IL DRAMMA DEI CONTADINI IN INDIA: Come gli OGM e la mancanza di politiche concrete porta sempre più contadini al suicidio

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Dal 1995 i suicidi dei contadini in India sono stati molto più di 300.000. In base alle statistiche del National Crime Records Bureau of India, si suicida un contadino ogni mezz’ora. 

Gli Stati Indiani, che da soli contano l’87,5% dei suicidi dei contadini sono Maharashtra, Karnataka, Telangana, Madhya Pradesh, Chhattisgarh, Andhra Pradesh e Tamil Nadu. 

Come dichiarato da Raju Das – professore di studi sullo sviluppo alla York University – “La questione dei suicidi tra i contadini non è solo un problema dei contadini, o un problema delle campagne, o dei villaggi – è un problema molto più grande, politico-economico” 

Prima di trattare tutte le tematiche connesse a questo macabro fenomeno, è opportuno fare una fotografia della situazione attuale dei contadini indiani, così da poter rendersi conto dell’effettiva portata dello stesso: 

  • il 58% della popolazione dipende dall’agricoltura, ossia il suo lavoro è connesso in qualche modo con questo settore. Stando ai dati dell’ultimo censo, effettuato nel 2011, 120 milioni di indiani sono contadini. Per dare un’idea della vastezza di questa classe, i dottori in India sono 1 milione. Questo vuol dire che per ogni dottore, ci sono 12 contadini – ammesso che la popolazione contadina non sia cresciuta dal 2011 ad oggi; 
  • l’entrata annuale di un contadino indiano è l’equivalente di circa $272; quella mensile di circa $23; quella giornaliera di circa $0,76;  
  • il 52% dei contadini indiani versa in una forte situazione debitoria. La media annua del debito contratto dalle famiglie contadine è di circa $640 e, con un reddito annuo pari a circa $272 è impossibile pensare che le stesse possano far fronte alle spese vive quotidiane (bollette, cibo) e contemporaneamente ripagare il loro debito. Questo fa sì che lo stesso cresca esponenzialmente e “strozzi” i contadini. 

Questa del debito pendente sulla classe contadina non è una tematica nuova, così come non lo è quella dei suicidi.  

Sin dall’inizio del dominio britannico in India infatti, gli agricoltori erano costretti a pagare delle tasse altissime per l’utilizzo del terreno e spesso i redditi che ne ricavavano erano troppo bassi per coprire le spese. Questo sistema ha portato migliaia di contadini e le loro famiglie sul lastrico e molti di loro, disperati, compivano un gesto così estremo perché era visto come l’unico modo per liberarsi dai debiti. Il fenomeno dei suicidi dei contadini divenne così diffuso che nell’ ‘800 il governo inglese fu costretto ad emanare una serie di provvedimenti che limitassero l’altissimo tasso di indebitamento dei contadini.  

Nonostante questa prima consapevolezza, nel 1894 il governo dell’India indipendente ha emanato il Land Acquisition Act che diede l’avvio ad uno dei primi fenomeni di Land Grabbing. L’India poi è un caso particolare perché è lo stesso governo ad autorizzarlo sul proprio territorio. 

Gli effetti dell’applicazione di questa legge sulla popolazione indiana sono stati duplici a seconda che si fosse proprietari terrieri o contadini, ma comunque devastanti: 

  • i proprietari terrieri a cui è stata espropriata la terra non hanno ricevuto compenso o lo stesso è stato minimale; 
  • i contadini – che non erano proprietari della terra che lavoravano ma dipendevano da essa per ricavarne i mezzi necessari per la sopravvivenza propria e del proprio nucleo famigliare – sono rimasti senza alcun terreno da lavorare e quindi senza modi per sopravvivere.  

Negli anni il Governo indiano ha emanato delle leggi a garanzia e protezione di questa fascia vulnerabile ma si è sempre trattato di palliativi che di fatto non solo non hanno risolto il problema, in molti casi l’hanno addirittura peggiorato. 

Misure messe in campo da Governo 

Negli anni le uniche misure a cui ha fatto ricorso il Governo in maniera alternata sono: 

  1. Concedere ulteriori prestiti ai contadini. Come si è visto, il debito medio annuale delle famiglie di contadini è più del doppio delle loro entrate annue il che rende già impossibile agli agricoltori poter ripagare i prestiti concessi. Garantirne di nuovi concederà loro liquidità immediata – che comunque spesso è utilizzata per coprire parte del debito, non per sopperire ai reali bisogni famigliari, per paura che la banca si appropri del terreno – ma li imbriglia ancor di più nella trappola del debito, generando una spirale senza fine da cui i contadini non riescono più ad uscire; 
  1. Aver adottato il Minimum Support Price (MSP) policy: secondo questa politica, il Governo ogni anno acquista 26 coltivazioni di contadini ad un prezzo calmierato (indipendentemente da quale sia il prezzo stabilito dal libero mercato). Questa avrebbe potuto essere una buona strategia per aiutare le famiglie contadine ad uscire dalla trappola della povertà se non fosse però, che l’attuale MSP – e tutti quelli adottati prima – non copre nemmeno i costi di produzione che gli agricoltori devono sostenere ogni anno. 

Questa non corrispondenza con il dato reale deriva dal fatto che il Governo, nel calcolare il MSP, non ha mai applicato la formula che era stata individuata dagli esperti. 

In un suo report del 2004 infatti, la Swaminathan Commission (la Commissione Nazionale degli Agricoltori indiana) ha stabilito che, per poter calcolare equamente il MSP, si sarebbe dovuto tener conto di 3 variabili di costo: 

  1. Semi, agenti chimici e lavoro individuale; 
  1. Lavoro di tutti i componenti della famiglia; 
  1. Affitto od interessi che i contadini ogni anno devono pagare per il proprio terreno o le proprie attrezzature – il che ci dimostra quanto poco sia cambiato dall’epoca della colonizzazione britannica 

Il Ministero delle Finanze invece, applica una formula che tiene conto solo delle prime due variabili di costo per nulla prendendo in considerazione i costi di affitto di terreno e/o materiali che spesso sono la vera causa di indebitamento delle famiglie contadine. 

Nel disperato tentativo di far sentire le proprie voci, nel 2018 i contadini indiani hanno condotto due proteste pacifiche che hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale per un breve periodo. 

A Maharasthra, più di 500.000 contadini hanno marciato con le loro famiglie per 160 km per presentare al Governo le loro richieste. Questa protesta è stata a dir poco singolare perché i contadini hanno marciato di notte, così da non ostacolare gli studenti che l’indomani mattina si sarebbero dovuti recare a scuola per sostenere gli esami. 

Nel luglio dello stesso anno poi, i contadini di Tamil Nadu hanno protestato per 40 giorni consecutivi e, nel tentativo di attirare l’attenzione delle autorità locali, hanno compiuto gesti eclatanti che bene hanno rappresentato il livello della loro disperazione (come il bere la propria urina). 

Purtroppo però nessuna di queste proteste ha ottenuto l’effetto desiderato. Questo perché le concause che entrano in gioco nel trattare questa tematica sono complesse e gli interessi economici dietro alcune di queste fanno sì che il Governo risulti sordo alle richieste di quella che di fatto rappresenta la maggioranza della popolazione. 

Fattori che concorrono alla crisi 

Uno dei principali problemi al quale è connessa la crisi del settore agricolo indiano è il crollo del prezzo dei prodotti agricoli dovuto al libero mercato, introdotto ed imposto nel paese dalle politiche del WTO. 

Nei soli primi 10 anni di effettiva applicazione di dette politiche (1995-2001) infatti: (i) il prezzo del grano è passato da $216 a tonnellata a $133 a tonnellata; (ii) il prezzo del cotone da $98,2 a $49,1; (iii) quello della soia da $273 a &178. 

Questa enorme contrazione si basa sull’erogazione di sussidi che i paesi occidentali forniscono annualmente agli agricoltori per tenere bassi i prezzi dei prodotti (ad esempio, negli USA questi sussidi ammontano a 4 bilioni di dollari annui complessivi).  

Per di più, le politiche del WTO hanno permesso la creazione di monopoli di mercato controllati da una manciata di corporazioni – la più famosa tra tutte per aver prodotto gli effetti più devastanti sia sull’economia che sulla salute dell’India è la Monsanto. Questi monopoli si adoperano per far sì che il Governo adotti politiche a loro favorevoli, aumentando le importazioni di prodotti a discapito della produzione interna. E’ infatti un principio base in economia quello secondo il quale maggiore è l’offerta rispetto alla domanda, minore sarà il prezzo di vendita.  

A differenza dei loro colleghi occidentali però, i contadini indiani non percepiscono alcun tipo di sussidio e quindi sono completamente in balia del crollo dei prezzi imposto dall’andamento del mercato globale – di fatto quindi, imposto da una manciata di multinazionali. 

Secondo la Research Foundation for Science, Technology and Ecology, i contadini indiani perdono all’anno 26 bilioni di dollari, profitto che rientra nelle casse di corporazioni come la Monsanto. 

Spesso le produzioni agricole locali indiane valgono così poco che i contadini preferiscono: 

  • distruggere il loro raccolto; 
  • lasciare i prodotti in mezzo alle strade del mercato; 
  • darlo in regalo. 

Un altro motivo per il quale il reddito prodotto dai contadini è sempre più ridotto è la continua introduzione di nuove figure di intermediari nella filiera produttiva. Dal momento che il prezzo finale è “imposto” dalle multinazionali – e quindi è fisso – più persone si frappongono tra il produttore ed il consumatore, meno guadagno ci sarà per il primo anello della catena (il contadino appunto). 

Altra grande catastrofe che si è abbattuta sull’agricoltura indiana a causa dell’arrivo delle multinazionali – e la Monsanto in questa è da sempre stata in prima fila –, è l’agricoltura OGM. 

La prima volta che in India si iniziò a parlare di questo sistema “innovativo” di agricoltura è stato nel 1951 con l’avvio del Piano Quinquennale di sviluppo programmato – sotto l’egida della Russia sovietica. Seguendo questo piano, negli anni Sessanta venne distribuito tra gli agricoltori un kit gratuito contenente semi ibridi, fertilizzanti e pesticidi. Ovviamente, i raccolti degli anni successivi aumentarono esponenzialmente ed i contadini, non essendo affatto consci di cosa l’utilizzo di questi prodotti facesse alla terra ed al cibo, smisero di utilizzare i semi naturali divenendo totalmente dipendenti dai semi ibridi.  

Dal momento che le piante OGM non producono semi naturalmente, gli agricoltori erano costretti ad acquistarli ogni anno a prezzi sempre più elevati indebitandosi sempre di più. 

Il vero dramma legato all’utilizzo degli OGM però si è verificato a partire dal 1998. In quell’anno la World Bank impose all’India di aprire la propria economia agricola alle corporazioni globali (Cargill, Monsanto e Sygenta in prima fila). 

In un sorprendentemente breve periodo, queste hanno completamente distrutto una tradizione agricola millenaria, trovando la strada già “spianata” dagli effetti dell’utilizzo del kit gratuito. 

La Monsanto ed il resto delle corporazioni hanno imposto l’utilizzo dei loro semi – che per crescere hanno bisogno di fertilizzanti e pesticidi e che non possono essere conservati – distruggendo le riserve dei semi naturali che i contadini erano abituati a conservare per utilizzarli negli anni successivi, permettendo loro di risparmiare e di ridurre i costi del lavoro. 

Per di più, questi semi OGM e gli agenti chimici necessari per farli crescere sono veramente costosi. I contadini sono stati quindi costretti ad utilizzare le risorse necessarie per sopperire ai propri bisogni quotidiani pur di poterli acquistare. Questo ha aumentato ancor di più la gravità del loro indebitamento. 

Altro grande problema che influisce sulla produzione agricola è la pioggia

  • se ne cade troppo poca, non si produce abbastanza da poter ricavare almeno il necessario per non morire di fame. Per di più la scarsità di grano colpisce anche l’allevamento producendo un effetto domino sul resto delle economie locali; 
  • se ne cade troppa (come durante la stagione dei monsoni), la produzione aumenta ma conseguentemente diminuiscono ancora di più i prezzi perché l’offerta sul mercato aumenta. 

Possibili soluzioni 

Per quanto la strada sia incerta e tortuosa, soprattutto per la grande influenza che le corporazioni hanno sul continente indiano – influenza che rischia di affermarsi ancor di più a causa della grave crisi economica e sociale che si sta delineando come conseguenza della pandemia – qualcosa può essere fatto, in concreto, per migliorare le condizioni di vita dei contadini e prevenirne i suicidi. 

Una serie di autorevoli esperti – tra cui Devinder SharmaSiraj HussainAshok Gulati – sostengono che il Governo indiano debba abbandonare la politica del MSP perché: 

  1. non ci sono abbastanza fondi nelle casse dello Stato per poter permettere al Governo di acquistare 26 piantagioni all’anno; 
  1. membri importanti del WTO – primi tra tutti Stati Uniti, Canada ed Australia – hanno sollevato dubbi sulla sostenibilità finanziaria del fondo stesso ed il WTO ha cominciato ad attenzionare da vicino i vari movimenti 

La soluzione proposta dagli esperti è quella di sviluppare una serie di politiche a sostegno del reddito dei contadini piuttosto che del prezzo della merce, andando quindi ad intervenire direttamente sul problema reale e non proteggendo l’economia di mercato a discapito delle fasce più deboli della popolazione.  

Sempre in un’ottica di nuove politiche da adottare per affrontare il problema in tutte le sue svariate sfaccettature, una delle misure più urgenti da applicare è quella di progettare programmi di sviluppo che vadano ad incentivare un ritorno all’agricoltura tradizionale – vista l’entità dei danni sociali, economici ed ambientali che derivano dall’utilizzo di prodotti OGM. 

Come abbiamo visto infatti, le multinazionali occidentali hanno imposto il ricorso a semi ibridi e pesticidi il che ha gradualmente intossicato il terreno. Dato il marcato utilizzo degli stessi, a causa del monopolio della Monsanto sull’industria dell’agricoltura OGM, i livelli di avvelenamento del cibo e del terreno sono aumentati esponenzialmente in brevissimo tempo e ad oggi non accennano a diminuire. 

A riprova di questo, i dati confermano che. negli ultimi venti anni, le morti per avvelenamento da cibo causato dal ricorso ai pesticidi, sono circa 40 volte superiori rispetto a quello degli USA – la patria dell’industria OGM. 

Data la massiccia influenza economica che la Monsanto e le restanti corporazioni esercitano sul Governo indiano però, questa strada è ancora tutta in salita e sarà costellata da enormi ostacoli lungo la via. 

Un’altra soluzione proposta è quella di aumentare il numero dei Farmers’ Markets, ossia i mercati nei quali i contadini portano a vendere i loro prodotti.  

Attualmente in India ve ne sono all’incirca 7.000 sparsi su tutto il territorio, ma dato il numero elevato della popolazione che lavora nel settore e data l’elevata domanda interna, è stato stimato che ne servirebbero almeno 20.000. 

L’utilità di questi Farmers’ Markets è duplice: 

  • una presenza più capillare di questi mercati sul territorio ridurrebbe i costi che i contadini sono costretti ad affrontare per il trasporto e lo stoccaggio delle merci; 
  • il numero degli intermediari nella filiera produttiva sarebbe ridotto così da aumentare le entrate dei contadini – che avranno meno persone con cui dover dividere il profitto derivante dal prezzo finale di vendita 

In ultimo, il Governo potrebbe adottare anche altre due ulteriori misure che impatterebbero il settore della logistica legata all’agricoltura: 

  1. migliorare ed implementare i siti di stoccaggio merce – indipendentemente dal numero di Farmers’ Markets – perché sempre più spesso i contadini non possono permettersi uno stabile privato in cui depositare il proprio raccolto in vista della vendita e/o le proprie eccedenze. Questo eviterebbe che molti raccolti vadano distrutti per mano degli stessi contadini; 
  1. innovare il sistema di assicurazione delle piantagioni, il quale non ricomprende molte cause che attualmente si verificano con sempre più incidenza e che distruggono i raccolti. Questo fa sì che queste assicurazioni sono sempre più spesso inutili poiché non indennizzano quasi più alcun danno di quelli che nell’era moderna possono affliggere un raccolto. 

Tutte le suddette misure richiedono una procedura lunga e complessa, soprattutto da un punto di vista negoziale ma, qualora implementate, potrebbero davvero migliorare le condizioni di vita della maggior parte della popolazione indiana.  

Esperti ed attivisti hanno pronti da anni dei piani di sviluppo puntuali e dettagliati in ogni fase, quello che manca è solo una ferma volontà del Governo indiano di affrancarsi dall’ultradipendenza dallo strapotere monetario delle multinazionali.  

Le stesse, a loro volta, tengono sotto scacco l’establishment da decenni in difesa dei propri interessi economici che nulla hanno a che vedere con l’effettiva vita della popolazione di quell’area. L’unica a pagare il prezzo di politiche figlie dell’era post-coloniale è, come spesso accade, la fascia più povera ed indifesa della popolazione. 

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La minoranza Sikh in India

I Sikh sono una minoranza religiosa del Punjab, diviso nel 1947 tra India e Pakistan. Sebbene un numero significativo sia emigrato a causa delle gravi tensioni che si sono susseguite, i Sikh presenti in India sono circa 20,8 milionio, secondo il censimento del 2011. Nonostante la grande maggioranza si concentrati nel loro Stato natale, il Punjab, dove formano il 60% della popolazione, sono presenti comunità significative in Haryana, Himachal Pradesh, Uttaranchal e Delhi.  Le origini della comunità Sikh La religione Sikh risale alla fine del XV secolo e fu fondata da Guru Nanak (1469-1539). Insoddisfatto degli insegnamenti dell’Induismo e dell’Islam, egli formulò una dottrina egualitaria che trascendeva entrambi e divenne una potente forza di cambiamento nei secoli successivi. Un elemento cruciale di questa nuova religione fu la creazione della comunità dei Khalsa, o Compagnia dei puri, nel 1699 durante il periodo del decimo guru, Guru Gobind. I membri della comunità hanno l’obbligo di portare i simboli chiamati le cinque K, prese dalle parole kesh (capelli non tagliati), kangha (pettine), kirpan (spada), kara (braccialetto d’acciaio) e kaccha (pantaloni alla zuava). Gli uomini Sikh sono più facilmente identificabili grazie al turbante che indossano. La creazione di questa comunità ha segnato un cambiamento di atteggiamento che ha portato il Sikhismo ad abbandonare il suo tradizionale pacifismo per passare ad un approccio più “bellicoso”, sebbene non condiviso da tutti i Sikh. Per i successivi 150 anni la comunità dei Khalsa è rimasta coinvolta nel conflitto con gli invasori afghani e i governatori musulmani di Lahore. Alcuni stati Sikh mantennero un’esistenza separata sotto il dominio britannico, ma altrove, nel Punjab, il Khalsa rimase indipendente. Le lotte intestine di fazione diedero agli inglesi la possibilità di intervenire, e dopo la disputa di due guerre che li vedevano contrapposti ai Sikh, a metà del XIX secolo gli inglesi ottennero il controllo dell’intero Punjab e l’esercito del Khalsa fu sciolto. I Sikh occuparono posizioni di primo piano nell’esercito indiano al tempo della colonizzazione britannica. Molti di loro invece, sfruttarono l’opportunità collegata al possesso della cittadinanza inglese per emigrare in altre parti dell’allora vasto impero britannico. I governi provinciali eletti cominciarono ad esercitare maggiori poteri in India durante gli anni precedenti l’indipendenza. Contemporaneamente, i Sikh avanzarono proposte di modifica dei confini del Punjab per escludere le aree in gran parte indù e musulmane a sud-est e a ovest o, in alternativa, per aumentare la rappresentanza Sikh in Parlamento così da meglio proteggere i loro interessi. Queste proposte sono state ampiamente ignorate, e il partito sindacalista (prevalentemente musulmano) ha mantenuto il controllo della provincia. Temendo di vedere il loro territorio diviso tra India e Pakistan, i leader Sikh nel 1946 chiesero la creazione di un proprio Stato indipendente del Sikhistan o del Khalistan, senza successo. La situazione si deteriorò rapidamente, con episodi di violenza, spargimenti di sangue e disordini tra i musulmani da un lato, e i Sikh e gli indù dall’altro. I conflitti post-indipendenza Nel 1947, con l’indipendenza dell’India dal dominio britannico, il Punjab venne diviso tra India e Pakistan, Stato a maggioranza musulmana. Ne seguirono violenti sconvolgimenti: centinaia di migliaia di persone furono uccise e in milioni fuggirono da una parte all’altra dei nuovi confini. La comunità Sikh è stata divisa a metà e oltre il 40 per cento è stato costretto a lasciare il Pakistan per l’India, abbandonando case, terre e santuari sacri. La maggior parte dei rifugiati Sikh si è stabilita nella parte indiana, ma alcuni emigrarono in altri stati indiani o all’estero, inizialmente soprattutto nel Regno Unito e in Canada. Nel 1966 c’è stata un’ulteriore divisione tra il Punjab, a maggioranza Sikh e la sua parte meridionale, l’Haryana, a maggioranza hindu, con in comune la capitale, Chandigarh. Come nel 1947, molti gruppi religiosi e linguistici si trovarono dalla parte sbagliata del confine dopo la divisione, con gli indù punjabi che costituivano la maggioranza della popolazione urbana del Punjab e una considerevole minoranza Sikh rimasta nell’Haryana. Tra il 1966 e il 1984 questi conflitti continuarono a rimanere irrisolti, il che portò a una crescente frustrazione all’interno della comunità Sikh. Le relazioni tra i leader politici Sikh si sono fatte tese e ci sono state controversie tra il Punjab e gli Stati vicini, soprattutto l’Haryana. Queste si sono ulteriormente amplificate sotto il dominio di Indira Gandhi sulla scena politica indiana per via della sua tendenza a centralizzare il potere, piuttosto che concedere maggiore autonomia a molte regioni del Paese, incluso il Punjab. Nello stesso periodo il Punjab aveva conosciuto un notevole boom agricolo ed economico, soprattutto grazie all’introduzione della coltivazione del grano della rivoluzione verde. Nonostante questa prosperità economica, molti Sikh vedevano il contributo del Punjab all’economia nazionale come non sufficientemente riconosciuto. Allo stesso tempo, l’immigrazione degli indù in Punjab ha influenzato la percezione dei Sikh amplificandone il timore di diventare una minoranza numerica nella propria provincia. Tra estremismo Sikh e violenze governative L’ascesa di un movimento Sikh estremista guidato dal carismatico predicatore Jarnail Singh Bhindranwale ha ricevuto molto sostegno da parte della comunità Sikh ed ha portato alla richiesta di uno Stato indipendente del Khalistan per proteggere i diritti e l’identità dei Sikh. Questo movimento è diventato sempre più violento ed alla fine l’esercito indiano ha reagito mettendo in atto la controversa “Operazione Bluestar” del giugno 1984, durante la quale i militari hanno preso d’assalto il Tempio d’Oro – il più sacro dei santuari Sikh – per stanare i terroristi che vi si rifugiavano. L’azione dell’esercito causò grande risentimento tra tutta la comunità Sikh per quella che fu vista come una vera e propria profanazione dei loro luoghi sacri nonché come un affronto diretto all’intera popolazione Sikh da parte dello Stato indiano. Apice della vicenda fu l’assassinio di Indira Gandhi nell’ottobre 1984 da parte di due delle sue guardie del corpo Sikh, che provocò un’ondata di violenza indù contro la comunità – in diversi casi con il consenso della polizia e con il sostegno politico dei membri del Partito del Congresso in tutto il Paese. Ci sono state massicce distruzioni di proprietà Sikh e almeno

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Le caste in India

Il sistema delle caste in India è tutt’oggi in vigore anche se con modalità e leggi diverse. Questo tipo di sistema sociale ha avuto origine circa due mila anni fa in quel territorio che oggi è ricompreso tra India e Nepal. Questo sistema all’origine divideva le persone nelle varie caste di appartenenza in base al lavoro che facevano ma successivamente la divisione veniva effettuata su base ereditaria, facendo sì che ogni persona ancor prima della nascita era destinata a un determinato stile di vita. Le grandi classi che compongono questa società piramidale sono chiamate varna, ovvero colori, mentre il termine “casta” viene dal portoghese, che traduce dal sanscrito jati, che vuol dire nascita. La nascita per gli indiani è sinonimo di far parte di una casta. La traduzione di questo concetto con la parola “casta” è quindi errata in quanto proviene da un termine che è l’equivalente di sottocasta. Gli jati infatti sono i diversi sottogruppi dei varna all’interno dei quali vengono circoscritti i singoli mestieri. Esiste quindi la sottocasta dei barbieri, quella dei suonatori o dei medici e così via. Questa ulteriore distinzione è necessaria all’interna di un sistema strutturato in questo modo perché chi fa parte di una determinata sottocasta può svolgere solo un mestiere e lo stesso varrà anche per i suoi figli. Queste sotto caste possono indicare però anche l’appartenenza a una setta, una tribù, una stirpe o un determinato luogo geografico. Struttura e caratteristiche del sistema delle caste Nel sistema piramidale vengono delineati quattro gruppi principali che sono, in ordine di importanza: I Brahmani (i sacerdoti), I Kshatriya (i guerrieri e i nobili), I Vaisya (gli agricoltori, i commercianti e gli artigiani), I Shudra (i mezzani e i servi). Al di fuori di questi gruppi poi, ci sono i paria, gli “intoccabili”. Dal XX secolo si chiamano anche dalit che significa “gli oppressi”, per porre l’accento sulle condizioni di vita di questo gruppo sociale. Il nome intoccabili deriva dal fatto che questo gruppo sociale è relegato a svolgere i mestieri ritenuti “impuri” dalla religione induista. I dalit infatti sono conciatori di pelle, lavorano nel settore funebre o delle pulizie. Un’altra caratteristica molto importante, tramandata fino ai giorni nostri, è il matrimonio. Questo è consentito solo tra persone appartenenti alla stessa casta e, conseguentemente, i loro figli ne faranno indissolubilmente parte. Le prime tre caste vengono chiamate anche dvija, “nati due volte”, perché gli uomini nascono metaforicamente due volte grazie al rito di iniziazione del upanayana che significa “condurre vicino”, ovvero “condurre un giovane discepolo vicino un maestro affinché conosca il Veda” (raccolta di testi sacri dei popoli arii in sanscrito vedico). Con questo rito gli ārya, ovvero coloro che fatto parte della dvija, entrano nel primo āśrama, il Brahmacārya (condotta in armonia con il Brahman), e in questo modo diventa un brahmacārin. Gli shudra i dalit e gli harijan invece, si chiamano anche i “nati una volta”, proprio perché non possono eseguire nessun rito di iniziazione. Motivi religiosi e pratici di una divisione gerarchica Questa divisione di classi può essere vista sotto il punto di vista idealista o materialista: secondo il primo, questo sistema sociale è un prodotto della visione religiosa della vita, un modo alternativo per rappresentare le disuguaglianze sociali; mentre in un’ottica materialista, questo sistema è una giustificazione meramente superficiale della distinzione sociale. Il motore principale che rende il sistema delle caste di difficile eradicazione anche nella società moderna è il concetto di reincarnazione. Secondo questo principio, se un individuo si comporta bene in vita, si potrebbe reincarnare anche in un brahmano. Contrariamente, qualora si comportasse male, potrebbe scendere nella scala gerarchica, fino ad addirittura reincarnarsi in un animale – motivo per cui molti indiani sono vegetariani. Questo ciclo di reincarnazione dell’anima nei corpi si chiama saṃsāra e contiene in sé il principio intrinseco secondo il quale, se si nasce in una casta “inferiore”, vuol dire che nella vita precedente si è stati peccatori. Questo evita tutt’ora che la popolazione indiana, soprattutto quella dei dalit, si ribelli contro questo sistema. Molti di loro sono convinti di meritarsi questo “castigo” così da poter espiare le proprie colpe nell’attuale vita e potersi reincarnare in una casta più alta nella prossima. A favore o meno delle caste Per il Mahatma Gandhi “le caste hanno salvato l’induismo dalla disintegrazione, pur soffrendo di escrescenze. Le sottocaste, però, rappresentano un impedimento”, mostrandosi quindi a favore dell’abolizione del sistema delle sottocaste e dell’integrazione dei dalit, mantenendo però le dovute distanze. Al contrario Ramji Ambekar, di famiglia dalit e “padre della Costituzione Indiana”, era a favore dell’abolizione totale del sistema delle caste. La sua visione di vita molto contemporanea si può rivedere in una frase molto emblematica: L’uguaglianza può essere una finzione, ma bisogna comunque accettarla come principio guida. Infatti, per tutta la vita lottò per l’uguaglianza arrivando a siglare un accordo di fronte alla prigione di Proon. Tale accordo divenne legge nel 1950 e pose le basi per l’adozione di una legge contro la discriminazione sulla base della casta e la legge di “intoccabilità” dei dalit.  Le caste dall’indipendenza ad oggi Dall’indipendenza il sistema delle caste è rimasto più o meno invariato. Infatti, appena raggiunta l’indipendenza, l’India versava in una situazione di disuguaglianza sociale molto rilevante e la linea guida fu quella di mantenere il sistema delle caste così da stimolare gli appartenenti a ciascuna casta e sottocasta a dedicarsi al proprio settore al meglio. Poi, con il passare del tempo, nelle grandi città l’appartenenza ad una casta è diventato quasi un concetto obsoleto. Nelle campagne e nei centri rurali invece, il sistema delle caste continua ad essere una realtà ben presente e tangibile. Il sistema delle caste è stato formalmente abolito nel 1947. Nella Costituzione Indiana infatti, l’articolo 15 recita così: Lo Stato non può discriminare nessun cittadino per motivi di religione, razza, casta, sesso, luogo di nascita. Nessun cittadino può per motivi di religione, razza, casta, sesso o luogo di nascita essere soggetto a forme di discriminazione, restrizione o condizione riguardo a:(a) l’accesso a negozi, ristoranti pubblici,

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L’India e le due facce del Land Grabbing

La Repubblica dell’India vive le due facce del Land grabbing in quanto da una parte acquista porzioni di terra all’estero, dall’altra vende la propria terra in nome dello sviluppo economico. In India, il 65% delle persone dipende dalla terra e, allo stesso tempo, l’economia globale vuole sempre più terra per le industrie, per le città, per le infrastrutture e per le piantagioni. In altre parole la globalizzazione e le nuove forme di colonialismo economico stanno portando a un massiccio accaparramento di terre in Asia, in Africa e in America Latina. Per Land grabbing si intende un “accaparramento di terre fertili praticato in violazione di diritti umani senza consenso preventivo da parte delle popolazioni coinvolte e senza la minima considerazione dell’impatto socio-economico e ambientale ed evitando la conclusione dei contratti trasparenti”. Spesso, quando si parla di Land grabbing, si parla di una forma di neocolonialismo agricolo che mette in luce i movimenti finanziari verso gli alimenti e i terreni fertili. In occasione dei fenomeni di Land grabbing da una parte i contadini locali perdono la propria fonte di reddito in quanto non detengono più la proprietà della terra, dall’altra gli attori che acquistano tali appezzamenti utilizzano la manodopera del proprio paese o sfruttano intensivamente il territorio provocando fenomeni di inquinamento. Il Land grabbing in India L’India ha intrapreso uno sforzo su larga scala guidato dallo stato per irrigare e modernizzare l’agricoltura e parallelamente ha dato un grande impulso all’industrializzazione e all’urbanizzazione. Tali tendenze hanno portato all’acquisizione di terreni su larga scala da parte dello stato grazie al Land Acquisition Act del 1894, ovvero una legge sull’acquisizione di terreni che il governo dell’India indipendente trovò conveniente per affrontare la frammentazione delle proprietà terriere. In questo modo il governo ha attuato fenomeni di Land grabbing sul proprio territorio. Si stima che dalla propria indipendenza, avvenuta nel 1947, siano stati  acquisiti o convertiti più di 50 milioni di acri di terra – circa il 6% della terra totale dell’India – e che siano state colpite più di 50 milioni di persone. I proprietari terrieri colpiti venivano pagati poco e in molti non sono mai stati pagati, mentre coloro che dipendevano dalla terra per i mezzi di sussistenza e non erano proprietari sono rimasti senza terra. A ciò si aggiungono gli effetti del programma di aggiustamento strutturale della Banca mondiale del 1991 che ha facilitato la riforma agraria, le attività minerarie liberalizzate, e la costruzione di infrastrutture. Di conseguenza le leggi indiane furono modificate verso una maggiore liberalizzazione tranne per quanto riguarda il Land Acquisition Act con il quale lo stato ha acquisito la terra dai contadini e dai popoli tribali e rivenduta a speculatori privati, società immobiliari, compagnie minerarie e industrie. In questo senso il governo Indiano sta causando enormi problemi dal punto di vista ecologico ma anche per quanto riguarda la sicurezza alimentare e il sostentamento delle comunità rurali. Ad esempio, nel distretto di Uttar Pradesh la società di infrastrutture Jaiprakash Associates sta acquisendo circa 6000 acri di terra per costruire distretti di lusso, strutture sportive e la superstrada Yamuna mettendo così a rischio il terreno di circa 1225 villaggi. I contadini hanno protestato per questa ingiusta acquisizione di terre e sono morte quattro persone durante uno scontro tra manifestanti e polizia il 7 maggio 2011. La prassi vede il terreno acquistato dagli agricoltori a circa 6$ per metro quadrato dal governo, usando il Land Acquisition Act e rivenduto a circa 13.000$ per metro quadrato. Tale dinamica aumenta lo stress del suolo (provocandone il sovrasfruttamento e la conseguente sterilizzazione del terreno) contribuendo alla povertà, all’espropriazione e al conflitto tra le diverse etnie e comunità o minoranze. Quello dell’Uttar Pradesh non è l’unico esempio e si potrebbero ricordare anche le proteste in occasione dell’inizio dei lavori della mega diga Narmada promossa dalla Banca Mondiale o lo sfruttamento intensivo dell’acqua nello stato indiano del Kermala ad opera dell’Hindustan Coca-Cola Beverages, società sussidiaria di Coca-Cola. L’India come attore del Land grabbing all’estero L’India è, insieme alla Cina, la Corea del Sud e l’Arabia Saudita, tra i principali paesi “Land grabbers” per poter coltivare raccolti ed estrarre materie prime. Attualmente la terra è la risorsa più scarsa dell’India e questa rappresenta la fonte di sostentamento per oltre la metà della sua popolazione. Per questo motivo l’India ha utilizzato la copertura della cooperazione Sud-Sud per portare avanti le proprie azioni di Land grabbing. Un esempio è l’accaparramento di terre da parte delle multinazionali indiane in Etiopia, facilitato dai governi di entrambi i paesi, che usano la retorica dello sviluppo mentre emarginano le comunità indigene che sopportano la conseguente devastazione sociale, economica e ambientale. In Etiopia le aziende indiane sono i maggiori investitori nel paese, avendo acquisito più di 600.000 ettari di terra per progetti agroindustriali. Con l’80% della sua popolazione impegnata nell’agricoltura, l’Etiopia ospita oltre 34 milioni di persone cronicamente affamate. Ogni anno, milioni di persone dipendono dagli aiuti  per la propria sopravvivenza. In tale contesto gli accordi di vendita di terra su larga scala con gli investitori indiani sono descritti come una situazione win-win in quanto modernizzerebbero l’agricoltura, porterebbero nuove tecnologie e creerebbero occupazione. La ricerca dell’Oakland Institute contraddice tali affermazioni in quanto la maggior parte di ciò che viene prodotto è costituito da colture di esportazione non alimentari, mentre gli incentivi fiscali offerti agli investitori stranieri privano l’Etiopia di utili preziosi. Inoltre, le promesse della creazione di posti di lavoro rimangono insoddisfatte poiché il lavoro di piantagione nella migliore delle ipotesi offre posti di lavoro a basso reddito. Infine il governo etiope sta usando il suo programma di ricollocamento per spostare con la forza circa 1,5 milioni di indigeni dalle loro case, fattorie e pascoli con lo scopo di far posto alle piantagioni agricole monocolturali. Coloro che rifiutano subiscono intimidazioni, percosse, stupri, detenzioni arbitrarie e rischiano persino la morte. Prospettive e danni sociali Come abbiamo visto l’India vive le due facce del Land grabbing essendo tra i principali promotori di tale dinamica e allo stesso tempo tra i paesi maggiormente colpiti. Tale dinamica ci segnala

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“Dilli Chalo!”: La protesta dei contadini in India tra la riforma Agricola e la questione dei Sikh

In India la fine di novembre ha segnalato il culmine di mesi di protesta dei contadini contro le leggi sulla liberalizzazione del settore agricolo volute dal governo Modi. Queste leggi infatti impattano direttamente sulla vita della maggior parte della popolazione, già in difficoltà per la situazione debitoria e spesso costretta al suicidio. Queste leggi inoltre potrebbero avere un effetto inaspettato in quanto potrebbero generare ulteriore instabilità in uno stato indiano geopoliticamente nevralgico: il Punjab. Qui la situazione della comunità Sikh è già difficile e si temono nuove vessazioni e violazioni di diritti umani. La protesta dei contadini in India e la marcia verso Nuova Delhi A seguito dell’adozione delle nuove leggi approvate dal governo Modi, i cittadini hanno manifestato la propria rabbia e delusione mediante una protesta pacifica che ha coinvolto uomini, donne e bambini senza distinzione di religione e casta. La contestazione dei contadini indiani, al grido di “Dilli Chalo!” (“Andiamo a Delhi!”) ha assunto i caratteri di una lunga marcia verso la capitale coinvolgendo migliaia e migliaia di persone provenienti dall’India settentrionale, cioè Punjab, Haryana, Uttar Pradesh, Chhattisgarh, Uttarakhand e Himachal Pradesh. Il 27 novembre gli agricoltori indiani sono giunti ai confini di Nuova Delhi con camion, autobus, trattori, moto ma anche a piedi. All’arrivo dei manifestanti la situazione si è fatta tesa e ci sono stati duri scontri con la polizia, che ha usato gas lacrimogeni e cannoni d’acqua contro i manifestanti. Chiunque si fosse trovato per strada (senzatetto, studenti, bambini o protestanti) è stato considerato dal governo come “Terrorista”. Inoltre, all’interno del gruppo dei manifestanti è stata trovata una spia che si era travestita con i vestiti tradizionali Sikh per uniformarsi alla folla. Il 28 novembre si è raggiunto un accordo tra gli agricoltori e le autorità per protestare in luoghi prestabiliti. Parte dei contadini è entrata in città, parte è rimasta ai limiti cantando slogan e sventolando le bandiere. Alcuni invece hanno bloccato la principale arteria autostradale di Nuova Delhi. La situazione era tesa e sono state create barricate da parte della polizia e dei manifestanti per evitare nuovi scontri. In ogni caso la protesta ha raccolto la solidarietà dei sostenitori dei diritti umani e dei residenti in giro per il mondo, che hanno discendenti agricoltori o che sono emigrati dall’India. La marcia di novembre però rappresenta solo l’apice di una protesta durata due mesi. Il 27 settembre il governo del primo ministro indiano Narendra Modi ha adottato tre leggi di liberalizzazione in materia di agricoltura. Dalla data dell’adozione i singoli governi federali hanno cercato di risolvere la questione in maniera autonoma, intavolando delle trattative con il governo centrale. L’insuccesso di queste ha causato una lunga lotta dei sindacati e accampamenti sulle autostrade dei singoli stati, in particolar modo negli stati del Punjab, che è stato il primo stato a mobilitarsi, e del Haryana. La situazione del settore agricolo in India Le proteste degli agricoltori indiani potrebbero rappresentare una rottura sociale di difficile composizione in quanto circa il 58% della popolazione dipende direttamente o indirettamente dall’agricoltura. Secondo i dati offerti dalla Banca mondiale il 41,5% dell’occupazione totale in India è impiegata nel settore agricolo, producendo il 17% del PIL del Paese. In altre parole, l’agricoltura rappresenta la principale forma di sostentamento per quasi un miliardo di persone. Le riforme colpiscono una classe agricola già seriamente in difficoltà in quanto il 52% dei contadini indiani versa in una forte situazione debitoria. In molti, schiacciati dal debito, hanno scelto di suicidarsi. Tra il 2018 e il 2019 si sono suicidati più di 20.00 agricoltori e i suicidi dei contadini rappresentano l’11,2% dei suicidi totali in India. Tale situazione però non è nuova e si protrae dal 1995. Questa infatti è legata al processo di liberalizzazione del settore agricolo che il Governo indiano sta portando avanti anche attraverso l’introduzione delle politiche imposte dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Nel primo decennio di applicazione di queste politiche (1995-2001), che hanno introdotto il libero mercato internazionale, si è assistito a una enorme contrazione dei prezzi dei prodotti agricoli. Tale contrazione è dovuta principalmente ai sussidi che i paesi occidentali forniscono annualmente ai propri agricoltori per tenere bassi i prezzi dei prodotti. I contadini indiani, a differenza dei colleghi occidentali, però non percepiscono alcun tipo di sussidio e sono quindi in balia del crollo dei prezzi imposto dall’andamento del mercato globale. A ciò si aggiunge che queste politiche hanno permesso la creazione di monopoli di mercato controllati da una manciata di corporazioni, prima tra tutti la Monsanto, che si adoperano affinché il Governo di Nuova Delhi adotti politiche a loro favorevoli. Il Governo ha cercato di risolvere la situazione degli agricoltori facendo ricorso, alternativamente, alla concessione di ulteriori prestiti ed alla Minimum Support Price (MSP) policy. Soprattutto quest’ultima avrebbe potuto rappresentare una buona strategia per aiutare le famiglie ad uscire dalla trappola della povertà ma storicamente tale politica non è stata efficace in quanto non copriva i costi di produzione sostenuti dagli agricoltori. Le proteste di novembre infatti sono solo le ultime di molte altre. Durante il primo Governo Modi (2014-2019) possiamo ricordare le proteste nell’India centrale del 2017 e del 2018. La prima si svolse nello Stato del Madhya Pradesh in cui vennero uccisi dalla polizia 6 contadini che chiedevano l’annullamento dei debiti diventati insostenibili e denunciavano l’aumento dei costi di produzione.La seconda invece si svolse nello Stato di Maharashtra e le agitazioni di migliaia di agricoltori si trasformarono in una marcia verso Mumbai. La liberalizzazione del settore agricolo del governo Modi Dal 1991 l’India ha iniziato un ampio programma di liberalizzazione a seguito di una grave crisi economica che ha colpito il paese. Come abbiamo detto il pacchetto di leggi adottato dal governo indiano segue questo percorso ma la riforma del settore agricolo era già parte dell’agenda politica del primo governo Modi. All’epoca però il governo, temendo contraccolpi politici in quanto gli agricoltori sono un fondamentale bacino di voti per ogni partito, ritirò momentaneamente le proposte per allentare le norme di acquisizione dei terreni. Nello specifico le tre leggi

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I diritti LGBTQ+ in India: una battaglia post-coloniale

La presenza di testimonianze dell’antichità indiana ci dimostrano come l’omosessualità, la bisessualità, la transessualità e tutte quelle identità che si riconoscono oggi nella comunità LGBT+, fossero diffuse e non stigmatizzate nelle società precoloniali dell’India. La testimonianza più antica che possediamo è il celebre testo del Kamasutra scritto da Vātsyāyana, che risale ad un periodo non ben identificato tra il 400 a.C. e il 300 d.C., e che dedica un intero capitolo al comportamento omosessuale. Allo stesso modo, testi medici dell’antichità come la Sushruta Samhita dichiarano l’omosessualità come un tratto innato e naturale dell’essere umano. La consuetudine induista non solo accetta l’omosessualità, ma riconosce anche l’esistenza di un terzo genere oltre alla tradizionale divisione binaria tra donna e uomo tipica del nostro occidente. Gli antichi testi del Visnuismo, una delle correnti induiste, scoraggiano il comportamento omosessuale solo per i brahmani (i sacerdoti, nonché la prima casta indiana). La tradizione induista e la concezione che questa ha della comunità LGBT+ dimostrano come l’omofobia sia entrata nella società indiana dall’esterno, tramite il colonialismo inglese che dal XVII secolo al 1947 ha governato sul Paese. La Sezione 377 La società post-coloniale ha mantenuto in auge la legislazione del regime britannico, che puniva con sanzione pecuniaria e una reclusione dai 10 anni al carcere a vita chiunque fosse stato accusato di aver avuto un rapporto omosessuale, ai sensi della Sezione 377 del Codice penale. La legge è rimasta in vigore dal 1861 al 2009 ed è poi stata rintrodotta dal 2013 al 2018, quando una storica sentenza della Corte suprema ha dichiarato indifendibile la criminalizzazione dell’omosessualità. La sentenza dichiara “incostituzionale la Sezione 377 poiché infrange le libertà fondamentali di autonomia e intimità. Ogni discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale è una violazione della Costituzione Indiana.” Dichiara inoltre che “L’orientamento sessuale è uno dei tanti fenomeni biologici che è naturale e inerente a un individuo ed è controllato da fattori neurologici e biologici. La scienza della sessualità ha teorizzato che un individuo esercita un controllo scarso o nullo su chi viene attratto. Qualsiasi discriminazione sulla base del proprio orientamento sessuale comporterebbe una violazione del diritto fondamentale alla libertà di espressione.” La Corte suprema ha inoltre ordinato al governo di adottare tutte le misure per trasmettere correttamente il fatto che l’omosessualità non è un reato, per sensibilizzare l’opinione pubblica, eliminare lo stigma dalla comunità LGBT+ e per fornire alla polizia una formazione periodica per sensibilizzarla sul problema. La comunità LGBT+ in India oggi Oggi, in India due uomini non possono sposarsi né adottare figli. Mentre vengono deposte diverse petizioni in tribunale a favore del matrimonio tra uomini, il 12 giugno 2020 l’Alta corte di Uttarakhand ha dichiarato che la convivenza e i “rapporti di convivenza” sono protetti dalla legge. Per le donne il discorso è diverso. Nel 2011, ad Haryana, la Corte ha riconosciuto un matrimonio tra due donne, creando un precedente legale. L’intervento chirurgico per cambiare il sesso è legale dal 2014 e richiesto per il riconoscimento sui documenti d’identità. Tuttavia, non esistono ancora leggi contrarie alla discriminazione delle persone LGBT+ in India, le quali non possono prestare servizio militare per questo motivo. La sentenza del 2018 è da considerare una notevole vittoria per i diritti umani in India, tuttavia la Corte non ha vietato alcune pratiche ancora diffuse che dimostrano come l’omosessualità non sia ancora accettata dalla società. Tra queste, l’allontanamento dei bambini LGBT+ dalle famiglie, la loro esclusione dalla società, i matrimoni combinati forzati, o ancora le scioccanti pratiche dello “stupro collettivo”, della terapia “curativa” imposta a persone omosessuali, gli omicidi di persone LGBT+ “per onore” e infine i suicidi ai quali sono spinti i membri di questa comunità, per i motivi appena elencati. È importante notare come alcune di queste pratiche siano espressamente vietate dagli antichi testi religiosi, come il matrimonio forzato di sesso opposto tra omosessuali. La disparità presente tra le zone urbane e quelle rurali, tra le caste, le classi sociali, le comunità presenti in India implica una disparità di trattamento nei confronti dei cittadini LGBT+. Vyjayanti Vasanta Mogli, attivista transgender e studiosa di politica pubblica presso il Tata Institute of Social Sciences di Hyderabad, punta il riflettore sulle donne lesbiche e gli uomini transessuali delle zone rurali, che subiscono gli abusi più disumani. “I medici del villaggio spesso prescrivono lo stupro per curare le lesbiche dall’omosessualità. Il rifiuto di sposarsi comporta più abusi fisici. Le storie di accettazione della famiglia che si vedono in TV sono più un fenomeno urbano “. Questo significa che molti membri della comunità LGBT+ Indiana hanno un solo modo per sopravvivere alla loro stessa società: scappare lontano, senza nessun tipo di supporto economico o psicologico, in regioni dell’India più tolleranti o tentando la richiesta di asilo in altri Paesi. Una legge contro la discriminazione è dunque necessaria in questo scenario, e potrebbe avere conseguenze positive non solo a livello nazionale. Le comunità LGBT+ dei vicini Sri Lanka, Pakistan e Bangladesh sono state infatti ispirate dalla sentenza indiana del 2018 per richiedere più diritti ai propri governi. Mentre le fedi abramitiche sono costrette ad abbandonare antichi codici e credenze per accogliere le persone LGBT+ nelle loro comunità, gli induisti devono solo abbandonare le idee importate dalla colonizzazione, e far riferimento al loro antico passato. Se ti è piaciuto l’articolo condividici!

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JASPREET SINGH: Le proteste dei contadini indiani e il ruolo della comunità Sikh

In questa puntata di LMTalks, continuiamo a seguire gli sviluppi delle proteste dei contadini indiani ed a discutere della peculiarità della situazione della comunità Sikh.  Nostro ospite è Jaspreet Singh, Vicepresidente della Sikhi Sewa Society – una Onlus nata “con l’intento e la volontà di costruire un ponte tra i valori della cultura Sikh, di quella italiana e di tutte le altre presenti in Europa”.  Jaspreet è nato in India ma si è trasferito in Italia che era ancora un bambino ed attualmente è uno dei membri più infaticabili della diaspora Sikh, incarnando pienamente uno dei valori fondamentali della loro cultura: l’opporsi alle ingiustizie al fianco dei più deboli.  Questo precetto è anche alla base, come ci spiega Jaspreet durante l’intervista, del coinvolgimento della comunità Sikh in prima linea nelle proteste dei contadini indiani attualmente in corso.   Gli stessi infatti, non sono solo tra i promotori delle rivolte ma sono anche coloro che prestano assistenza di ogni genere ai manifestanti – fornendo loro cibo, assistenza medica, beni di prima necessità – tramite le loro associazioni di volontariato.  Prima di addentrarci nel tema del ruolo ricoperto dai Sikh nelle proteste però, ripercorriamo con Jaspreet le tappe che hanno portato allo scoppio delle rivolte ed alla violenta repressione governativa – che non ha risparmiato anche star di Hollywood del calibro di Rihanna, che aveva rilanciato l’hashtag #FarmersProtest in supporto ai manifestanti, portando così le proteste all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale.  A causa del blocco di internet imposto dal governo indiano infatti, non è per nulla semplice per la società civile occidentale reperire notizie attendibili ed aggiornate sugli sviluppi recenti delle proteste e soprattutto sugli abusi e le violenze messe in atto dal governo per reprimere il dissenso.  Jaspreet ci offre dunque un’occasione unica per riuscire comunque a mantenere i riflettori accessi sulla situazione odierna in India – che, ricordiamo per dovere di cronaca, perdura da fine settembre senza che il governo abbia mai acconsentito ad incontrare i manifestanti per aprire un canale di dialogo – e per denunciare il sempre maggiore aggravarsi della repressione governativa, nel quasi assoluto silenzio della comunità internazionale.  Grazie al suo attivismo quale esponente della diaspora poi, riusciamo a fare un breve excursus storico-politico di quali siano stati i motivi alla base delle secolari tensioni tra la comunità Sikh ed il governo centrale indiano, che è arrivato a bollarli di essere “terroristi” pur di mantenere il controllo quasi esclusivo e diretto delle risorse del Punjab – il più ricco e fertile stato indiano e patria originaria dei Sikh. Queste tensioni sono spesso sfociate in violenze e sono alla base di una discriminazione istituzionalizzata, della quale parleremo più approfonditamente in futuro.  In ultimo, discutiamo insieme di cosa sta facendo attualmente la diaspora per supportare attivamente le proteste dei contadini, di quale sarà il loro futuro e del contributo che la società civile in Occidente può dare affinché le rivendicazioni di migliaia di persone vengano udite e le violazioni che il governo indiano pone in essere nei confronti dei suoi cittadini per difendere una riforma agraria fortemente voluta dalle multinazionali occidentali, vengano condannate e giustamente sanzionate.  Cogliamo l’occasione per invitare tutti a far sentire la loro vicinanza ai contadini che stanno manifestando ininterrottamente da più di sei mesi – in condizioni umanamente difficili e sottoposti ad ogni tipo di vessazione – condividendo e diffondendo notizie utilizzando l’hashtag internazionale #FarmersProtest. In questo modo il dibattito verrà quotidianamente alimentato, i riflettori in Occidente rimarranno accesi ed i manifestanti si sentiranno meno soli a combattere contro un interesse economico che mette il profitto di fronte ad ogni standard minimo di rispetto dei diritti umani.  Noi di Large Movements, in collaborazione con la Sikhi Sewa Society, continueremo a seguire da vicino gli sviluppi delle proteste ed a tenervi aggiornati.   Se ti è piaciuto l’articolo Condividici!

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