e dovuta andare via con la madre. Pensa a quando lavorava li, al fatto che aveva una casa, dei soldi e una propria macchina. Spesso si è domandata “perché me ne sono andata?”, “perché chi non aveva un lavoro invece è rimasto?”. Certo, molte cose sono cambiate in meglio ma Nada dice che qui si sente come in guerra: “Quando arrivi in un altro paese, con posti nuovi e una nuova lingua, vivi una situazione di emergenza da sola”. Li aveva i suoi amici, qui deve iniziare tutto da zero. Non è la lingua ma sono gli affetti. Per farsi degli amici, per farsi una famiglia, per avere qualcuno che pensi a te o che si preoccupi di te, ci vuole tempo. Non si fa tutto in un anno o due, ci vuole tempo per fidarsi di qualcuno. Senza una stabilità è difficile riprendere gli studi o riprendere una patente o

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Salafiti: tra profonde differenze e reali unità

La difficoltà di comprendere il concetto di Salafismo – e quindi i Salafiti – inizia già con il tentativo di definirlo. È stato, infatti, identificato come una tendenza religiosa, un movimento di protesta, un movimento di riforma e ancora come una dottrina religiosa, ma nessuno di questi riesce a cogliere la vera entità del fenomeno. Oltretutto, il concetto di “Salafismo” – e di conseguenza la definizione di “salafiti” – ha assistito anche ad un’evoluzione profonda durante i secoli. Difatti, sono numerosi i pensatori ed i giuristi che hanno usato il termine in molte accezioni diverse e ciò rende ancora più difficile una ricostruzione chiara. L’origine e la differenza con il Wahhabismo Salafismo è un termine che deriva dall’arabo al-salaf al-ṣāliḥ, che letteralmente vuol dire ‘’antenati pii’’ e con cui si fa riferimento alle prime tre generazioni di musulmani: i Ṣaḥābi, i Tābiʿūn e i Tābiʿ al-Tābiʿiyyīn. Secondo i salafiti quest’ultime rappresentano, a differenza dei musulmani di oggi, la versione pura e autentica dell’Islam, che si è persa nei secoli ed alla quale si dovrebbe tornare a fare riferimento. A livello ideologico, il Salafismo moderno risale soprattutto ad un giurista e teologo medievale, Ibn Taymiyya, vissuto tra il 1263 e il 1328 nel territorio dell’odierna Siria, sebbene l’attuale corrente venga ricondotta al wahhabismo, un movimento di riforma religiosa nato nel XVIII secolo e che caratterizza l’attuale Arabia Saudita. Nonostante molti tendano ad usare Wahhabismo e Salafismo come se fossero interscambiabili, i termini hanno connotazioni diverse, come viene chiaramente spiegato dallo studioso americano Blanchard: il primo termine, infatti, si riferisce ad “un credo islamico conservatore dell’Arabia Saudita” mentre il secondo ad “un movimento islamico puritano più generale che si è sviluppato in modo indipendente in vari tempi e in vari luoghi del mondo islamico”. I Salafiti uniti da un credo comune? Nella loro profonda differenza interna al movimento possiamo, tuttavia, riconoscere alcune caratteristiche di uguaglianza. Per una piena comprensione di ciò che accomuna tutti i salafiti passeremo attraverso la definizione di alcuni concetti chiave, senza i quali sarebbe impossibile l’osservazione basilare del fenomeno. Tutti i salafiti sono legati dallo stesso credo religioso, aqida, da cui traggono i principi e i metodi per applicare la propria fede a questioni e problemi anche contemporanei. Con il termine aqida (credo) ci si riferisce sia alle dottrine di base dell’Islam sia ai testi in cui vengono specificate queste dottrine. Nonostante il termine possa risultare di facile comprensione, l’aqida porta con sé un significato ben più complesso: esso indirizza le più importanti questioni religiose, fornisce i principi organizzativi e, più in generale, i vari aspetti del credo. L’unità di Dio è un punto cruciale per tutti i musulmani ma ha un significato particolare per i salafiti e viene espressa con il termine tawhid. L’unicità di Dio si sviluppa su tre dimensioni: Dio è il solo creatore e signore dell’universo, Dio è supremo e unico e Dio è il solo ad avere il diritto di essere onorato. Il tawhid deve essere difeso e rispettato e, solo seguendo severamente il Corano e l’esempio del Profeta Mohammed trasmesso attraverso la Sunna, è possibile farlo. Il Corano è la parola di Dio e la sua sacralità è evidente anche dal punto di vista della lingua utilizzata, l’arabo. Il testo sacro, infatti, è impossibile da tradurre ed anche impossibile da imitare sia nella forma che nel contenuto. La Sunna, anch’essa fonte scritta, contiene i testi, i fatti e persino i silenzi del profeta. L’importanza di seguire l’esempio di Muhammad si può comprendere da questo versetto coranico: “Voi avete, nel Messaggero di Dio, un esempio (iswah) buono, per chiunque speri in Dio e nell’Ultimo giorno e molto menzioni Dio”    (Corano, XXXIII, 21) Perciò, tutte le risposte sono contenute nel Corano e nella Sunna e l’importanza di attenersi a queste fonti è fondamentale perché ogni altro riferimento potrebbe portare a divergenze. Abbiamo già detto che il Corano è la parola di Dio; questo implica che non sia interpretabile. L’interpretazione, essendo un atto finalizzato ad attribuire un significato, presuppone un processo dove è la logica umana ad operare e l’applicazione dell’intelletto umano sui testi sacri non è consentita. È per tale motivo che non vengono riconosciute dai Salafiti le scuole giuridiche, perché queste hanno dato luogo a diversi indirizzi interpretativi delle stesse fonti. Detto ciò, il dovere di attenersi alle fonti sacre porta a non tollerare ogni forma di innovazione (bid’a). Ciò, però, non vuole dire che tutte le forme di innovazione sono respinte; difatti, solo quelle in seno all’Islam portano a prendere le distanze dal credo puro e vero. Un’importante distinzione va però fatta tra bid‘a e tajdīd, cioè tra innovazione religiosa e rinnovamento religioso. A differenza del primo concetto, che è visto con accezione negativa, il secondo è accettato in quanto nel processo di rinnovamento non viene apportata nessuna innovazione religiosa in seno all’Islam. Un ultimo termine che merita un approfondimento è un concetto che viene spesso usato, soprattutto dai media, in maniera incompleta ed a volte errata e che meglio aiuta ad inquadrare il Salafismo: stiamo parlando del ğihād.  La traduzione più familiare a noi è quella di “guerra santa”, sebbene, in realtà, si intenda qualcosa di molto più ampio. Viene definito ğihād ogni sforzo che il credente deve fare sulla via di Dio, un obbligo generale che riguarda ogni musulmano e che prevede di combattere le proprie cattive disposizioni e di migliorarsi sempre più, verso la strada di Dio. Si devono, dunque, distinguere lo ğihād minore – inteso come sforzo del musulmano verso la comunità e quindi concernente la sfera pubblica – dallo ğihād maggiore – che rappresenta lo sforzo di auto perfezionamento individuale e che si sviluppa, invece, nella dimensione privata. Quando si fa riferimento allo ğihād minore la valenza che gli viene attribuita è duplice: una che riguarda un intervento contro i vizi pubblici e una definita “braccio” ed è solo in questa seconda dimensione che viene menzionato l’utilizzo della forza. Questo cenno all’uso della forza è stato poi interpretato dalle frange estremiste come legittimante ad intraprendere la cosiddetta guerra santa. D’altra parte, i media,

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