Dharavi, India: lo slum-villaggio più iconico, essenziale e reattivo di Mumbai

Dharavi, famoso in tutto il mondo grazie al film Slumdog Millionaire (2008), viene considerato come uno dei più estesi, popolosi e iconici slums di tutta l’Asia e l’India.  Precarie condizioni di vita e mancanza di servizi essenziali a parte, fino a che punto è possibile considerarlo uno slum?

Mumbai o slumbai? Il contesto

Dharavi si erge nell’area meridionale di Mumbai, l’attuale capitale economica dell’India che, con i suoi 18 milioni di abitanti, ha guadagnato il primato di città più popolosa di tutta la nazione.

La metropoli è nata dall’unione di sette isole originariamente separate, il cui valore e posizione strategica vennero prontamente recepiti, in epoca coloniale, prima dai portoghesi e poi dagli inglesi.     
Quest’ultimi, tramite interventi e progetti di ristrutturazione della città, segnarono la nascita della rivoluzione industriale di Mumbai, dettando il passaggio da un’economia prettamente rurale, basata su agricoltura, pesca e artigianato, al settore dei servizi urbani.

Tali trasformazioni e radicale cambio di identità sono avvenuti in modo brusco e impattante, quasi calati dall’alto, senza tener conto dell’assetto sociale e fisico originari della città stessa.

Le nuove peculiarità acquisite infatti, unite all’avvento della globalizzazione, diedero l’avvio a una serie di trasformazioni dagli effetti epocali che hanno contribuito a rendere la metropoli una realtà duale e profondamente contraddittoria in cui coesistono fianco a fianco strutture modernissime e lussuose e spazi di urbanizzazione spontanea, privi dei servizi essenziali.           

Le trasformazioni verificatesi a livello economico hanno avuto un’immediata ripercussione sulla composizione della popolazione della città.         
A inizio Novecento, la popolazione registrata dal Censimento era di circa due milioni di abitanti; nell’arco di un secolo gli abitanti della metropoli toccarono i diciotto milioni.
Tale smisurato aumento di popolazione è determinato da molteplici fattori.
Uno dei primi elementi che hanno profondamente influito sulla crescita demografica smisurata sono state le politiche di lotta contro le carestie ed il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie. Misure che hanno avuto dirette ripercussioni sul tasso di natalità, non più controbilanciato da un altrettanto elevato tasso di mortalità.     

Un ulteriore fattore determinante fu l’enorme portata del fenomeno migratorio.
Successivamente alle grandi trasformazioni avvenute a livello economico, la città divenne immediatamente un polo attrattivo per i numerosi migranti provenienti da realtà rurali dello stato del Maharashtra, da altri stati indiani e, in minor misura, da altri paesi.
L’evento fu di una tale importanza tanto che si stima che all’inizio del Novecento l’80% della popolazione della città fosse costituito da persone nate fuori Mumbai.       

Risulta evidente quindi che, anche Mumbai, così come molte città indiane, fece un enorme salto verso un maggiore sviluppo urbano per far fronte alla smisurata crescita demografica.
A causa della mancanza di infrastrutture adeguate e all’impreparazione delle istituzioni, si è verificato un rapido aumento di popolazione nelle aree informali, in totale assenza di una precisa pianificazione e dei servizi fondamentali.

Come accennato precedentemente, l’aumento di popolazione ed in particolar modo il fenomeno migratorio, paiono essere strettamente connessi con la nascita e l’aumento degli spazi di urbanizzazione spontanea anche se, il problema alla base di tale situazione, pare essere di altra natura. L’ostacolo maggiore è rappresentato dalla pressione che la crescita demografica esercita su un territorio limitato e con poche possibilità di espandersi ulteriormente. Dal momento che Mumbai è una penisola, quindi circondata dal mare da tre lati, infatti, non è possibile rispondere al maggior bisogno di spazi e terre su cui costruire della sua popolazione.

Considerati tali fattori, non è difficile immaginare che Mumbai detenga il primato di realtà indiana in cui più persone risiedono in aree slum: stando all’ultimo dato ufficiale rappresentano il 65%, più della metà della popolazione.       
Proprio a causa di tali elevate percentuali, la metropoli ha meritato il colorito epiteto di Slumbai.

Lo slum-villaggio: storia e vita all’interno del più esteso e peculiare insediamento informale di Mumbai

Nonostante la forte presenza di aree di urbanizzazione spontanea, lo slum più esteso e conosciuto anche a livello mondiale, è Dharavi.          
Tale spazio conta oltre un milione di abitanti
(cifra abbondantemente sottostimata) e si estende per circa 1.200 km quadrati presentando una densità abitativa di più di 800 persone per km quadrato.  

Il nome attuale pare che derivi dal termine in lingua Marathi “Dharevarca” ovvero “Terra delle insenature”. Prima della colonizzazione inglese, infatti, Dharavi si trovava su una delle tante isole che vennero collegate e unite solo in seguito.         
Stando a quanto riportato dalle fonti ufficiali, nacque tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, come un piccolo villaggio in cui vi risiedevanoun centinaio di pescatori che, avendo accesso diretto al mare, vivevano esclusivamente di pesca. 
A metà Ottocento poi, con l’arrivo degli inglesi, vennero effettuate opere di bonifica e grandi progetti di ingegneria civile che avevano l’obiettivo di unire le sette isole in un unico agglomerato urbano, cambiando profondamente l’assetto della città e la sua natura.  
Con tale operazione gli abitanti di Dharavi persero lo sbocco sul mare “barattandolo” – in realtà non avevano possibilità di scelta trovandoci in piena era coloniale – con una grande autostrada, la Link Road, che permise di collegare Mumbai da nord a sud.     
Gli abitanti originari, essendo un piccolo gruppo di pescatori, non ricevettero né attenzione né aiuti del governo e, per poter continuare a sopravvivere dovettero adattare il loro business alle nuove esigenze: iniziarono a guadagnare con ilcommercio illegale dell’alcool.   
Tale commercio ebbe particolare fortuna e, con l’espansione dei territori e la crescente attrattiva che esercitava il centro urbano, si stabilirono a Dharavi anche alcuni gruppi di migranti provenienti dal Gujarat, portando con sé il know how relativo a uno dei mestieri identitari per il loro popolo: la lavorazione della ceramica. La stessa cosa accadde con i conciatori di pelli provenienti da altre aree del Maharastra e i ricamatori dell’Uttar Pradesh. Fu così che nella comunità si inserirono sempre nuovi gruppi di migranti che avviarono laproduzione e il commercio di numerosi prodotti, rendendo Dharavi un’area estremamente produttiva ed essenziale per la sopravvivenza della metropoli stessa.   

Proprio tali elementi, le sue origini e lo spiccato spirito imprenditoriale dei suoi abitanti, la rendono un’area unica nel suo genere.         
A differenza di altri slums, Dharavi non è nato come uno spazio abitato da migranti provenienti da aree rurali che, attratti dalle possibilità lavorative della metropoli, hanno popolato spontaneamente un’area vicino alle industrie. Dharavi è nato da un villaggio preesistente, i cui abitanti hanno dovuto convertire la loro attività a causa di cambiamenti strutturali del luogo abitato, imposti dall’alto, e hanno saputo farlo adattandosi e ripensando il loro business, tanto che si ètrasformato in un polo attrattivo per i successivi flussi di migranti stabilitisi a Mumbai.      
Il villaggio preesistente, quindi, è semplicemente cresciuto, si è espanso, importando nuove competenze e creando enormi e diversificate possibilità di guadagno.

La sua natura di polo produttivo si è conservata intatta negli anni, tanto che è possibile considerare Dharavi uno dei principali centri economici della metropoli.        
Estremamente dinamico, con un fatturato annuo che si aggira tra i 700 milioni e 1 miliardo di dollari, attualmente conta circa: 200.000 piccole imprese, 5.000 realtà commerciali e più di 15.000 piccole entità produttive molto competitive in grado di esportare la loro merce in tutto il mondo. Negli ultimi anni, inoltre, si sono sviluppate numerosissime attività che si occupano dello smaltimento e del riciclo dei rifiuti provenienti da tutta la città.  
Grazie a queste sue peculiarità, Dharavi ha meritato l’essere positivamente definita come il cuore ed il fegato di Mumbai. Cuore per via delle attività produttive che permettono all’area di fatturare 1 miliardo di dollari l’anno, fegato perché in grado di smaltire e riciclare le scorie prodotte dall’intera città.           

Dharavi risulta così abitato principalmente da persone che lavorano direttamente nei settori di business prolificati al suo interno ma, tale affermazione, non è affatto esaustiva.

Un elemento che contraddistingue ulteriormente l’area è la presenza di persone appartenenti alla classe media, che, a causa del costo degli affitti proibitivi o per scelta personale, hanno coscientemente deciso di non abbandonare l’area in cui sono nati e cresciuti.
Purtroppo, nonostante tali aspetti estremamente positivi e la sua funzione essenziale per la sopravvivenza di Mumbai (e non solo!) condivide con le altre aree di urbanizzazione spontanea le più note caratteristiche: assenza di un reale e adeguatamente strutturato sistema idrico e fognario; insufficienza di servizi igienici (con una media di un gabinetto ogni 1500 persone); mancanza di un corretto allacciamento alla corrente elettrica pubblica.
A ciò si aggiunge il fatto che molte industrie smaltiscono illegalmente proprio in questo spazio i propri rifiuti, contribuendo al degrado ambientale dell’area.

Conclusioni – L’importanza di guardare oltre  

Dharavi racchiude infinite sfaccettature non sempre facili da comprendere a prima vista. I contrasti più evidenti con la realtà circostante celano quelli nascosti al suo interno,la complessità delle dinamiche che in esso hanno luogo e l’interconnessione tra questo e la città. Spesso non si riesce a cogliere la vivacità e il dinamismo di una simile realtà, ritenuta degradata e priva di qualsiasi valore.      
Se anche chi si è arricchito ha spesso deciso di rimanere nello slum, è perché si è creato una sorta di mondo a sé stante con un sistema di valori ed uno stile di vita molto diverso da quello cittadino, seppur ad esso intrinsecamente connesso.

Un’analisi attenta delle varie sfaccettature della megalopoli di Mumbai non può dunque prescindere dal cercare di comprendere anche le dinamiche di questa realtà.  

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Caste-India

Le caste in India

Il sistema delle caste in India è tutt’oggi in vigore anche se con modalità e leggi diverse. Questo tipo di sistema sociale ha avuto origine circa due mila anni fa in quel territorio che oggi è ricompreso tra India e Nepal. Questo sistema all’origine divideva le persone nelle varie caste di appartenenza in base al lavoro che facevano ma successivamente la divisione veniva effettuata su base ereditaria, facendo sì che ogni persona ancor prima della nascita era destinata a un determinato stile di vita. Le grandi classi che compongono questa società piramidale sono chiamate varna, ovvero colori, mentre il termine “casta” viene dal portoghese, che traduce dal sanscrito jati, che vuol dire nascita. La nascita per gli indiani è sinonimo di far parte di una casta. La traduzione di questo concetto con la parola “casta” è quindi errata in quanto proviene da un termine che è l’equivalente di sottocasta. Gli jati infatti sono i diversi sottogruppi dei varna all’interno dei quali vengono circoscritti i singoli mestieri. Esiste quindi la sottocasta dei barbieri, quella dei suonatori o dei medici e così via. Questa ulteriore distinzione è necessaria all’interna di un sistema strutturato in questo modo perché chi fa parte di una determinata sottocasta può svolgere solo un mestiere e lo stesso varrà anche per i suoi figli. Queste sotto caste possono indicare però anche l’appartenenza a una setta, una tribù, una stirpe o un determinato luogo geografico. Struttura e caratteristiche del sistema delle caste Nel sistema piramidale vengono delineati quattro gruppi principali che sono, in ordine di importanza: I Brahmani (i sacerdoti), I Kshatriya (i guerrieri e i nobili), I Vaisya (gli agricoltori, i commercianti e gli artigiani), I Shudra (i mezzani e i servi). Al di fuori di questi gruppi poi, ci sono i paria, gli “intoccabili”. Dal XX secolo si chiamano anche dalit che significa “gli oppressi”, per porre l’accento sulle condizioni di vita di questo gruppo sociale. Il nome intoccabili deriva dal fatto che questo gruppo sociale è relegato a svolgere i mestieri ritenuti “impuri” dalla religione induista. I dalit infatti sono conciatori di pelle, lavorano nel settore funebre o delle pulizie. Un’altra caratteristica molto importante, tramandata fino ai giorni nostri, è il matrimonio. Questo è consentito solo tra persone appartenenti alla stessa casta e, conseguentemente, i loro figli ne faranno indissolubilmente parte. Le prime tre caste vengono chiamate anche dvija, “nati due volte”, perché gli uomini nascono metaforicamente due volte grazie al rito di iniziazione del upanayana che significa “condurre vicino”, ovvero “condurre un giovane discepolo vicino un maestro affinché conosca il Veda” (raccolta di testi sacri dei popoli arii in sanscrito vedico). Con questo rito gli ārya, ovvero coloro che fatto parte della dvija, entrano nel primo āśrama, il Brahmacārya (condotta in armonia con il Brahman), e in questo modo diventa un brahmacārin. Gli shudra i dalit e gli harijan invece, si chiamano anche i “nati una volta”, proprio perché non possono eseguire nessun rito di iniziazione. Motivi religiosi e pratici di una divisione gerarchica Questa divisione di classi può essere vista sotto il punto di vista idealista o materialista: secondo il primo, questo sistema sociale è un prodotto della visione religiosa della vita, un modo alternativo per rappresentare le disuguaglianze sociali; mentre in un’ottica materialista, questo sistema è una giustificazione meramente superficiale della distinzione sociale. Il motore principale che rende il sistema delle caste di difficile eradicazione anche nella società moderna è il concetto di reincarnazione. Secondo questo principio, se un individuo si comporta bene in vita, si potrebbe reincarnare anche in un brahmano. Contrariamente, qualora si comportasse male, potrebbe scendere nella scala gerarchica, fino ad addirittura reincarnarsi in un animale – motivo per cui molti indiani sono vegetariani. Questo ciclo di reincarnazione dell’anima nei corpi si chiama saṃsāra e contiene in sé il principio intrinseco secondo il quale, se si nasce in una casta “inferiore”, vuol dire che nella vita precedente si è stati peccatori. Questo evita tutt’ora che la popolazione indiana, soprattutto quella dei dalit, si ribelli contro questo sistema. Molti di loro sono convinti di meritarsi questo “castigo” così da poter espiare le proprie colpe nell’attuale vita e potersi reincarnare in una casta più alta nella prossima. A favore o meno delle caste Per il Mahatma Gandhi “le caste hanno salvato l’induismo dalla disintegrazione, pur soffrendo di escrescenze. Le sottocaste, però, rappresentano un impedimento”, mostrandosi quindi a favore dell’abolizione del sistema delle sottocaste e dell’integrazione dei dalit, mantenendo però le dovute distanze. Al contrario Ramji Ambekar, di famiglia dalit e “padre della Costituzione Indiana”, era a favore dell’abolizione totale del sistema delle caste. La sua visione di vita molto contemporanea si può rivedere in una frase molto emblematica: L’uguaglianza può essere una finzione, ma bisogna comunque accettarla come principio guida. Infatti, per tutta la vita lottò per l’uguaglianza arrivando a siglare un accordo di fronte alla prigione di Proon. Tale accordo divenne legge nel 1950 e pose le basi per l’adozione di una legge contro la discriminazione sulla base della casta e la legge di “intoccabilità” dei dalit.  Le caste dall’indipendenza ad oggi Dall’indipendenza il sistema delle caste è rimasto più o meno invariato. Infatti, appena raggiunta l’indipendenza, l’India versava in una situazione di disuguaglianza sociale molto rilevante e la linea guida fu quella di mantenere il sistema delle caste così da stimolare gli appartenenti a ciascuna casta e sottocasta a dedicarsi al proprio settore al meglio. Poi, con il passare del tempo, nelle grandi città l’appartenenza ad una casta è diventato quasi un concetto obsoleto. Nelle campagne e nei centri rurali invece, il sistema delle caste continua ad essere una realtà ben presente e tangibile. Il sistema delle caste è stato formalmente abolito nel 1947. Nella Costituzione Indiana infatti, l’articolo 15 recita così: Lo Stato non può discriminare nessun cittadino per motivi di religione, razza, casta, sesso, luogo di nascita. Nessun cittadino può per motivi di religione, razza, casta, sesso o luogo di nascita essere soggetto a forme di discriminazione, restrizione o condizione riguardo a:(a) l’accesso a negozi, ristoranti pubblici,

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I diritti LGBTQ+ in India: una battaglia post-coloniale

La presenza di testimonianze dell’antichità indiana ci dimostrano come l’omosessualità, la bisessualità, la transessualità e tutte quelle identità che si riconoscono oggi nella comunità LGBT+, fossero diffuse e non stigmatizzate nelle società precoloniali dell’India. La testimonianza più antica che possediamo è il celebre testo del Kamasutra scritto da Vātsyāyana, che risale ad un periodo non ben identificato tra il 400 a.C. e il 300 d.C., e che dedica un intero capitolo al comportamento omosessuale. Allo stesso modo, testi medici dell’antichità come la Sushruta Samhita dichiarano l’omosessualità come un tratto innato e naturale dell’essere umano. La consuetudine induista non solo accetta l’omosessualità, ma riconosce anche l’esistenza di un terzo genere oltre alla tradizionale divisione binaria tra donna e uomo tipica del nostro occidente. Gli antichi testi del Visnuismo, una delle correnti induiste, scoraggiano il comportamento omosessuale solo per i brahmani (i sacerdoti, nonché la prima casta indiana). La tradizione induista e la concezione che questa ha della comunità LGBT+ dimostrano come l’omofobia sia entrata nella società indiana dall’esterno, tramite il colonialismo inglese che dal XVII secolo al 1947 ha governato sul Paese. La Sezione 377 La società post-coloniale ha mantenuto in auge la legislazione del regime britannico, che puniva con sanzione pecuniaria e una reclusione dai 10 anni al carcere a vita chiunque fosse stato accusato di aver avuto un rapporto omosessuale, ai sensi della Sezione 377 del Codice penale. La legge è rimasta in vigore dal 1861 al 2009 ed è poi stata rintrodotta dal 2013 al 2018, quando una storica sentenza della Corte suprema ha dichiarato indifendibile la criminalizzazione dell’omosessualità. La sentenza dichiara “incostituzionale la Sezione 377 poiché infrange le libertà fondamentali di autonomia e intimità. Ogni discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale è una violazione della Costituzione Indiana.” Dichiara inoltre che “L’orientamento sessuale è uno dei tanti fenomeni biologici che è naturale e inerente a un individuo ed è controllato da fattori neurologici e biologici. La scienza della sessualità ha teorizzato che un individuo esercita un controllo scarso o nullo su chi viene attratto. Qualsiasi discriminazione sulla base del proprio orientamento sessuale comporterebbe una violazione del diritto fondamentale alla libertà di espressione.” La Corte suprema ha inoltre ordinato al governo di adottare tutte le misure per trasmettere correttamente il fatto che l’omosessualità non è un reato, per sensibilizzare l’opinione pubblica, eliminare lo stigma dalla comunità LGBT+ e per fornire alla polizia una formazione periodica per sensibilizzarla sul problema. La comunità LGBT+ in India oggi Oggi, in India due uomini non possono sposarsi né adottare figli. Mentre vengono deposte diverse petizioni in tribunale a favore del matrimonio tra uomini, il 12 giugno 2020 l’Alta corte di Uttarakhand ha dichiarato che la convivenza e i “rapporti di convivenza” sono protetti dalla legge. Per le donne il discorso è diverso. Nel 2011, ad Haryana, la Corte ha riconosciuto un matrimonio tra due donne, creando un precedente legale. L’intervento chirurgico per cambiare il sesso è legale dal 2014 e richiesto per il riconoscimento sui documenti d’identità. Tuttavia, non esistono ancora leggi contrarie alla discriminazione delle persone LGBT+ in India, le quali non possono prestare servizio militare per questo motivo. La sentenza del 2018 è da considerare una notevole vittoria per i diritti umani in India, tuttavia la Corte non ha vietato alcune pratiche ancora diffuse che dimostrano come l’omosessualità non sia ancora accettata dalla società. Tra queste, l’allontanamento dei bambini LGBT+ dalle famiglie, la loro esclusione dalla società, i matrimoni combinati forzati, o ancora le scioccanti pratiche dello “stupro collettivo”, della terapia “curativa” imposta a persone omosessuali, gli omicidi di persone LGBT+ “per onore” e infine i suicidi ai quali sono spinti i membri di questa comunità, per i motivi appena elencati. È importante notare come alcune di queste pratiche siano espressamente vietate dagli antichi testi religiosi, come il matrimonio forzato di sesso opposto tra omosessuali. La disparità presente tra le zone urbane e quelle rurali, tra le caste, le classi sociali, le comunità presenti in India implica una disparità di trattamento nei confronti dei cittadini LGBT+. Vyjayanti Vasanta Mogli, attivista transgender e studiosa di politica pubblica presso il Tata Institute of Social Sciences di Hyderabad, punta il riflettore sulle donne lesbiche e gli uomini transessuali delle zone rurali, che subiscono gli abusi più disumani. “I medici del villaggio spesso prescrivono lo stupro per curare le lesbiche dall’omosessualità. Il rifiuto di sposarsi comporta più abusi fisici. Le storie di accettazione della famiglia che si vedono in TV sono più un fenomeno urbano “. Questo significa che molti membri della comunità LGBT+ Indiana hanno un solo modo per sopravvivere alla loro stessa società: scappare lontano, senza nessun tipo di supporto economico o psicologico, in regioni dell’India più tolleranti o tentando la richiesta di asilo in altri Paesi. Una legge contro la discriminazione è dunque necessaria in questo scenario, e potrebbe avere conseguenze positive non solo a livello nazionale. Le comunità LGBT+ dei vicini Sri Lanka, Pakistan e Bangladesh sono state infatti ispirate dalla sentenza indiana del 2018 per richiedere più diritti ai propri governi. Mentre le fedi abramitiche sono costrette ad abbandonare antichi codici e credenze per accogliere le persone LGBT+ nelle loro comunità, gli induisti devono solo abbandonare le idee importate dalla colonizzazione, e far riferimento al loro antico passato. Se ti è piaciuto l’articolo condividici!

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IL DRAMMA DEI CONTADINI IN INDIA: Come gli OGM e la mancanza di politiche concrete porta sempre più contadini al suicidio

Dal 1995 i suicidi dei contadini in India sono stati molto più di 300.000. In base alle statistiche del National Crime Records Bureau of India, si suicida un contadino ogni mezz’ora.  Gli Stati Indiani, che da soli contano l’87,5% dei suicidi dei contadini sono Maharashtra, Karnataka, Telangana, Madhya Pradesh, Chhattisgarh, Andhra Pradesh e Tamil Nadu.  Come dichiarato da Raju Das – professore di studi sullo sviluppo alla York University – “La questione dei suicidi tra i contadini non è solo un problema dei contadini, o un problema delle campagne, o dei villaggi – è un problema molto più grande, politico-economico”  Prima di trattare tutte le tematiche connesse a questo macabro fenomeno, è opportuno fare una fotografia della situazione attuale dei contadini indiani, così da poter rendersi conto dell’effettiva portata dello stesso:  il 58% della popolazione dipende dall’agricoltura, ossia il suo lavoro è connesso in qualche modo con questo settore. Stando ai dati dell’ultimo censo, effettuato nel 2011, 120 milioni di indiani sono contadini. Per dare un’idea della vastezza di questa classe, i dottori in India sono 1 milione. Questo vuol dire che per ogni dottore, ci sono 12 contadini – ammesso che la popolazione contadina non sia cresciuta dal 2011 ad oggi;  l’entrata annuale di un contadino indiano è l’equivalente di circa $272; quella mensile di circa $23; quella giornaliera di circa $0,76;   il 52% dei contadini indiani versa in una forte situazione debitoria. La media annua del debito contratto dalle famiglie contadine è di circa $640 e, con un reddito annuo pari a circa $272 è impossibile pensare che le stesse possano far fronte alle spese vive quotidiane (bollette, cibo) e contemporaneamente ripagare il loro debito. Questo fa sì che lo stesso cresca esponenzialmente e “strozzi” i contadini.  Questa del debito pendente sulla classe contadina non è una tematica nuova, così come non lo è quella dei suicidi.   Sin dall’inizio del dominio britannico in India infatti, gli agricoltori erano costretti a pagare delle tasse altissime per l’utilizzo del terreno e spesso i redditi che ne ricavavano erano troppo bassi per coprire le spese. Questo sistema ha portato migliaia di contadini e le loro famiglie sul lastrico e molti di loro, disperati, compivano un gesto così estremo perché era visto come l’unico modo per liberarsi dai debiti. Il fenomeno dei suicidi dei contadini divenne così diffuso che nell’ ‘800 il governo inglese fu costretto ad emanare una serie di provvedimenti che limitassero l’altissimo tasso di indebitamento dei contadini.   Nonostante questa prima consapevolezza, nel 1894 il governo dell’India indipendente ha emanato il Land Acquisition Act che diede l’avvio ad uno dei primi fenomeni di Land Grabbing. L’India poi è un caso particolare perché è lo stesso governo ad autorizzarlo sul proprio territorio.  Gli effetti dell’applicazione di questa legge sulla popolazione indiana sono stati duplici a seconda che si fosse proprietari terrieri o contadini, ma comunque devastanti:  i proprietari terrieri a cui è stata espropriata la terra non hanno ricevuto compenso o lo stesso è stato minimale;  i contadini – che non erano proprietari della terra che lavoravano ma dipendevano da essa per ricavarne i mezzi necessari per la sopravvivenza propria e del proprio nucleo famigliare – sono rimasti senza alcun terreno da lavorare e quindi senza modi per sopravvivere.   Negli anni il Governo indiano ha emanato delle leggi a garanzia e protezione di questa fascia vulnerabile ma si è sempre trattato di palliativi che di fatto non solo non hanno risolto il problema, in molti casi l’hanno addirittura peggiorato.  Misure messe in campo da Governo  Negli anni le uniche misure a cui ha fatto ricorso il Governo in maniera alternata sono:  Concedere ulteriori prestiti ai contadini. Come si è visto, il debito medio annuale delle famiglie di contadini è più del doppio delle loro entrate annue il che rende già impossibile agli agricoltori poter ripagare i prestiti concessi. Garantirne di nuovi concederà loro liquidità immediata – che comunque spesso è utilizzata per coprire parte del debito, non per sopperire ai reali bisogni famigliari, per paura che la banca si appropri del terreno – ma li imbriglia ancor di più nella trappola del debito, generando una spirale senza fine da cui i contadini non riescono più ad uscire;  Aver adottato il Minimum Support Price (MSP) policy: secondo questa politica, il Governo ogni anno acquista 26 coltivazioni di contadini ad un prezzo calmierato (indipendentemente da quale sia il prezzo stabilito dal libero mercato). Questa avrebbe potuto essere una buona strategia per aiutare le famiglie contadine ad uscire dalla trappola della povertà se non fosse però, che l’attuale MSP – e tutti quelli adottati prima – non copre nemmeno i costi di produzione che gli agricoltori devono sostenere ogni anno.  Questa non corrispondenza con il dato reale deriva dal fatto che il Governo, nel calcolare il MSP, non ha mai applicato la formula che era stata individuata dagli esperti.  In un suo report del 2004 infatti, la Swaminathan Commission (la Commissione Nazionale degli Agricoltori indiana) ha stabilito che, per poter calcolare equamente il MSP, si sarebbe dovuto tener conto di 3 variabili di costo:  Semi, agenti chimici e lavoro individuale;  Lavoro di tutti i componenti della famiglia;  Affitto od interessi che i contadini ogni anno devono pagare per il proprio terreno o le proprie attrezzature – il che ci dimostra quanto poco sia cambiato dall’epoca della colonizzazione britannica  Il Ministero delle Finanze invece, applica una formula che tiene conto solo delle prime due variabili di costo per nulla prendendo in considerazione i costi di affitto di terreno e/o materiali che spesso sono la vera causa di indebitamento delle famiglie contadine.  Nel disperato tentativo di far sentire le proprie voci, nel 2018 i contadini indiani hanno condotto due proteste pacifiche che hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale per un breve periodo.  A Maharasthra, più di 500.000 contadini hanno marciato con le loro famiglie per 160 km per presentare al Governo le loro richieste. Questa protesta è stata a dir poco singolare perché i contadini hanno marciato di notte, così da non ostacolare gli studenti che l’indomani mattina si sarebbero dovuti recare a scuola per sostenere gli esami.  Nel luglio dello stesso anno poi, i contadini di Tamil Nadu hanno protestato per 40 giorni consecutivi e, nel tentativo di attirare l’attenzione delle autorità locali, hanno

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“Dilli Chalo!”: La protesta dei contadini in India tra la riforma Agricola e la questione dei Sikh

In India la fine di novembre ha segnalato il culmine di mesi di protesta dei contadini contro le leggi sulla liberalizzazione del settore agricolo volute dal governo Modi. Queste leggi infatti impattano direttamente sulla vita della maggior parte della popolazione, già in difficoltà per la situazione debitoria e spesso costretta al suicidio. Queste leggi inoltre potrebbero avere un effetto inaspettato in quanto potrebbero generare ulteriore instabilità in uno stato indiano geopoliticamente nevralgico: il Punjab. Qui la situazione della comunità Sikh è già difficile e si temono nuove vessazioni e violazioni di diritti umani. La protesta dei contadini in India e la marcia verso Nuova Delhi A seguito dell’adozione delle nuove leggi approvate dal governo Modi, i cittadini hanno manifestato la propria rabbia e delusione mediante una protesta pacifica che ha coinvolto uomini, donne e bambini senza distinzione di religione e casta. La contestazione dei contadini indiani, al grido di “Dilli Chalo!” (“Andiamo a Delhi!”) ha assunto i caratteri di una lunga marcia verso la capitale coinvolgendo migliaia e migliaia di persone provenienti dall’India settentrionale, cioè Punjab, Haryana, Uttar Pradesh, Chhattisgarh, Uttarakhand e Himachal Pradesh. Il 27 novembre gli agricoltori indiani sono giunti ai confini di Nuova Delhi con camion, autobus, trattori, moto ma anche a piedi. All’arrivo dei manifestanti la situazione si è fatta tesa e ci sono stati duri scontri con la polizia, che ha usato gas lacrimogeni e cannoni d’acqua contro i manifestanti. Chiunque si fosse trovato per strada (senzatetto, studenti, bambini o protestanti) è stato considerato dal governo come “Terrorista”. Inoltre, all’interno del gruppo dei manifestanti è stata trovata una spia che si era travestita con i vestiti tradizionali Sikh per uniformarsi alla folla. Il 28 novembre si è raggiunto un accordo tra gli agricoltori e le autorità per protestare in luoghi prestabiliti. Parte dei contadini è entrata in città, parte è rimasta ai limiti cantando slogan e sventolando le bandiere. Alcuni invece hanno bloccato la principale arteria autostradale di Nuova Delhi. La situazione era tesa e sono state create barricate da parte della polizia e dei manifestanti per evitare nuovi scontri. In ogni caso la protesta ha raccolto la solidarietà dei sostenitori dei diritti umani e dei residenti in giro per il mondo, che hanno discendenti agricoltori o che sono emigrati dall’India. La marcia di novembre però rappresenta solo l’apice di una protesta durata due mesi. Il 27 settembre il governo del primo ministro indiano Narendra Modi ha adottato tre leggi di liberalizzazione in materia di agricoltura. Dalla data dell’adozione i singoli governi federali hanno cercato di risolvere la questione in maniera autonoma, intavolando delle trattative con il governo centrale. L’insuccesso di queste ha causato una lunga lotta dei sindacati e accampamenti sulle autostrade dei singoli stati, in particolar modo negli stati del Punjab, che è stato il primo stato a mobilitarsi, e del Haryana. La situazione del settore agricolo in India Le proteste degli agricoltori indiani potrebbero rappresentare una rottura sociale di difficile composizione in quanto circa il 58% della popolazione dipende direttamente o indirettamente dall’agricoltura. Secondo i dati offerti dalla Banca mondiale il 41,5% dell’occupazione totale in India è impiegata nel settore agricolo, producendo il 17% del PIL del Paese. In altre parole, l’agricoltura rappresenta la principale forma di sostentamento per quasi un miliardo di persone. Le riforme colpiscono una classe agricola già seriamente in difficoltà in quanto il 52% dei contadini indiani versa in una forte situazione debitoria. In molti, schiacciati dal debito, hanno scelto di suicidarsi. Tra il 2018 e il 2019 si sono suicidati più di 20.00 agricoltori e i suicidi dei contadini rappresentano l’11,2% dei suicidi totali in India. Tale situazione però non è nuova e si protrae dal 1995. Questa infatti è legata al processo di liberalizzazione del settore agricolo che il Governo indiano sta portando avanti anche attraverso l’introduzione delle politiche imposte dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Nel primo decennio di applicazione di queste politiche (1995-2001), che hanno introdotto il libero mercato internazionale, si è assistito a una enorme contrazione dei prezzi dei prodotti agricoli. Tale contrazione è dovuta principalmente ai sussidi che i paesi occidentali forniscono annualmente ai propri agricoltori per tenere bassi i prezzi dei prodotti. I contadini indiani, a differenza dei colleghi occidentali, però non percepiscono alcun tipo di sussidio e sono quindi in balia del crollo dei prezzi imposto dall’andamento del mercato globale. A ciò si aggiunge che queste politiche hanno permesso la creazione di monopoli di mercato controllati da una manciata di corporazioni, prima tra tutti la Monsanto, che si adoperano affinché il Governo di Nuova Delhi adotti politiche a loro favorevoli. Il Governo ha cercato di risolvere la situazione degli agricoltori facendo ricorso, alternativamente, alla concessione di ulteriori prestiti ed alla Minimum Support Price (MSP) policy. Soprattutto quest’ultima avrebbe potuto rappresentare una buona strategia per aiutare le famiglie ad uscire dalla trappola della povertà ma storicamente tale politica non è stata efficace in quanto non copriva i costi di produzione sostenuti dagli agricoltori. Le proteste di novembre infatti sono solo le ultime di molte altre. Durante il primo Governo Modi (2014-2019) possiamo ricordare le proteste nell’India centrale del 2017 e del 2018. La prima si svolse nello Stato del Madhya Pradesh in cui vennero uccisi dalla polizia 6 contadini che chiedevano l’annullamento dei debiti diventati insostenibili e denunciavano l’aumento dei costi di produzione.La seconda invece si svolse nello Stato di Maharashtra e le agitazioni di migliaia di agricoltori si trasformarono in una marcia verso Mumbai. La liberalizzazione del settore agricolo del governo Modi Dal 1991 l’India ha iniziato un ampio programma di liberalizzazione a seguito di una grave crisi economica che ha colpito il paese. Come abbiamo detto il pacchetto di leggi adottato dal governo indiano segue questo percorso ma la riforma del settore agricolo era già parte dell’agenda politica del primo governo Modi. All’epoca però il governo, temendo contraccolpi politici in quanto gli agricoltori sono un fondamentale bacino di voti per ogni partito, ritirò momentaneamente le proposte per allentare le norme di acquisizione dei terreni. Nello specifico le tre leggi

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La minoranza Sikh in India

I Sikh sono una minoranza religiosa del Punjab, diviso nel 1947 tra India e Pakistan. Sebbene un numero significativo sia emigrato a causa delle gravi tensioni che si sono susseguite, i Sikh presenti in India sono circa 20,8 milionio, secondo il censimento del 2011. Nonostante la grande maggioranza si concentrati nel loro Stato natale, il Punjab, dove formano il 60% della popolazione, sono presenti comunità significative in Haryana, Himachal Pradesh, Uttaranchal e Delhi.  Le origini della comunità Sikh La religione Sikh risale alla fine del XV secolo e fu fondata da Guru Nanak (1469-1539). Insoddisfatto degli insegnamenti dell’Induismo e dell’Islam, egli formulò una dottrina egualitaria che trascendeva entrambi e divenne una potente forza di cambiamento nei secoli successivi. Un elemento cruciale di questa nuova religione fu la creazione della comunità dei Khalsa, o Compagnia dei puri, nel 1699 durante il periodo del decimo guru, Guru Gobind. I membri della comunità hanno l’obbligo di portare i simboli chiamati le cinque K, prese dalle parole kesh (capelli non tagliati), kangha (pettine), kirpan (spada), kara (braccialetto d’acciaio) e kaccha (pantaloni alla zuava). Gli uomini Sikh sono più facilmente identificabili grazie al turbante che indossano. La creazione di questa comunità ha segnato un cambiamento di atteggiamento che ha portato il Sikhismo ad abbandonare il suo tradizionale pacifismo per passare ad un approccio più “bellicoso”, sebbene non condiviso da tutti i Sikh. Per i successivi 150 anni la comunità dei Khalsa è rimasta coinvolta nel conflitto con gli invasori afghani e i governatori musulmani di Lahore. Alcuni stati Sikh mantennero un’esistenza separata sotto il dominio britannico, ma altrove, nel Punjab, il Khalsa rimase indipendente. Le lotte intestine di fazione diedero agli inglesi la possibilità di intervenire, e dopo la disputa di due guerre che li vedevano contrapposti ai Sikh, a metà del XIX secolo gli inglesi ottennero il controllo dell’intero Punjab e l’esercito del Khalsa fu sciolto. I Sikh occuparono posizioni di primo piano nell’esercito indiano al tempo della colonizzazione britannica. Molti di loro invece, sfruttarono l’opportunità collegata al possesso della cittadinanza inglese per emigrare in altre parti dell’allora vasto impero britannico. I governi provinciali eletti cominciarono ad esercitare maggiori poteri in India durante gli anni precedenti l’indipendenza. Contemporaneamente, i Sikh avanzarono proposte di modifica dei confini del Punjab per escludere le aree in gran parte indù e musulmane a sud-est e a ovest o, in alternativa, per aumentare la rappresentanza Sikh in Parlamento così da meglio proteggere i loro interessi. Queste proposte sono state ampiamente ignorate, e il partito sindacalista (prevalentemente musulmano) ha mantenuto il controllo della provincia. Temendo di vedere il loro territorio diviso tra India e Pakistan, i leader Sikh nel 1946 chiesero la creazione di un proprio Stato indipendente del Sikhistan o del Khalistan, senza successo. La situazione si deteriorò rapidamente, con episodi di violenza, spargimenti di sangue e disordini tra i musulmani da un lato, e i Sikh e gli indù dall’altro. I conflitti post-indipendenza Nel 1947, con l’indipendenza dell’India dal dominio britannico, il Punjab venne diviso tra India e Pakistan, Stato a maggioranza musulmana. Ne seguirono violenti sconvolgimenti: centinaia di migliaia di persone furono uccise e in milioni fuggirono da una parte all’altra dei nuovi confini. La comunità Sikh è stata divisa a metà e oltre il 40 per cento è stato costretto a lasciare il Pakistan per l’India, abbandonando case, terre e santuari sacri. La maggior parte dei rifugiati Sikh si è stabilita nella parte indiana, ma alcuni emigrarono in altri stati indiani o all’estero, inizialmente soprattutto nel Regno Unito e in Canada. Nel 1966 c’è stata un’ulteriore divisione tra il Punjab, a maggioranza Sikh e la sua parte meridionale, l’Haryana, a maggioranza hindu, con in comune la capitale, Chandigarh. Come nel 1947, molti gruppi religiosi e linguistici si trovarono dalla parte sbagliata del confine dopo la divisione, con gli indù punjabi che costituivano la maggioranza della popolazione urbana del Punjab e una considerevole minoranza Sikh rimasta nell’Haryana. Tra il 1966 e il 1984 questi conflitti continuarono a rimanere irrisolti, il che portò a una crescente frustrazione all’interno della comunità Sikh. Le relazioni tra i leader politici Sikh si sono fatte tese e ci sono state controversie tra il Punjab e gli Stati vicini, soprattutto l’Haryana. Queste si sono ulteriormente amplificate sotto il dominio di Indira Gandhi sulla scena politica indiana per via della sua tendenza a centralizzare il potere, piuttosto che concedere maggiore autonomia a molte regioni del Paese, incluso il Punjab. Nello stesso periodo il Punjab aveva conosciuto un notevole boom agricolo ed economico, soprattutto grazie all’introduzione della coltivazione del grano della rivoluzione verde. Nonostante questa prosperità economica, molti Sikh vedevano il contributo del Punjab all’economia nazionale come non sufficientemente riconosciuto. Allo stesso tempo, l’immigrazione degli indù in Punjab ha influenzato la percezione dei Sikh amplificandone il timore di diventare una minoranza numerica nella propria provincia. Tra estremismo Sikh e violenze governative L’ascesa di un movimento Sikh estremista guidato dal carismatico predicatore Jarnail Singh Bhindranwale ha ricevuto molto sostegno da parte della comunità Sikh ed ha portato alla richiesta di uno Stato indipendente del Khalistan per proteggere i diritti e l’identità dei Sikh. Questo movimento è diventato sempre più violento ed alla fine l’esercito indiano ha reagito mettendo in atto la controversa “Operazione Bluestar” del giugno 1984, durante la quale i militari hanno preso d’assalto il Tempio d’Oro – il più sacro dei santuari Sikh – per stanare i terroristi che vi si rifugiavano. L’azione dell’esercito causò grande risentimento tra tutta la comunità Sikh per quella che fu vista come una vera e propria profanazione dei loro luoghi sacri nonché come un affronto diretto all’intera popolazione Sikh da parte dello Stato indiano. Apice della vicenda fu l’assassinio di Indira Gandhi nell’ottobre 1984 da parte di due delle sue guardie del corpo Sikh, che provocò un’ondata di violenza indù contro la comunità – in diversi casi con il consenso della polizia e con il sostegno politico dei membri del Partito del Congresso in tutto il Paese. Ci sono state massicce distruzioni di proprietà Sikh e almeno

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JASPREET SINGH: Le proteste dei contadini indiani e il ruolo della comunità Sikh

In questa puntata di LMTalks, continuiamo a seguire gli sviluppi delle proteste dei contadini indiani ed a discutere della peculiarità della situazione della comunità Sikh.  Nostro ospite è Jaspreet Singh, Vicepresidente della Sikhi Sewa Society – una Onlus nata “con l’intento e la volontà di costruire un ponte tra i valori della cultura Sikh, di quella italiana e di tutte le altre presenti in Europa”.  Jaspreet è nato in India ma si è trasferito in Italia che era ancora un bambino ed attualmente è uno dei membri più infaticabili della diaspora Sikh, incarnando pienamente uno dei valori fondamentali della loro cultura: l’opporsi alle ingiustizie al fianco dei più deboli.  Questo precetto è anche alla base, come ci spiega Jaspreet durante l’intervista, del coinvolgimento della comunità Sikh in prima linea nelle proteste dei contadini indiani attualmente in corso.   Gli stessi infatti, non sono solo tra i promotori delle rivolte ma sono anche coloro che prestano assistenza di ogni genere ai manifestanti – fornendo loro cibo, assistenza medica, beni di prima necessità – tramite le loro associazioni di volontariato.  Prima di addentrarci nel tema del ruolo ricoperto dai Sikh nelle proteste però, ripercorriamo con Jaspreet le tappe che hanno portato allo scoppio delle rivolte ed alla violenta repressione governativa – che non ha risparmiato anche star di Hollywood del calibro di Rihanna, che aveva rilanciato l’hashtag #FarmersProtest in supporto ai manifestanti, portando così le proteste all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale.  A causa del blocco di internet imposto dal governo indiano infatti, non è per nulla semplice per la società civile occidentale reperire notizie attendibili ed aggiornate sugli sviluppi recenti delle proteste e soprattutto sugli abusi e le violenze messe in atto dal governo per reprimere il dissenso.  Jaspreet ci offre dunque un’occasione unica per riuscire comunque a mantenere i riflettori accessi sulla situazione odierna in India – che, ricordiamo per dovere di cronaca, perdura da fine settembre senza che il governo abbia mai acconsentito ad incontrare i manifestanti per aprire un canale di dialogo – e per denunciare il sempre maggiore aggravarsi della repressione governativa, nel quasi assoluto silenzio della comunità internazionale.  Grazie al suo attivismo quale esponente della diaspora poi, riusciamo a fare un breve excursus storico-politico di quali siano stati i motivi alla base delle secolari tensioni tra la comunità Sikh ed il governo centrale indiano, che è arrivato a bollarli di essere “terroristi” pur di mantenere il controllo quasi esclusivo e diretto delle risorse del Punjab – il più ricco e fertile stato indiano e patria originaria dei Sikh. Queste tensioni sono spesso sfociate in violenze e sono alla base di una discriminazione istituzionalizzata, della quale parleremo più approfonditamente in futuro.  In ultimo, discutiamo insieme di cosa sta facendo attualmente la diaspora per supportare attivamente le proteste dei contadini, di quale sarà il loro futuro e del contributo che la società civile in Occidente può dare affinché le rivendicazioni di migliaia di persone vengano udite e le violazioni che il governo indiano pone in essere nei confronti dei suoi cittadini per difendere una riforma agraria fortemente voluta dalle multinazionali occidentali, vengano condannate e giustamente sanzionate.  Cogliamo l’occasione per invitare tutti a far sentire la loro vicinanza ai contadini che stanno manifestando ininterrottamente da più di sei mesi – in condizioni umanamente difficili e sottoposti ad ogni tipo di vessazione – condividendo e diffondendo notizie utilizzando l’hashtag internazionale #FarmersProtest. In questo modo il dibattito verrà quotidianamente alimentato, i riflettori in Occidente rimarranno accesi ed i manifestanti si sentiranno meno soli a combattere contro un interesse economico che mette il profitto di fronte ad ogni standard minimo di rispetto dei diritti umani.  Noi di Large Movements, in collaborazione con la Sikhi Sewa Society, continueremo a seguire da vicino gli sviluppi delle proteste ed a tenervi aggiornati.   Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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